Gian Mario Villalta, “Una fantasia vocazionale”

AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni

______

di Gian Mario Villalta

Un autoritratto presume la presenza di uno specchio. Non sono uno storico della pittura, ma è sensato immaginare che ci sia una relazione cronologica tra l’arte di fabbricare specchi sempre più perfetti e l’autofigurazione via via più complessa del soggetto che ritrae se stesso sulla tela. Fino alla deformazione e alla moltiplicazione che la fotografia e il cinema, questi nuovi specchi capaci di catturare l’istante, suggeriscono e forse impongono alla presenza di sé e del mondo figurata in una visione bidimensionale.

La parola, d’altra parte, se pure nell’opera di poesia vorrebbe irraggiare e insieme accentrare una dimensione più stratificata e molteplice del tempo, quando viene al servizio di una narrazione che ha obblighi di relazione più stretti con i fatti, le date, le testimonianze, deve decidere per una quota di fiction, che diventa – a proposito di se stessi – inevitabile auto-fiction. E anche in questo caso, quale specchio si decida di scegliere e dove lo si voglia collocare rimane decisivo.

Una via percorribile è quella della cosiddetta “carriera poetica”, che annovera sodalizi, detta la scansione delle pubblicazioni, menziona eventuali riconoscimenti. Però, per quanto mi riguarda, l’espressione “carriera poetica”, la si voglia ridurre a mera concatenazione di eventi o esaltare in termini di biografia leggendaria, appare inadeguata. Mi pare di non aver fatto altro che la stessa cosa, per decenni, pur cambiando nella vita, aggiungendo studi e relazioni umane: aver voluto scrivere una poesia, averci provato, obbedendo a necessità di espressione e di confronto rispetto alla realtà più ampia del mio stare al mondo e a quella intima del quotidiano esistere. Se poi per “carriera” si volesse intendere un progresso ufficiale di risultati raggiunti, non si può certo usare questo nome per la considerazione che pochi hanno avuto in tutto questo tempo per quello che ho scritto. La situazione della poesia nella cultura attuale permette inoltre a pochissimi, credo, e non certo a me, di considerare la sequenza dei propri lavori poetici nei termini di un pubblico riscontro che abbia una qualche importanza.

Resta il fatto che la poesia e la mia vita sono legate sia nei fatti che nella dimensione interiore così strettamente da segnare ogni successiva sequenza temporale, dall’infanzia, all’adolescenza, dalla maturità all’oggi, quando “maturità” è già una parola da usare con indulgenza.

Potrei raccontare di un ragazzo di diciassette anni che già da tempo legge poesie e subisce il fascino della musica allora definita progressive: vorrebbe diventare come quel Peter Sinfield che figura parte creativa dei King Crimson (non solo un “paroliere”) e scrive i testi di In the Court of the Crimson King e di Islands. Quel ragazzo ha letto Montale, sa che ci sono Sereni, Zanzotto, Sanguineti e altri poeti (molti sono stranieri) menzionati nel paginone centrale del poco più che neonato quotidiano «La Repubblica», che acquista ogni giorno. Cerca in biblioteca, legge, compra qualche “Oscar”. Un giorno, in una cartolibreria, è colpito dai versi che compaiono sulla copertina di un piccolo libro. Costa poco. Lo compra. Pochi minuti a piedi e si siede sulla panchina di un parco per leggere. È La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, nella “bianca” Einaudi. Legge tutta la sequenza. Rilegge. Quando si alza da quella panchina non lo sa ancora, ma è accaduto: diventerà un poeta.

Oppure potrei raccontare come quel ragazzo, sei anni dopo, arriva alla prima pubblicazione avvenuta “alla macchia”, come si diceva una volta, grazie all’amicizia maturata all’università con Roberto Cresti e Claudio Pasi, autore della precedente, prima pubblicazione, in quella nostra “casa editrice” alla quale avevamo dato un nome: Niemandswort, e collocato la sede presso la Galleria Fabjbasaglia di Bologna (Fabj il cognome di Luciana, la madre di Roberto, che ricordo con affetto).

  Niemandswort era il segno di un’affiliazione: gemmava da Die Niemandsrose, il libro del 1963 che rappresentava allora per noi la riva raggiungibile dell’opera di Paul Celan. Raggiungibile anche praticamente, perché l’opera era disponibile intera in versione francese, quando in italiano circolava solo l’antologia mondadoriana  del 1976. Un numero di «Études Germaniques» a lui dedicato dopo la morte ci aveva permesso di vedere il suo viso in una fotografia.

Avevamo da poco passato la soglia dei vent’anni e a quell’età, quando la vita si rivela nella sete di presente, non è raro che le passioni abbiano bisogno di attraversare enigmi per incamminarsi in un deserto di lontananze. La poesia era per noi quel deserto, o almeno la sua parte più misteriosa, e Paul Celan aveva scritto le parole che ne disegnavano l’enigmatico paesaggio. Perché proprio lui – leggevamo “tutti” i poeti, e molti erano quelli che ci appassionavano – perché proprio Celan allora? Me lo sono chiesto spesso.

So che della memoria ci si può fidare solo fino a un certo punto. E quindi provo a dare la risposta di oggi a quello che posso ricordare (o indovinare?) di allora.

La voce di Celan era quella dell’ultima profanazione possibile, ovvero l’ultima possibilità di scagliarsi contro il sacro, non perché c’era, ma perché non c’era più, dileguato prima che potessimo fare altro che indovinare la sua assenza. Era un modo per chiamare qualcosa o qualcuno che non c’era più e non sarebbe tornato. Per questo “il sonno di nessuno”, che dall’epitaffio sulla tomba di Rilke (Rosa, pura contraddizione. Brama d’essere il sonno di nessuno sotto infinite palpebre), sortiva come “rosa di nessuno” nel titolo di Celan, diventava per noi la parola di nessuno,Niemandswort, ovvero non di un “io” che padroneggiava la lingua per comunicare un contenuto, quanto  l’abitare la lingua stessa con una voce senza nome.

Forse erano soltanto i nostri astratti furori. Ma se guardiamo alle date, un’onda s’era già levata a cancellare il mondo della nostra infanzia e della nostra prima formazione. Quel mondo era gravato per me da due silenzi. Uno pesava sul tempo prima di me, prima che io nascessi, sugli anni della guerra e delle sue conseguenze. La biologia, prima di tutto, e poi i meccanismi della memoria, vogliono che si guardi avanti e non più ritornare sulla paura e sul dolore. Però il taciuto, in famiglia e nell’ambiente del paese dove vivevo, le frasi interrotte al mio arrivo, l’evasività alle domande, erano un velo oscuro su eventi trascorsi ma ancora presenti, che percepivo e, non comprendendo, creava in me un senso di inadeguatezza e di precarietà. L’altro grande silenzio era quello della campagna: trasformati in una fabbrica a cielo aperto, sconvolti dalle ruspe e dai diserbanti, i campi sui quali avevo vissuto l’infanzia e l’adolescenza non risuonavano più dello stormire degli alberi e del canto degli uccelli. Al loro posto i rumori dei motori, dei silos, delle sirene delle fabbriche.

Allora “in nessun luogo si chiede di te” non era solo un verso di quel poeta, ma una voce che diceva prima di tutto l’intima lacerazione del suo stesso significare: si chiede di te, la chiamata non tace, ma i luoghi non hanno più nome né destino.

Perché Celan: perché non pensavamo di fare letteratura – avevamo vent’anni – ma credevamo di doverci giocare sulla parola la posta più alta al tavolo della vita. E scrivevamo quello che confusamente ci pareva potesse corrispondervi, il libro di Claudio meno confusamente del mio, più maturo e compiuto del mio.

Non disponevamo neppure di una vera tragedia, della quale non si parlava, e che soltanto intuivamo: eravamo soltanto nati sulle sue ceneri, che si erano mostrate fertilissime, come sempre le ceneri sono, e cresceva rigogliosa la società dei consumi e del tradimento di ogni ideale (chiedo scusa per quest’ultima parola, imbarazzante, ma allora la si usava, per le ultime volte, ancora).

Potrei raccontare, ancora, la prima uscita “ufficiale”, su «Alfabeta», una pubblicazione allora molto letta e prestigiosa, per interessamento di Antonio Porta. Poi ancora il primo volumetto di poesie (tra i giovanissimi “editori” c’è Davide Rondoni). Più tardi, ancora una volta decisivo, l’incontro con i poeti dei Quaderni italiani di Poesia di Franco Buffoni. Tra questi, Stefano Dal Bianco e Antonio Riccardi sono ancora oggi i miei primi lettori.

Potrei raccontare gli anni “a bottega” da Andrea Zanzotto, i primi libri che hanno avuto un po’ di riconoscimento, l’amicizia con Mario Benedetti.

Sarebbe sempre troppo e troppo poco. Sarebbe sempre amplificare qualcosa e trascurare qualcos’altro. Già nel fare questi nomi mi  pento per aver taciuto molti altri con i quali la vita e la poesia si sono legati in tanti anni, nei quali a un certo punto è diventato importante per me il lavoro svolto nella poesia e con i poeti all’interno delle attività del festival pordenonelegge da più di vent’anni.

Alla temuta laconicità di una sequenza di pubblicazioni, c’è il rischio di contrapporre un romanzo autofinzionale che comporterebbe un numero esorbitante di pagine.

Allora propongo al lettore, già stanco per avermi seguito fin qui, un esperimento: cercare nella memoria e con l’immaginazione di ritrovare il momento più lontano nel tempo, dove collocare la “scoperta” della poesia e del poter essere poeta. Risalire, insomma, alle cause della felice patologia – che fa parte della “fisiologia” di ogni essere umano – e che in me si è così fortemente cronicizzata.

Le premesse: sono stato per sei anni un parlante il solo dialetto. Una lingua più che minore, veneta fuori da Veneto, al confine con la parlata friulana, che ha una forte caratterizzazione locale. Avevo coscienza delle principali differenze tra la lingua che parlavo quotidianamente e l’italiano delle occasioni ufficiali e della radio, ma le opportunità di usare quella lingua si presentavano raramente, e credo che le mie performance – se ci sono state – fossero davvero incerte. Continua a leggere