“Ci siamo proprio divertiti”

Mattia Tarantino a due anni dalla morte di Gabriele Galloni si rivolge a lui per la prima volta con una lettera scritta dalla Grecia: “Abbiamo riso da morire”.

Mattia e Gabriele a Napoli da “Michele” in uno scatto fotografico di Simona Russo, 21 marzo 2019

 

Nota di Luigia Sorrentino

Oggi ricorrono due anni dalla morte del poeta Gabriele Galloni (1995-2020).
In questa speciale ricorrenza abbiamo scelto di ricordare Gabriele con una lettera scritta da Mattia Tarantino all’amico fraterno, Gabriele che ha diretto con Mattia la rivista Inverso fino al 2020.

E’ una lettera speciale per diverse ragioni: la prima e forse la più importante è che la lettera ci è arrivata dalla Grecia, dal Patras World Poetry Festival, un’importante manifestazione poetica internazionale con un ricco programma di eventi che si sono svolti in diverse sedi culturali dal primo al quattro settembre 2022. Un Festival al quale Gabriele avreva desiderato dì partecipare per vivere questa esperienza con Mattia  e i loro amici poeti.

Per una strana coincidenza, Mattia proprio da Patras ricomincia a “parlare” con Gabriele, prima non era riuscito a farlo, e lo fa rivolgendosi direttamente a lui nella forma della epistola.

“Sono due anni che Gabriele mi parla con i suoi versi –  ha detto Mattia Tarantino – sono due anni che mi invia segni, presagi, li semina sul mio percorso, segni che solo adesso sono riuscito a decifrare”.

Nella lettera indirizzata all’amico, Mattia ricorda che Gabriele facendo riferimento alla loro amicizia, aveva più volte invitato Mattia a leggere un libro I detective Selvaggi, di Roberto Bolaño, edito da Adelphi. Gabriele cioè aveva invitato Mattia a cogliere il legame che li univa:   un “viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai”. I due protagonisti del romanzo di Bolaño sono Arturo (con il quale si identifica Mattia) e Ulises (con il quale si identifica Gabriele).

Fra i segni di questa particolarissima lettera sono poi richiamati molti altri protagonisti reali della vita di Gabriele Galloni e Mattia Tarantino: amici poeti, simpatici e allegri, ma già segnati dalla sconfitta e dalla follia di una generazione esaltante e allucinata. Fra essi  ricorrono i nomi dei poeti Ilaria Palomba, Ilaria Grasso, Giorgio Ghiotti e poi Julia Gianferri, Ludovica Bernazza, Nicola Barbato e Giovanni Ibello.

Decifrare i segni, dirottare il presagio

Atene, settembre 2022

 

A Villa Kolla, Sotirios e Vanguelis si sono abbracciati. Uno poggiato all’altro hanno camminato insieme fino alle sedie, per prendere posto. Ridevano. “Da quanto tempo vi conoscete?” – “Ah, Mattia, non lo ricordo neanche…”.

Tornato in albergo, mi sono seduto al piccolo scrittoio davanti allo specchio. Dalla finestra, Patra era un crocevia tra i mondi.

Qualcuno cantava in cretese – lingua perduta, lingua irrimediabile – qualcuno in macedone. Qualcuno parlava della guerra, dei nonni, dei bombardamenti.

Due ragazzi, all’angolo della strada, suonavano la chitarra e bevevano un’ultima birra.

La sera prima di partire non ho preso sonno. Pensavo a Bolaño, a I Detectives Selvaggi. “Bello mio, devi proprio leggerlo; sì, si, parla di noi questo libro!”. Per tutta l’estate avevi detto che mi sarebbe piaciuto: capitava, in piena notte, me ne inviassi qualche pagina, oppure me la leggessi. Anche Julia lo stava leggendo, pochi mesi prima.

Ricordo che avevamo litigato, che per settimane non ci eravamo parlati, che c’era voluto tanto tempo per chiederci scusa. Alla fine, però, avevamo scelto di non lasciarci, di continuare insieme, “come Arturo e Ulises”: “Davvero, è pazzesco – c’è qualcosa della tua lirica, e di William Blake; i medesimi angeli vedete voi”.

Alla fine il libro l’ho letto nei giorni del tuo funerale.

Lo ricordo in cucina, a casa di Ilaria, accanto a un pacchetto di Winston. Blue 100’s, rigorosamente.

Ne parlai anche con Giorgio, e con mio padre. Eravamo strani, è vero. Mi chiedevi spesso cosa gli altri ne pensassero di te e io mi chiedo, adesso, cosa pensassero di noi.

L’anno prima diverse riviste e quotidiani parlarono di noi, di noi due insieme, e ci divertivamo, la mattina, a leggerli e immaginare cosa sarebbe successo se uno dei due fosse morto.

Su Carteggi Letterari, Giulio ci aveva chiamati Lucifero e Trismegisto, “compagni di merendine avvelenate. Quel giorno eravamo felici, proprio felici.

Insomma, dicevo, non ho preso sonno.

“Secondo me se andiamo in Grecia se divertimo, oh, ce tocca, là ci vogliono tutti bene”.

Mi sono alzato, ho preso le mie pillole, poi ho vomitato.

Ho acceso una sigaretta sul balcone, sulla Torre. Tu lo sapevi: la Torre nei miei libri non era un Arcano, non lo è mai stata; piuttosto il mio balconcino, il balconcino che conoscevi, con l’ulivo e le piante grasse, lo stesso di cui parlavo tanto spesso a Letizia, lo stesso in cui lessi a Ilaria Bonnefoy.

Movimento e immobilità di Douve” è ancora il mio libro preferito.

Sulla Torre ci ho passato tutta l’estate – e che estate. Ho avuto paura, per la prima volta e a lungo, per mesi. Ho dovuto imparare a dormire con la porta aperta. Per qualche ragione ero convinto che così non mi sarei gettato, che mia madre avrebbe capito tutto un minuto prima che accadesse, che mi avrebbe fermato. In qualche modo, ho avuto ragione.

Devi sapere che, da alcuni mesi, la mia lingua è una geografia sotterranea – una “Mesopotamia dell’invisibile”, direbbe Giovanni – di cunicoli, scorci, trapezi. La prima parola, appena prima dell’estate, è stata “Passaggio”. Poi, “Porta”.

Ora c’è qualcosa che ha a che fare con il mondo di un dio-gufo, con un traghetto per Buenos Aires, con San Lazzaro e gli armeni.

Ho baciato la croce di Sant’Andrea, pochi giorni fa. Il bacio dell’Icona… Dimitris mi ha detto che ho fatto bene, che la croce è una sola e che qualcosa, nella liturgia, è stato tradito per sempre.

Abbiamo a che fare con la calce del sacro, con la sua crosta. Al posto dei capelli abbiamo delle candele accese con bastoncini d’incenso e al posto delle mani qualche rotolo di preghiere indifese, sconsolate, nervose. Qualcosa come una macchina-divina, come un’Asina che scalcia e prende il posto dell’Orsa:

 

Notte irrimediabile. La stella crepita, scortica, rischiara.

Fuori, qualcosa chiede un nome: è un dio dalla testa d’asino. Mascella robusta, pupilla trasparente e spiraloide. Dio Carnevale. Ascoltami: siamo di passaggio. Quel pane, la strada per la porta, cosa significa il cerchio che portiamo. Non chiediamo altro. 

[…]

Vieni a me. Signore del ferro battuto, della sabbia arsa. Signore del latte alle ginocchia, dei merli di cenere. Qui la notte è bianca e io ti chiamo. Noi chiamiamo.

Quando sei morto era un anno che non scrivevo versi.

Solo tu, all’improvviso, avevi fatto in modo che rompessi il silenzio. Come un congedo, un dono d’addio.

Ora i quaderni non bastano, invece, ma i versi sono sciatti, quotidiani, giallognoli – proprio come quelli dei poeti che non ci sono mai piaciuti. I poeti che piacciono ai critici ma che non hanno un lettore, quelli a cui si chiedono dei versi inediti per l’autunno ma non riceveranno mai una lettera da qualcuno all’orlo, all’Orlo.

L’Orlo: se un’aldilà esiste, ed esiste, questo è il nome della stanza che ti è stata assegnata. Ne sono certo. A vent’anni ho capito questo, della vita, e che sono innamorato di tutte le cameriere del mondo e un cioccolatino lo accetterò sempre.

Penso anche che mentre scrivo l’Orlo si sia manifestato e abbia preso posto, ora, alla fine del Passaggio, appena dopo la Porta.

Occorre decifrare i segni, Gabriele, dirottare il presagio. L’ho detto anche a Ludovica, qualche giorno fa. L’ho detto anche Nicola. “Attendo il tempo in cui il miracolo riscriverà / la storia, la spalancherà, lascerà traballanti / le colonne del mondo”, scrive lei, e lui risponde che “Siamo il raggio di un mondo / che cigola. Una lettera al posto / di un’altra che le somigli ma parli / un’altra lingua”.

Entrambi sono nella mia stanza, lei suona il tamburo, lui fuma una sigaretta, guardano la fotografia che Simona ci ha scattato a Napoli.

Avrei voluto scattarla, una fotografia, a Sotirios e Vanguelis. Avremmo potuto essere noi, lo sai. Avremmo potuto camminare insieme fino alle sedie, poi sederci, ridere. Avremmo potuto dire che no, non riusciamo a ricordarlo da quanto tempo ci conosciamo. Magari a un giovane poeta greco, in qualche paesino accanto Roma. Magari a San Lorenzo.

Ti piaceva tanto, San Lorenzo. È un santo ed è un quartiere, è una notte ed è una piazza.

Poco prima che morissi ti avevo fatto il verso. Lo avevo fatto alle quartine sui morti. Continua a leggere

In memoria di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni / credits ph. Dino Ignani

Un anno fa, a Roma, il 6 settembre 2020, moriva nel sonno il giovane poeta Gabriele Galloni. La sua prematura scomparsa a soli 25 anni è stata un colpo al cuore per tutti quelli che hanno conosciuto e amato la sua poesia.

Oggi vogliamo ricordare Gabriele riproponendovi la rilettura della recensione di Giuseppe Martella su “L’estate del mondo” (Marco Saya, 2019) e alcune poesie di Gabriele tratte dalla raccolta.

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

L’estate del mondo è un poemetto onirico in cui si risolve brillantemente il breve e intenso apprendistato poetico-esistenziale di Gabriele Galloni. Esso mette in scena una condizione psichica, quella della rêverie, intesa come flusso di coscienza, allucinata divagazione a occhi aperti. Qualcosa che va oltre il sogno (rêve) e, amplificandolo, lo estende alla condizione di veglia, facendone uno stato ontologico primario, l’aurora del fantasticare, l’abbandono alla immaginazione diurna che sta alla base della creazione letteraria e artistica. (Bachelard)

In tale sogno vigile si mette in scena una stagione della vita, l’adolescenza, e un’epoca della storia, la nostra. In un costante scambio pronominale, che solleva l’io/tu della tradizione lirica a livello archetipico, facendone un dialogo fra Animus e Anima, le figure inconsce complementari della psiche femminile e maschile, (Jung) mettendo così in scena un io poetico androgino che qui si individua e si esprime.

Il poemetto è diviso in tre parti, che si sovrappongono e si intersecano, come accade nei sogni: la prima è una esplorazione notturna, lunare, non priva di effetti da Instagram: “Luna di Luglio…. Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra/ pensando fosse un fondo di bicchiere.” (12)

“Ma quanto ci ingannammo, sulla Luna./ Chi la credette un foro sulla tela/ del cielo” (14). Oppure: “La Luna, questa sera,/ è l’ombra di un insetto…. Tentiamo, al buio, di raschiarla via.” (17) Una luna di lattice “pronta/…. a cadere, a tornare in fondo al mare/ come all’inizio della storia umana.” (64) E così via.

La seconda è una escursione diurna, solare, fra le dune, le sterpaglie e il mare, a sondare le “ineluttabili modalità del visibile, le segnature di tutte le cose” (Joyce, Ulisse), i limiti del diafano sopportabili dalla percezione e dalla memoria, nel mondo odierno della sovraesposizione dell’immagine che disintegra l’aura della cosa: “è bello correre, andarsene via/ da ogni luce che sia/troppo grande per queste nostre mani.” (9) Per guadagnare la reciprocità degli sguardi, la giusta distanza da cui percepire la “lontananza/ che ritorna. L’eternità felice/ del tuo viso indagato controluce” (10) luce che macera “presso ogni riva” (75) e che si condensa nel “bianco della parete a fine di giornata” (77), riflettendosi infine su quel “muro enorme bianco”, alla fine del poema, che costituisce il correlativo oggettivo di ogni soglia esplorata e massime della rappresentazione stessa, dell’utopia di una eterna adolescenza. (80)

La terza è infine una ricerca salvifica dell’ombra, intesa sia che come riparo all’eccesso di luce e di calore di questa stagione, che come presenza perturbante del passato, delle figure parentali, dei morti, nonché come nostalgia del tramonto, del futuro, dell’orizzonte degli eventi, della fine: “Nudi nell’ombra fonda dell’armadio;/ trattenendo il respiro” (29). “L’ombra/ dei caseggiati popolari” (59) Ma anche “un’ombra sconosciuta/dietro le cose amate” (23), il brulicare delle tacite presenze dei morti che “transumanati già; si stringono in cerchio”, (66) traducendo il tempo lineare nella pura durata di una stagione o di un’epoca, nella melodia cullante del verso memorabile, che racchiude però il rischio di un comune naufragio “nel vuoto di una sillaba”, “in un murmure di annegati”. (66)
Il poemetto porta insieme a compimento l’apprendistato tecnico-esistenziale dell’autore e la consumazione della tradizione lirica, ridotta a puro schema dell’appercezione trascendentale, trasportata dallo spazio della scrittura a quello cinematografico in senso lato, sicché l’intera composizione si può anche leggere come una scenografia in attesa di essere tradotta in film su quel grande muro bianco, alla fine della giornata. (Continua a leggere qui).

_______

Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo;
sii giovane con me prima che un’altra
corrente ci separi – o ci risvegli.

***

È in questa vita un’altra vita nuova
e in questo corpo un altro corpo ancora.

Mi segui fino al bagnasciuga e indietro; affiora
a pelo d’acqua una bottiglia vuota.
È notte, ma la spiaggia è affollatissima;
così che mi è difficile ascoltarti.

Raggiungiamo le dune. C’è un sentiero
dietro il canneto; porta
alla vecchia fabbrica di sapone.
La luce dei falò qui non arriva –
e nemmeno una voce.

Ho tredici anni. E della voce adesso
saprò tutto quello che c’è da sapere; da fare.

Ché in questa vita è un’altra vita nuova
e in ogni corpo un altro corpo ancora.

***

Ti chiamerò a distanza di molti anni
e avrò da tempo smesso di sapere.

Dunque non parlerò; e non parlerai
nemmeno tu. Ma tornerà per tutti

e due la prima sabbia; illuderemo
l’età giovane che dorme nei nostri letti.

Condividiamo una identica estate;
diremo un corpo che non è stato mai.

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In memoria di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

Per festeggiare il l 26esimo compleanno del giovane poeta Gabriele Galloni collaboratore di Pangea, scomparso prematuramente all’età di 25 anni,  il 9 giugno 2021, si terrà al teatro San Raffaele di Roma, in zona Trullo, via San Raffaele, 6 alle  17.30, un evento in suo nome con letture di poesie tratte dai libri di Gabriele.

Lo ricorderanno gli amici  poeti: Marcello Veneziani, Ignazio Gori, Davide Cortese, Antonella Rizzo, Mina Pugliese, Giorgio Ghiotti, Ilaria Palomba, Ilaria Grasso, Emanuela Dottorini, e tanti altri.

Nel corso della serata i cantautori  Andrea del Monte e Leonardo Mirenda si esibiranno con dei loro brani.

Sarà presente anche Gianni Caruso, Presidente del Premio Poesia città di Fiumicino, alcune istituzioni, il regista Carmine Amoroso, il fotografo dei poeti Dino IGNANI.

Grazie alla disponibilità di Pino Cormani, Direttore Artistico del teatro San Raffaele e della Compagnia Teatrale” IL CILINDRO” è stato possibile pensare a questo evento.

L’organizzazione è stata curata da Gianfranco Teodoro.

Parteciperanno alla manifestazione amici e parenti e insegnati della scuola Cine TV Roberto Rossellini di Roma. Continua a leggere

Galloni, “Bestiario dei giorni di festa”

Gabriele Galloni, credits ph. di Dino Ignani

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Bestiario dei giorni di festa è un libro che Gabriele Galloni aveva ultimato, o forse stava ultimando, nei giorni che hanno preceduto la sua improvvisa e prematura scomparsa, a soli 25 anni. Si tratta di quaranta testi brevissimi, quasi tutti formati da tre versi, terzine di endecasillabi. I componimenti di Gabriele come negli antichi bestiari medievali, hanno per titolo nomi di animali, pesci, uccelli, rettili, insetti. Bestie, appunto. In realtà sono maschere, travestimenti, dei quali il giovane poeta si serve da un punto di vista stilistico. Riprendendo certi toni favolistici di Esopo, Galloni ammonisce i comportamenti umani spesso caratterizzati da incongruenze, assurdità, contraddizioni, e soprattutto, incoerenze logiche e morali.  Se si riflette su questi testi pubblicati postumi, senza rinunciare al gioco e all’ironia, ognuno di noi può incontrare proprie o altrui, contraddizioni, bassezze, viltà.

 

Il cane

Un cane con due zampe è sempre un cane.
Purché sempre ricerchi con la coda
la fissità delle cose lontane.

Lo struzzo

Andando sempre avanti tutto il mondo
ci dimenticherà. Lo struzzo
preferisce così girare in tondo.

Il maiale

Il maiale divora le carcasse
dei suoi simili. Si fa il bagno nei liquidi
mortuari; è sempre il primo della classe.

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Fare epoca: “L’estate del mondo” di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni /Credits ph Dino Ignani


NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

L’estate del mondo è un poemetto onirico in cui si risolve brillantemente il breve e intenso apprendistato poetico-esistenziale di Gabriele Galloni. Esso mette in scena una condizione psichica, quella della rêverie, intesa come flusso di coscienza, allucinata divagazione a occhi aperti. Qualcosa che va oltre il sogno (rêve) e, amplificandolo, lo estende alla condizione di veglia, facendone uno stato ontologico primario, l’aurora del fantasticare, l’abbandono alla immaginazione diurna che sta alla base della creazione letteraria e artistica. (Bachelard)

In tale sogno vigile si mette in scena una stagione della vita, l’adolescenza, e un’epoca della storia, la nostra. In un costante scambio pronominale, che solleva l’io/tu della tradizione lirica a livello archetipico, facendone un dialogo fra Animus e Anima, le figure inconsce complementari della psiche femminile e maschile, (Jung) mettendo così in scena un io poetico androgino che qui si individua e si esprime.

Il poemetto è diviso in tre parti, che si sovrappongono e si intersecano, come accade nei sogni: la prima è una esplorazione notturna, lunare, non priva di effetti da Instagram: “Luna di Luglio…. Per poco, ma l’abbiamo fatta nostra/ pensando fosse un fondo di bicchiere.” (12)

“Ma quanto ci ingannammo, sulla Luna./ Chi la credette un foro sulla tela/ del cielo” (14). Oppure: “La Luna, questa sera,/ è l’ombra di un insetto…. Tentiamo, al buio, di raschiarla via.” (17) Una luna di lattice “pronta/…. a cadere, a tornare in fondo al mare/ come all’inizio della storia umana.” (64) E così via.

La seconda è una escursione diurna, solare, fra le dune, le sterpaglie e il mare, a sondare le “ineluttabili modalità del visibile, le segnature di tutte le cose” (Joyce, Ulisse), i limiti del diafano sopportabili dalla percezione e dalla memoria, nel mondo odierno della sovraesposizione dell’immagine che disintegra l’aura della cosa: “è bello correre, andarsene via/ da ogni luce che sia/troppo grande per queste nostre mani.” (9) Per guadagnare la reciprocità degli sguardi, la giusta distanza da cui percepire la “lontananza/ che ritorna. L’eternità felice/ del tuo viso indagato controluce” (10) luce che macera “presso ogni riva” (75) e che si condensa nel “bianco della parete a fine di giornata” (77), riflettendosi infine su quel “muro enorme bianco”, alla fine del poema, che costituisce il correlativo oggettivo di ogni soglia esplorata e massime della rappresentazione stessa, dell’utopia di una eterna adolescenza. (80)

La terza è infine una ricerca salvifica dell’ombra, intesa sia che come riparo all’eccesso di luce e di calore di questa stagione, che come presenza perturbante del passato, delle figure parentali, dei morti, nonché come nostalgia del tramonto, del futuro, dell’orizzonte degli eventi, della fine: “Nudi nell’ombra fonda dell’armadio;/ trattenendo il respiro” (29). “L’ombra/ dei caseggiati popolari” (59) Ma anche “un’ombra sconosciuta/dietro le cose amate” (23), il brulicare delle tacite presenze dei morti che “transumanati già; si stringono in cerchio”, (66) traducendo il tempo lineare nella pura durata di una stagione o di un’epoca, nella melodia cullante del verso memorabile, che racchiude però il rischio di un comune naufragio “nel vuoto di una sillaba”, “in un murmure di annegati”. (66)
Il poemetto porta insieme a compimento l’apprendistato tecnico-esistenziale dell’autore e la consumazione della tradizione lirica, ridotta a puro schema dell’appercezione trascendentale, trasportata dallo spazio della scrittura a quello cinematografico in senso lato, sicché l’intera composizione si può anche leggere come una scenografia in attesa di essere tradotta in film su quel grande muro bianco, alla fine della giornata. Continua a leggere

La poesia di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

L’arte del montaggio: Gabriele Galloni, Creatura breve, Ensemble, 2018
di Giuseppe Martella

 

Per comprendere a fondo la poesia di Gabriele Galloni, è bene tenere a mente le preziose indicazioni che egli ci ha offerto in diverse occasioni, a partire dall’intervista concessa a Michele Paoletti su Laboratori di poesia, dove, alla domanda su come nascano le sue poesie, risponde: “Di solito parto da un’immagine, un fotogramma di vicenda, una situazione – la narrativa non mi abbandona mai. Cerco di misurare e limare quello che voglio dire; lo costringo nella melodia della metrica, che mi permette di consumare il consumabile nel modo migliore possibile – cioè puntando all’essenziale e senza sprechi linguistici. Altre volte invece mi visita improvviso un verso, undici sillabe perfette, e da lì continuo sviluppando o riducendo, mutilando.” Questa bipolarità caratteristica della inventio di Gabriele è un indizio di un più decisivo dualismo che caratterizza la sua poetica: quello fra immagine e parola, che si manifesta poi con diverse modalità e a diversi livelli nei suoi vari testi. Come se fra l’ordine verbale (più pacato e tradizionale) e quello iconico (più convulso e sovversivo) corresse una continua tensione, irriducibile all’unità di un solo codice. Si tratta di un dialogismo radicale che non riguarda solo o tanto l’ambito dei generi letterari, coinvolgendo invece i vari media della espressione artistica, come se i suoi versi costituissero nel contempo gli appunti di una sceneggiatura cinematografica in fieri.

Le sue poesie nascono dunque da una istantanea che contiene un nucleo narrativo che poi si sgrana nel rosario dei versi da cui attinge da un lato la misura e dall’altro la possibilità della messa a fuoco di qualche dettaglio, nel gioco degli stacchi e dei controcampi, proprio come nell’esercizio del montaggio cinematografico. In questo duplice movimento si realizza in senso tecnico quella tensione fra discorso e figura, o fra vita e forma, che anima da un lato il testo artistico e dall’altro la creatura vivente, per quanto breve sia il tempo della sua esposizione allo sguardo altrui. E’ ciò che io chiamo poetica del foto-gramma intendendo con ciò la resa (o l’arrendersi) dell’istantanea nella traccia chirografica e nella gabbia del verso. Non si tratta dunque solo della traduzione dell’immagine viva in segni inerti, didascalie della vita, ma anche della tensione irrisolta fra due tipi di segno, l’icona e il simbolo, come se fossero entrati in un vortice gravitazionale che conduce a uno stravolgimento dello spazio-tempo del discorso: come nel vertice di una clessidra, o spirale di un passaggio epocale, doppia elica che segna il fissarsi di una traccia (treccia) nel DNA dell’esserci qui ed ora della “creatura breve”. Del Fanciullo Divino, il poeta millennial, scrittore ed editor di immagini, che si cala nella sua cesura epocale, giocando ai limiti della trasparenza dove ogni ritocco è a rischio di cancellazione.

Poetica del fotogramma, intesa poi anche nel senso proprio della istantanea predisposta al montaggio cinematografico o digitale, ma pertanto sempre esposta al rischio di essere scartata dalla versione finale del film, per diventare appunto un out take, come recita il titolo della prima lirica di questa silloge che ci dà la chiave per l’interpretazione di tutta la produzione di Galloni, che obbedisce a una poetica del ritaglio e del prelievo, del ritocco e della cancellazione, operando sulla soglia che distingue l’epoca della rappresentazione da quella della simulazione e la civiltà letteraria da quella digitale, fondendo l’ontologia dell’icona con quella del simbolo. Perché qui si tratta di un montaggio anomalo, spurio, che coniuga immagini e parole senza risolverne il dissidio, mantenendole in una esitazione prolungata che complica di fatto quella canonica fra suono e senso, caratteristica di tutta la poesia. La complica assumendola come un’eredità defunta, da un lato, e dall’altro consegnandola all’interazione con l’immagine-movimento, così come i nostri trapassati sono “le didascalie del mondo” e “l’indicibile/ della conversazione” e la loro musica “il contrappunto/ dei passi sulla terra”, per usare immagini tratte dalla silloge precedente che pone tra l’altro anche una domanda cruciale sul destino della creatura breve e della sua traccia, del singolo e della specie umana.

I due testi sono infatti intimamente connessi nella loro struttura radicale, al di qua della tematica stessa. Se insieme a Slittamenti e a In che luce cadranno questa Creatura breve è infatti terza di una trilogia, bisogna precisare però che si tratta della costola di una costola, dal momento che Slittamenti costituisce il repertorio tematico-strutturale da cui viene poi estratta ed espansa la pantomima dei morti viventi, di cui a sua volta Creatura breve costituisce un ritaglio che ne espande certi dettagli, mostrando scorci inediti e sorprendenti. Si tratta dunque a mio avviso di un’opera cruciale nella breve carriera di Galloni, come uno spasma rivelatore del “poco tempo concesso all’autore”[1], perché qui raggiungiamo il massimo della contrazione del discorso e le sue figure raggiungono la massa critica, scomponendosi in gesti spasmodici che preparano il Big Bang, quella loro dissoluzione in atmosfera che si attuerà mirabilmente nell’Estate del mondo. Se è vero infatti che qui si interroga la natura della brevitas letteraria in quanto tale, sondando i limiti dell’aforisma e dell’epigramma in quanto forme di chiusura del senso nello spazio chirografico, tali limiti si sfumano e sfrangiano poi nel rinvio all’immagine, nel passaggio di genere dal racconto alla sceneggiatura, nella mutazione funzionale della scrittura dal momento che è divenuta un pretesto di quel racconto per immagini che è il film e più in generale di tutte le composizioni audiovisive che gli hanno fatto seguito. Di queste mutazioni Creatura a breve reca una traccia da non sottovalutare perché, se in una prospettiva puramente letteraria questa silloge è probabilmente la meno riuscita della triade, nella dimensione intermediale in cui effettivamente opera essa è assolutamente rivelatrice della poetica di Galloni, in quanto nuovo paradigma in cui comprendere la poesia dei millennials. In questa prospettiva essa dischiude anche la bellezza e il valore di una serie di gemme in sottotraccia, perché il terreno di questo discorso porta le crepe, i segni di un terremoto metafisico. Si osservi infatti la struttura frattale dell’opera intera di Galloni, di cui ogni parte riprende il disegno dell’intero come in un effetto zoom in cui affiorano particolari imprevisti, veri e propri annunci angelici icasticamente e perversamente condensati per esempio nello sperma che l’angelo pazzo e muto depone in bocca alla Vergine o alla Beatrice di turno (8.) Messaggio in codice genetico (16), fenotipica torsione di ogni progetto esistenziale o storico, nonché dell’intero genere della profezia biblica, mutazione della parola incarnata (poetica o evangelica) in quanto testimonianza dell’offerta del Creatore che si fa creatura, e più in generale del sacrificio del capro espiatorio di turno (parte maledetta e pietra angolare di ogni comunità immaginabile) e della sua trasfigurazione nel Dio di un popolo. O si prenda per l’appunto il tema dei “morti viventi”, prelevato di peso dalla raccolta precedente e messo subito a fuoco e a soqquadro all’inizio di questa silloge, come scarto di montaggio, Outtake recuperato, messo in rilievo e riassunto in una immagine folgorante che coniuga il destino della eredità culturale con quello della speculazione, affondando nel medesimo naufragio il retaggio della civiltà letteraria e l’atto della sua rappresentazione: “I morti naufragano negli specchi.” (7) Da cui emergono poi, nello spazio della simulazione intermediale, squisiti e blasfemi, osceni e perversi, gli ologrammi della nuda vita. Naufragio epocale alla presenza di una divinità interdetta e ammutolita, nel vortice di angeli ed annunci che segna il nuovo gioco del mondo: “Giocammo a ciò che ci sembrava/ essere il gioco giocato dagli angeli -/ ma Lui non potrebbe mai dirvelo.” (9) Continua a leggere

L’epoca nuova di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni, particolare di una foto di Dino Ignani

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

Come si è osservato da più parti, nella sua breve carriera, Gabriele Galloni ha ricevuto notevole attenzione critica, sia per quanto riguarda il valore dell’opera che la sovraesposizione della figura e l’ostentato narcisismo del suo autore. Ma le due cose stanno insieme, come due facce dello stesso foglio di carta ormai consunto, che è diventato da tempo file di testo, sovrascrivibile in un elusivo sottotraccia: ed è questo il primo punto che caratterizza la poetica di Galloni. Il suo essere nativo digitale.

Erede della tradizione lirica come qualcosa di defunto e trapassato, di cui egli raccoglie le spoglie e i profili sparsi, gli echi, le schegge dell’aura, come un testamento o un legato con cui fare i conti. Perché ogni eredità la si conquista, la si abbraccia o stritola, a seconda dei casi, la si irride nel mentre la si onora, la si volge in parodia, meglio ancora se nessuno se ne accorge. E’ questa la posta in gioco specie a un passaggio epocale, dove il rapporto fra tradizione e talento individuale si fa più problematico, come già T.S. Eliot, in un saggio ben noto, aveva perspicuamente e definitivamente sancito. Tutto ciò che è venuto dopo da parte della critica, l’ “angoscia dell’influenza” e tante altre cose amene è solo una glossa a margine di quel breve saggio di neanche dieci pagine, in cui il giovane poeta che ha inaugurato il modernismo europeo, mettendo in scena in una ridda di profili La terra desolata, il disincanto del mondo, dopo la ferita del primo dopoguerra, la cui cicatrice avrebbe segnato a vita il secolo breve, il maledetto mitico Novecento.

Anche Galloni è un giovane poeta, venuto un secolo dopo, in una situazione completamente rovesciata, di stasi e di narcosi, dove ogni tragedia è preclusa allo spirito del tempo, inflazionata dai media al punto da diventare farsa nel migliore dei casi, o peggio di creare assuefazione in un dormiveglia postprandiale davanti alla TV.

Immagini su immagini riviste, nelle nostre Notti di pace occidentale, naufragi con spettatori che moltiplicano l’archetipo discusso da Blumenberg in una foresta di specchi. Quando tutte le risorse del linguaggio sono state saggiate ed esaurite, bruciate dalla prepotenza delle immagini e dalla derisoria sfilata dei simulacri che confondono la parola e la cosa senza residui, e senza remissione.

E’ questa la condizione del poeta nei primi decenni del nuovo millennio: l’essere erede di una tradizione ormai passata in giudicato, come una sentenza illeggibile sul nostro destino. E la sua missione è quella di porsi su una traccia cancellata, come un segugio, fidando nei suoi spiriti animali, o se si vuole come un cyborg progettato a tempo breve, braccato da mille cacciatori di replicanti che ne reclamano le spoglie, fuggendo sempre sul filo della lama del rasoio, come un Blade Runner, che ha visto “cose che voi umani” neanche osate immaginare, per salvarvi, perché “il genere umano non può sopportare troppa realtà” (Quattro Quartetti).

In questo dialogo fra due poeti di statura incomparabile, in molti sensi, che brucia il tempo e lo trasforma in epoca, pura sospensione fra battute di una melodia arcana, dissoluzione auratica di ogni cronologia, di ogni cronaca e storia, indicibile diafano effetto di atmosfera, Stimmung (con tutta la polifonia e il carico semantico della parola tedesca) e stigma impalpabile sul corpo teatro di chi si fa testimone, magari suo malgrado, sacerdote e vittima, paria e capro espiatorio, di colpe che non solo lui ha commesso.

Parte maledetta di un insieme che su di lui si regge a malapena, nelle spirali del sacrificio, dove ciascuna volta, come ne La colonia penale di Kafka, bisogna reimparare la Legge, servi e signori, nella trasfigurazione del volto del prigioniero, alla dodicesima ora, quando l’erpice ha affondato abbastanza il suo uncino nel corpo vivo (punto di svolta, piega e chiasma della carne del mondo) e l’urlo attende la sillabazione. E’ così che il gioco della presenza e della traccia a più riprese si inscena, creando spazi vuoti di storie da riempire, gesticolazioni, graffi sulle pareti delle grotte, graffiti sui palazzi cittadini, tatuaggi sui corpi adolescenti, segni di un passaggio sempre soggetti alla cancellazione. Continua a leggere

L’ultimo saluto a Gabriele Galloni

 

Gabriele Galloni

A più di tre mesi dalla scomparsa del giovane poeta Gabriele Galloni, sabato 19 dicembre 2020 alle 14.30 l’urna, contenente le sue ceneri, verrà deposta al cimitero di Santa Ninfa, a Fiumicino, sul litorale tirrenico, il “cimitero dell’acqua e del vento”, accanto al Parco di Villa Guglielmi.

Fiumicino e Focene erano “i luoghi poetici” di Gabriele che ricorrono con evidenza nell’ultima raccolta di versi pubblicata in vita da Gabriele, L’estate del mondo. E proprio Gabriele aveva più volte espresso il desiderio – se mai ne avesse avuto la possibilità – di comprare una casa  a Fiumicino o a Focene.

Su Facebook il giorno 26 agosto 2020, Gabriele aveva scritto un post: “Comunque alla mia morte, voglio come epitaffio i seguenti versi:

“Noi fummo l’immagine dell’uomo,
non la creatura breve ma la traccia.”

I genitori, Irma Bacci e Mario Galloni, hanno rispettato la volontà di Gabriele e hanno inciso sulla lapide i suoi versi, una sorta di testamento della sua poesia.

Gabriele si è spento nel sonno per arresto cardiaco a soli 25 anni la mattina del 6 settembre 2020. Quella notte aveva dormito a casa del padre. E proprio il padre ha raccontato che la mattina del 6 settembre Gabriele si era svegliato verso le 7:00, si era alzato dal letto e avevano avuto una breve conversazione. Poco prima che il padre uscisse per fare la spesa, Gabriele aveva detto che si sarebbe messo a letto per dormire ancora un po’, aveva preso con sé un libro  poi, rivolto al padre aveva detto che avrebbero fatto colazione insieme al suo rientro.

Non è stato possibile … Gabriele non si è mai più svegliato.

(di Luigia Sorrentino)

 

da L’estate del mondo di Gabriele Galloni, Marco Saya Editore, 2019

Abbiamo superato Fiumicino
e tu hai fatto, ricordo, una battuta
su tutto ciò che era passato in questa
vita senza per noi lasciare traccia.

E poi hai indicato il fumo che saliva
dal mare. Tutte le strade erano bloccate
e noi già pensavamo ad altro; a quello
che tutti quanti pensano d’estate.

Campo

Un giorno la vedremo intera, questa
stagione. Basterà
un fuoco in spiaggia a memoria di festa
e il bagnasciuga a dire l’aldilà
delle conchiglie mai raccolte:

Controcampo

così tante – ricordi? – Che per tutta
la notte ci hanno tormentato. In sogno
maree su maree di conchiglie.
Il letto ne fu invaso; le lenzuola
ci ferirono per tutto il tragitto fino alla spiaggia.

**

Noi dormiamo raccolti nell’estate.

Ha smesso già di svegliarci il rumore
del mondo. I nostri piedi sono nudi,
scoperti, ché il lenzuolo è troppo corto.

Il nostro sonno è come una corrente
di risacca; per ore non riusciamo
a svegliarci. Trascorre la mattina

in una luce, una luce che è febbre
da fondale marino; sia destino
guardare tutta la vita da qui.

Sia destino arrivare al pomeriggio
sul filo che divide e l’acqua e l’aria;
e insieme farli in due passi questi anni.

**

I ragazzi alla spiaggia di Focene,
insieme incontro all’onda sonnolenta
che ritornando bagna loro il fianco
adolescente. È questa vita, lenta,

la sua illusione qui della durata
eterna. Quando ciò che resta è il bianco
della parete a fine di giornata;
il mese placido, tempo che viene,

i ragazzi alla spiaggia di Focene.

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Gabriele Galloni (1995-2020)

Gabriele Galloni

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Questa foto di Gabriele Galloni mi è particolarmente cara. Me la inviò Gabriele per email il 5 novembre 2017 con alcune sue poesie inedite dal titolo Orazioni di giugno, poi confluite con un altro titolo a gennaio 2018 nella raccolta In che luce cadranno.

Gabriele aveva solo 22 anni quando mi contattò la prima volta.

Era nato a Roma nel 1995, studiava Lettere Moderne all’Università La Sapienza e aveva da poco pubblicato con Alter Ego – Augh! Edizioni la sua prima silloge, Slittamenti.

Lessi la prima poesia fra gli inediti che mi aveva inviato nella email. Era questa:

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile:
sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile.

Gli risposi sempre per email che mi piacevano le sue poesie, e che ne avrei volentieri pubblicato qualcuna sul mio blog. Purtroppo la morte di mio padre, il 4 dicembre 2017, mi tenne lontana da Gabriele e dalla sua poesia.

Fu Ida Cicoira, una mia amica, a riparlarmi di lui. Ma io non ero in grado di recepire nulla in quel momento, totalmente assorbita dal grande cambiamento che aveva occupato la mia vita.

Il giovane poeta Gabriele Galloni si è addormentato senza più svegliarsi il 6 settembre 2020, a soli 25 anni.

A tre mesi dalla scomparsa lo ricordiamo con questi versi tratti dalla sua ultima raccolta: L’estate del mondo, Marco Saya Editore, 2019.

In questi versi si percepisce molto chiaramente la voglia di vivere che aveva Gabriele, un ragazzo dalla personalità dichiaratamente votata alla poesia. Sono versi luminosi, sembrano scritti pensando a un cortometraggio girato con la cura e i dettagli del poeta che vede l’invisibile.  Le poesie sono il ritratto di una giornata serena, trascorsa vicino al mare, contrassegnata da apparizioni e da sparizioni.

Si legga il finale di uno dei testi qui sotto riportati: [… “è bello correre, andarsene via/ da ogni luce che sia/ troppo grande per queste nostre mani.

Sono le parole  di chi vuole possedere il mondo, l’eternità felice di una giovinezza che però sa bene di non poter trattenere quella luce, troppo grande anche per le mani del poeta.  

Gabriele sapeva che la vita e la gioia, sono momenti fugaci, scorrevoli.

I suoi testi sono quelli di chi desidera rimanere negli occhi chiari dell’estate conservando in una tasca molto profonda una conchiglia, raccolta nell’età dei ragazzi, un’età di gioia e di disperazione, l’età della ferita e della bella giornata di sole tanto profonda e lontana da noi da dimenticarsene.

Questa raccolta conserva una luce che partecipa a un sogno:  camminare sul mondo che perde le nostre tracce.

Si legga infine la  poesia Campo/Controcampo: il campo ripreso dal regista-poeta riprende davanti a sé una stagione intera, quella della vita; nel controcampo, in ciò che l’altro vede, il poeta fa riferimento a un tempo trascorso con le tante conchiglie raccolte. Ma  la bella giornata irripetibile , è finita.

Gabriele conosce bene il sentimento della  nostalgia, della perdita, che qui  si intravede, nella consapevolezza che tutto ciò che si vive è destinato ad allontanarsi da noi. E’ qualcosa che avviene davvero in questi versi, e avviene proprio mentre lo si vive, e niente, se non la memoria, potrà riportare in ognuno di noi, l’estate del mondo.

 

I

Nel parcheggio del centro commerciale
mi parlasti di certi
giorni d’isole; giorni dall’uguale
passo del mare misurati interi.
Mi raccontasti poi di come aperti
all’onda i cieli aprissero sentieri
mai apparsi prima, neanche agli occhi esperti
dei residenti che alla roccia e al sale
erano familiari.

II

Io non ti domandavo; solamente
ascoltavo in silenzio, interrompendoti
per mostrarti le foto che prudente
ti coglievo di spalle. E riprendendo
perdevi sempre il filo; ti arrabbiavi
ma un attimo, per finta: ché ignorandomi
presto ricominciavi.
Le corse a perdifiato tra i canneti;
l’eco pomeridiana e l’eco a notte.
L’animale brusio e le sue interrotte
chiamate; e certi libri di poeti
scovati in biblioteche sotto il mare.

 

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Sulla poetica di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni, credits ph. Dino Ignani

NOTA DI GIUSEPPE MARTELLA

Slittamenti è il titolo della prima e fondamentale raccolta di Gabriele Galloni.

Graficamente il testo è molto spaziato: i versi vi nuotano come filamenti di galassie in espansione, o come fotogrammi portati da un vento cosmico, stringhe di codice (verbale, numerico, genetico, tutt’insieme) che hanno perso il loro scopo evolutivo e la password per il ritorno alla Matrice.

Hanno perso l’aggancio con l’origine e col fine, sicché l’eccesso di luce e il candore del dire disegnano scenari per l’elaborazione del lutto e della malinconia.

La sua è una poetica della scansione esatta e pulita che va al di là del metro e della parola, per acquisire direttamente l’immagine e montarla in un discorso editabile e rimediabile.

Il suo sguardo è quello di uno scanner e di un laser, la sua poetica una nanotecnologia della parola-immagine, lo spassionato algido s/montaggio digitale delle fette di vita da parte di un software evoluto in grado di apprendere, ma per ciò stesso fragile ed esposto ai virus dell’ambiente.

Spietatamente egli mette in scena infatti la discrasia sistema/ambiente a vari livelli del vissuto e del testo. Nel suo dire (o mostrare), il silenzio interlineare fa da sfondo, come un tappeto sonoro in negativo.

Il silenzio che accomuna i vivi e i morti, che dilata lo spazio della figura e sospende il tempo dell’evento, preparando il gesto surreale che ci attende, che ci appare in primo piano o in campo lungo, in panoramica o carrellata, dopo lo stacco che fa da legame a diversi livelli del testo, a partire dalla metrica.

Da quella versificazione piana, scontata quasi nel suo tramandare (e tradire) il retaggio della lirica nostrana ed europea, con la più assoluta sprezzatura di ogni “ricercar”, come se questo fosse già avvenuto altrove, in altro luogo e tempo della storia sociale e della propria anima, in una sorta di slittamento fondante dalla psiche individuale allo spirito del tempo (Zeitgeist).

Per quanto la situazione evocata infatti possa spesso essere idiosincratica, perversa, persino oscena, l’atmosfera, la Stimmung, ha sempre in Galloni, una valenza collettiva che attraversa la carne del mondo e la trascende in una prospettiva comunione tra i vivi e i morti.

Certo la fascinazione della morte è una delle costanti della sua poesia, dove thanatos eclissa eros e lo perverte, lo rende obliquo ed elusivo, anfibio e androgino. Diluito e liquidato nel campo semantico dell’amicizia e nella dimensione del ricordo. Ne fa ingrediente e collante di una messa in scena che mira ad altro, al radicalmente Altro, alla comunione coi morti, appunto, con lo spettro di luce del mondo in cui viviamo, con la sua eccessiva trasparenza che brucia lo sguardo, con i limiti del diafano dove si dissolve ogni figura.

In una ridda di echi letterari si consuma qui infatti il rovesciamento, la preclusione di ogni romanzo di formazione, nel tempo reale della rete, nel presente allargato del villaggio globale.

Nel solco scavato dall’ombra lunga dello Stephen Dedalus di James Joyce, l’intransigente artista giovane in cerca di una resa dei conti con l’intera tradizione letteraria dell’occidente: “ineluttabile modalità del visibile: almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi… limiti del diafano.”
Così Stephen all’inizio del terzo capitolo dell’Ulisse, quando esplora i detriti cangianti della marea e della storia, sulla spiaggia di Dublino, parodiando Aristotele.

Stephen, figura del Figlio, seconda persona della trinità biblica che regge il poema eroicomico in prosa dell’Ulisse (la prima è Leopold Bloom, homme moyen sensuel, la terza Molly Bloom, nuda supina carne del mondo, in attesa di registrare gli eventi di una giornata o di un’epoca).

Artista giovane, colto ed ironico, intransigente specie nei confronti di sé stesso, è anche Gabriele Galloni, con la differenza che per lui non c’è alcun esilio salvifico, nessun altrove dove fuggire, nessuna distanza da guadagnare: è prigioniero della società della trasparenza e della prestazione, dello show business, del Glamorama in cui tutti siamo nel contempo registi e attori coatti, per quanto possiamo esserne consapevoli e prendercene gioco.

Lo “slittamento” è la chiave della sua poetica. Tra continuità e salto, tra metonimia e metafora, c’è una terza via: lo scivolamento continuo delle immagini su una pellicola traslucida, sulla carne del mondo esposto al sole guasto e impietoso dei nostri giorni, come quando in una allucinata vacanza estiva gli adolescenti, “I ragazzi di Focene” scendono in spiaggia o meglio vengono gettati nell’aperto, seminudi e semicoscienti. Nel seducente dondolio di un’onda lunga che promette l’infinità del tempo, l’onnipotenza dei desideri, ma che poi alla fine della giornata si spegne e si asciuga su una parete bianca che non ne conserva traccia: in questa nostra società liquida, di cuspidi e catastrofi, che ospita dimore vacanti e imprevedibili spazi di violenza. Continua a leggere

Si terranno giovedì 10 settembre a Roma i funerali del giovane poeta Gabriele Galloni

 

Giovedì 10 settembre dalle 8:30 alle 9:30 il corpo di Gabriele Galloni sarà esposto per gli amici che desiderano rendergli l’estremo saluto, per un’ora, dalle 8.30 alle 9.30 presso la sede della Medicina legale al cimitero Verano di Roma.

Alle 9:30 la salma sarà portata nella chiesa di San Raffaele, nel quartiere Trullo di Roma  per la celebrazione dei funerali  che cominceranno alle 11.

Una poesia di Gabriele Galloni da “L’estate del mondo”, Marco Saya, 2019

 

Campo

Un giorno la vedremo intera, questa
stagione. Basterà
un fuoco in spiaggia a memoria di festa
e il bagnasciuga a dire l’aldilà
delle conchiglie mai raccolte:

Controcampo

così tante – ricordi? –  Che per tutta
la notte ci hanno tormentato. In sogno
maree su maree di conchiglie.
Il letto ne fu invaso; le lenzuola
ci ferirono per tutto il tragitto fino alla spiaggia.

 

COMMENTO DI IDA CICOIRA

Aveva studiato al Rossellini- l’istituto cine.televisivo- Gabriele Galloni, e in questa poesia il riferimento al linguaggio cinematografico è chiarissimo. Si tratta di due inquadrature speculari, campo e controcampo: nella prima, l’inquadratura, oggettiva, ci mostra una spiaggia, d’estate, uno dei temi a lui più cari; nella seconda introduce una soggettiva, e quelle stesse immagini si rivestono della luce malinconica della memoria, impressionando una pellicola immaginaria.

Ho scelto questa poesia per ricordare Gabriele, il poeta, l’amico, che ci manca già immensamente.

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Lutto nel mondo della poesia per l’improvvisa scomparsa del giovane Gabriele Galloni

Gabriele Galloni

Di Gabriele Galloni mi parlò per la prima volta una mia amica, Ida Cicoira nell’aprile del 2018. Era un periodo molto difficile per me, mi preparavo a un cambiamento enorme, radicale, ma questa non vuole essere una giustificazione. Oggi so che avrei dovuto occuparmi di Gabriele, prestare attenzione alla sua poesia e per questo tornerò in seguito a parlarvi di questo giovane poeta.

Gabriele, mi scrisse Ida Cicoria, a soli 22 anni aveva già pubblicato nel 2017,  la sua prima raccolta di versi “Slittamenti” con una prefazione di Antonio Veneziani e subito dopo era uscita la seconda “In che luce cadranno”. Per scrivere il suo secondo libro, mi spiegò Ida, Gabriele aveva portato avanti un lavoro di ricerca intervistando dei malati terminali.

Non aggiungo altro. Pubblico una manciata di suoi versi… ripetendo qui quello che qualcuno dei suoi amici mi ha scritto la notte scorsa su messanger: “Gabriele si è addormentato e non si è più svegliato”.

Ciao, caro Gabriele. Perdonami. Non ho saputo difenderti.

LUIGIA SORRENTINO

______

I morti tentano di consolarci
ma il loro tentativo è incomprensibile.
Sono i lapsus, gli inciampi, l’indicibile
della conversazione. Sanno amarci

con una mano – e l’altra all’Invisibile.

*

Ho conosciuto un uomo che leggeva
la mano ai morti. Preferiva quelli
sotto i vent’anni. Tutte le domeniche
nell’obitorio prediceva loro

le coordinate per un’altra vita.

*

Scappi via e ridi; lasci che la schiuma
ti evapori nel tuffo – e piena l’onda
già ti fa ruzzolare sul fondale.

Questi anni nostri non avranno male;
saranno sempre gli anni del Miracolo
per ogni luce che mi indicherai

spegnersi a basso volo sopra i campi
di Torvaianica.

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