Giancarlo Pontiggia, “Il mondo nuovo”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

IL MONDO NUOVO

DI GIANCARLO PONTIGGIA

1

Qui, né Lete né Eunoè. Ci scorre, sì, un fiume,
ma nient’altro che acque: torbide, grevi, ferrigne.
Anche la terra è terra, e basta: umida, tediosa, fetida,
per troppa piova che ci batte. Ma uomini,
di quelli ce n’è tanti, e bestemmiano, sudano,
s’accapigliano. Stridono, anche, su e giù, e gemono
fino al cielo; ma il cielo
non è altro che cielo: vuoto, impervio, rado.
Né voli, né nubi: solo aria, umida e fina, che ti s’impasta
sulla pelle, dappertutto

2

E non si dorme, vedi, ma tutti
abitano qui come talpe laboriose, brulica
la vita per le vie della notte, gridano
i loro nomi, gridano
i nomi che non ci sono, che s’incidono
sulla lastra, vuota, del cielo

3

Chi se li ricorda, i tempi
di un tempo che fu, remoto, inaccessibile,
che compare, talvolta, in sogno, per chi sogna,
ancora.
Ma nessuno più sogna, credimi,
e questo è per voi, che venite di lontano,
l’ostacolo più grande: resistere
al sonno che vi invade, e annienta
la mente che ragiona. Dai sonni, lunghi e ramosi,
discendono i popoli dei sogni, che vi si appiccicano addosso,
come ragne liquorose nella cella
della mente.
Ma nessuno più sogna, qui, dal tempo dei tempi
che furono, e chi ci arriva, come voi, di lontano,
si abitua a non farne,
e così diviene simile a noi, ombra
come tutti

4

E come spaziano gli occhi, lo vedi, oltre il fiume
che scorre tutto intorno, acque su acque
che s’incanalano negli occhi della mente, e divengono
nostro fiume, fiume
del tempo di oggi, che scorre
attimo per attimo, e non si arresta

5

Non c’è straniero che non lo colga, di sera, quando scendono
le ombre della sera – le prime, sempre uguali, così vermiglie – un senso
di abbandono che lo strugge
per giorni e per mesi, per anni talvolta, prima
che non venga una sera, un’altra, non nuova, qualunque,
e lui veda, e comprenda
la laboriosa necessità
di queste notti

6

E qui non si muore, né prima né dopo, e non si taglia
alcun traguardo. Qui le lingue si semplificano, le parole
si riducono a un cesto
di nomi indivisibili.
Qui deporrete, più tardi,
il vostro immane vocabolario:
inetto, frondoso. Qui si è soli di fronte alla materia
che brucia in ombra, e si raddensa
in nomi rari, indefettibili. Qui non è tempo di pensare
cos’è il mondo, la vita, cosa siamo
noi. Né mondo, né vita
ma solo uno scorrere – lungo, uniforme – di cose
che ci riempiono
che ci riempiono

Giancarlo Pontiggia

3 pensieri su “Giancarlo Pontiggia, “Il mondo nuovo”

  1. “Qui si è soli di fronte alla materia
    che brucia in ombra, e si raddensa
    in nomi rari, indefettibili.”
    Forse questi versi racchiudono il senso apocalittico di questa spassionata, fors’anche rassegnata disamina di una svolta epocale. Un’apocalisse in negativo, certo, svuotata di immagini e di nomi. Perché proprio questo forse è il senso ultimo dell’Apocalisse: il confondersi e il dileguarsi delle immagini, persino dei sogni. Il non poter più dare nemmeno un nome alle cose.

  2. Il poemetto è molto bello . Certo più che un “mondo nuovo” sembra piuttosto il “mondo-come-è” dove anche le “talpe laboriose” che non dormono diventano un simbolo sgradevole , “brulica la vita per le vie della notte” , nel buio. Un “divenire greve”, un fiume di acque “torbide”. “Né mondo, né vita ma solo uno scorrere – lungo, uniforme – di cose” . Certo anche , come commenta Giuseppe Martella, il non potere più dare un nome alle cose. Una visione senza speranza in cui non c’è alcuna “luce” aurorale. Dove non c’ è posto per la “bellezza del mondo”. E , per la “parola poetica”- non nel significante ma nel pensiero stesso – Eunoè non agirà senza una nuotata nel Lete. In sintesi un “pensiero-senza-parola” dove lo sguardo può appena cogliere i segni della “bellezza del visibile”.In me agisce ancora il “principio speranza”.

  3. Squarci che affondano uno sguardo lancinante sulla condizione dell’uomo contemporaneo ; visioni emergenti da una prospettiva in cui il mondo appare svuotato, disossato da un qualunque sgnificato, e che rimandano alla cornice di quella wast land in cui la maggiore poesia si muove da un secolo a questa parte, attingendovi immagini declinate in un canovaccio di desolazione irrinunciabile ma in questo caso originale nelle forme (eliotiana è la voce fuori campo, il sottinteso ‘noi’ corale che fa da sfondo alla scena, unanime antifona allo sgretolarsi dell’universo) ; e mentre l’umanità annaspa e brulica e si scopre incapace di riconoscersi perfino nel suo “immane vocabolario”, la lingua trova il suo riscatto, perché ancora in grado di esprimere lo scollamento ontologico tra parola e senso: quella deriva nichilitica che trascina con sé anche alberi, fiumi e cieli, come quando i terzetti di aggettivi associati agli elementi naturali testimoniano una sorta di intimo appassimento subito da aria, acque e terra, ormai inerti spoglie di un materialismo all’ultimo stadio, mera oggettualita’ opaca e muta, lacerti abbandonati da ogni scintilla del divino.

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