Tra dolore e ricordo, la morte di chi resta

Luigia Sorrentino credits ph. di Gerardo Sorrentino

Su “Piazzale senza nome” di Luigia Sorrentino
di Federico Carrera

 

Il senso autentico e profondo dell’ultima raccolta di poesie di Luigia Sorrentino – Piazzale senza nome, edito da Pordenonelegge-Samuele Editore nel settembre del 2021 – è tutto racchiuso, non richiesto ma non celato, nelle prime pagine della silloge, in quello spazio in cui l’intento autoriale da astratto si fa narrabile.

Proprio in questo delicato luogo di soglia Sorrentino pone una citazione plutarchea in cui la morte dei vecchi è assomigliata a un giungere a destinazione e quella dei giovani a un naufragio (Fr. 205 Sandbach). Questa citazione trova il suo primo controcampo poche pagine dopo, in una breve prosa poetica sapientemente intitolata Morti parallele (il titolo plutarcheo delle Vite parallele viene così rovesciato).

Ed è proprio con questo testo che Sorrentino apre la pista alla lunga schiera di naufragi e di incontri con la morte di personaggi giovani, che sono insieme astratti, come simboli di una generazione, e concreti, come ricordi di persone davvero vissute e davvero smarritesi.

Sotto questo aspetto, Piazzale senza nome è senza dubbio un libro fortemente generazionale, un piccolo poema epico-narrativo sulle sventure di una generazione – gli adolescenti degli anni Ottanta – che si è trovata coinvolta in un insieme di circostanze disperate: droga, incidenti, omicidi, violenza. E i versi di Luigia Sorrentino, nella loro metrica piana e narrativa, assestata intorno all’endecasillabo, evocano con grande potenza una curiosa sensazione di malinconia, che richiama vagamente quel contorcersi di membra proprio dello spleen di baudelairiana memoria.

Le descrizioni lucide e dolenti di Sorrentino si susseguono dunque senza una rigida struttura che le inquadri, in modo che il discorso – così vivo e autentico – non si riduca a banale racconto letterario, ma mantenga la sua potenza espressiva.

Così unitario, eppure così spezzato e frammentario, il racconto di Sorrentino sembra voler raccogliere i cocci di ciò che rimane oggi di questi giovani, dopo il trascorrere di tanta memoria, in un susseguirsi di liriche brevi, ma pungenti ed esatte nell’espressione e nella lingua.

Ciò che colpisce è il fiume di parole che investe il lettore: parole esatte, cariche di ricordo, e che la stessa Sorrentino sembra aver scritto quasi senza controllo, lasciandosi trascinare dall’urgenza del dettato – tanto che i testi sono datati come composti in un biennio, tra il 2017 e il 2018.

Quando sentii per la prima volta Luigia Sorrentino parlare di questo libro, nel contesto del Poesia Festival delle Terre dei Castelli, una sua frase mi ha colpito molto: «la poesia ci parla sempre di una condizione umana precaria». Continua a leggere

Valerio Magrelli, da “Ora Serrata Retinae”

POESIAFESTIVAL 2014
photo Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

Preferisco venire dal silenzio
per parlare. Preparare la parola
con cura, perché arrivi alla sua sponda
scivolando sommessa come una barca,
mentre la scia del pensiero
ne disegna la curva.
La scrittura è una morte serena:
il mondo diventato luminoso si allarga
e brucia per sempre un suo angolo.

Io abito il mio cervello
come un tranquillo possidente delle sue terre.
Tutto il giorno il mio lavoro
è nel farle fruttare,
il mio frutto nel farle lavorare.
E prima di dormire
mi affaccio a guardarle
con il pudore dell’uomo
per la sua immagine.
Il mio cervello abita in me
come un tranquillo possidente delle sue terre.

La porta si chiude modulando
nei cardini il suono del corno.
È il canto della notte
l’armonia che giaceva
ignorata nel legno.
Chiunque passando provoca
la musica sepolta, ogni volta
riaffiora disuguale.
Forse un linguaggio ne governa
I termini e le misure, forse il caso.
Il discreto disegno
della ruggine e dell’acqua
narra la segreta epopea della soglia. Continua a leggere

Roberto Alperoli: “La poesia purifica la lingua, la salva”

roberto

Roberto Alperoli

INTERVISTA di Guido Monti

Incontro Roberto Alperoli ideatore e direttore artistico di Poesia Festival Terre dei Castelli, uno degli eventi più riusciti per qualità e progettualità culturale che si tiene da dodici anni nel territorio emiliano. Ci sediamo in una trattoria di Modena molto nota vicino al teatro Storchi. La canicola del sole settembrino ci riporta in pieno agosto. I suoi occhi in attesa di domande, hanno quella vividezza e curiosità propria di quei bimbi al culmine della fanciullezza. Roberto nel tuo libro,“Il cielo di oggi”, di qualche hanno fa, in una poesia molto toccante dal titolo “La madre”, dici : “E’ tanto tempo/che non mi manchi più,/che non mi chiami; /eppure sei stata tu // la mano del mio principio, l’assunto abbagliante/del mio dolore; //…”. Ecco allora potrei girarti questa poesia in forma di domanda.

Come è maturata in te la decisione di creare questo festival nel 2005 assieme ai compagni del primo momento Alberto Bertoni e Paola Nava? Forse appunto perché la poesia la sentivi come mano del tuo principio e volevi però anche tenacemente mostrarla ad una comunità più ampia? Avevi intuito che questo territorio potesse avere in sé quel terreno di coltura per la crescita della pianta poetica?

Ho un lungo rapporto con la poesia, che fa parte della mia vita da sempre, direi. La leggo, la scrivo, la seguo nella sua dimensione pubblica. Il suo valore, la sua importanza – anche terapeutica – la sperimento (l’ho sperimentata) su di me, sulle persone che conosco. Anche sul valore pubblico, civile, etico della poesia rifletto da tempo. Soprattutto oggi che la lingua è stata colpita al cuore, che il linguaggio è un lungo, ininterrotto boato di frasi fatte, inerti, di parole caricaturali, senz’anima. La nostra è un’epoca di monotonia espressiva, spettacolare e rumorosa. La lingua è gridata nelle trasmissioni televisive, mortificata dalla pochezza della politica, massificata e banalizzata dal web, orfana dei comportamenti e dei modelli che, un tempo, ne sapevano custodire la vocazione civile. Il linguaggio della politica, poi, ne ha enfatizzato l’impotenza. Il dolore della lingua è proprio la sua inespressività. E nel frastuono e nell’impoverimento delle parole siamo tutti più poveri. Ecco, salvare la lingua, il bene pubblico della lingua, significa allora salvare noi stessi, le nostre emozioni e i nostri pensieri, che solo il linguaggio rende comprensibili e comunicabili. Ed è qui il valore della poesia, che si oppone a questo collasso perché è un ingrediente attivo del linguaggio, uno spazio per la propria identità. Purifica la lingua, rimette al mondo l’innocenza delle parole. Si oppone alla miseria individuale e alla miseria pubblica. Continua a leggere