Il ritmo feroce di “Piazzale senza nome”

Luigia Sorrentino credits ph. Angelo Nitti

L’esperienza del dolore in Piazzale senza nome 
di Fabrizio Fantoni

Con Piazzale senza nome (Collana Gialla Oro Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021) Luigia Sorrentino ci consegna una potente ricognizione dell’esperienza del dolore, vissuta attraverso il parallelismo tra la morte del vecchio e quella del giovane espresso dall’esergo tratto dai Fragmenta di Plutarco: “La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”

In questa citazione ritroviamo il nucleo tematico attorno al quale ruota l’opera poetica dell’autrice che si articola nella correlazione tra due antitesi – approdo-naufragio – in una continua alternanza di avvicinamenti e allontanamenti, sotto la spinta di una lingua che non lascia tregua al lettore, che si colora di scarti improvvisi e repentine accelerazioni, per poi attenuarsi in un andamento orizzontale, ampio, quasi a simulare il respiro universale di una grande fine.

Il morire della persona amata impone il voltarsi indietro, tornare alla terra del padre per evocare la vita segnata dalla sofferenza dei giovani conosciuti nell’adolescenza: la morte del vecchio decreta la fine di un tempo – “la beata, sfiorata giovinezza”– e comanda di dare voce al sangue versato, comprenderne la ragione, dare un nome al dolore.

 

Con Piazzale senza nome Luigia Sorrentino compie un viaggio di ritorno all’origine che si concretizza attraverso il ricordo di una generazione ferita dalla dipendenza e dal convincimento di avere la forza di potersene liberare: Posso smettere quando voglio. In tale certezza risiede l’inganno della giovinezza che porta al naufragio. Continua a leggere

Cesare Pavese, tre poesie

Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950

TU SEI COME UNA TERRA

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.

29 ottobre 1945

TU NON SAI LE COLLINE

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

9 novembre 1945

E ALLORA NOI VILI

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto ‒
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu piú dolcezza,
non fu piú abbandonarsi
al sentiero sul fiume ‒
‒ non piú servi, sapemmo
di essere soli e vivi.

23 novembre 1945 Continua a leggere

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza”

Vittorino Curci

“Credo che da sempre il principale compito affidato al poeta sia quello di liberare le parole per rigenerare il linguaggio. In questo nostro tempo però il poeta si fa carico di un altro compito, non meno importante: quello di verificare se siamo ancora vivi.”

Vittorino Curci

ESTRATTI

 

Vittorino Curci, “La ferita e l’obbedienza” (Prima edizione 2008, I libri di Icaro).
Dalla seconda edizione ampliata dall’autore sono estrapolati  gli ESTRATTI qui pubblicati, (2017 Spagine).
Spagine è un periodico di informazione culturale dell’Associazione Fondo Verri presidio del libro di Lecce.

 

1. I testi necessari

De quoi souffres-tu?
De l’irréel intact dans le réel dévasté.

René Char

Voglio raccontare queste figure. Non posso ignorarle. Sono figure eloquenti, compatte, intrattabili.
La verità della poesia è nel suo farsi confine e legge della sua stessa inutilità.
Il destino e gli sguardi si sono incrociati. Le ferite cantano.
Il poeta è colui che per debolezza o necessità alza lo sguardo, e così facendo si accorge di non avere più le vertigini.

Non sto qui con la faccia da scemo di chi vive in un mondo bellissimo che vorrebbe spiegare agli altri.
Il pianeta è ammalato e altro non ci è dato conoscere che il punto in cui ci troviamo.
Tra le cose più giuste da fare, quell’immergersi e imparare di cui parla Benn nel primo verso di Aprèslude.

Di che soffri?
Dell’irreale intatto dentro il reale devastato.

Parole condotte alla luce, battute sul corpo. I frantumi di un vaso che nessuno può mettere insieme.

“Faccùlo faccùlo” gridò più volte il ragazzo ritenendo che un solo “faccùlo” non rendesse a sufficienza l’idea di quanto fosse arrabbiato.

La stanchezza dei nostri conflitti è diversa. L’irreale ci è scoppiato addosso.
Noi siamo lanciatori di coltelli.

Con Rimbaud e Mallarmé la poesia moderna ha avviato un processo spirituale che non ha precedenti nella storia dell’umanità, una vera e propria rivoluzione incentrata sul linguaggio a cui, per la prima volta, viene data la possibilità di parlare apertamente di se stesso.
Le parole infatti non sono del poeta. Anche se egli arriva al punto di inventarle, esse di fatto non gli appartengono. E allora, se le parole non sono del poeta, di chi sono? Della comunità linguistica cui il poeta appartiene? Oppure dell’umanità nella sua interezza?
Se queste domande hanno senso – e se hanno un senso, indicano una direzione nella quale cercare – io dalla mia esperienza ho imparato che nella vita di ogni giorno si usano le parole per dire qualcosa.

In poesia invece sono le parole che vogliono dire qualcosa. Scrivere poesia perciò vuol dire essenzialmente ascoltare.

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Cesare Pavese, “Lavorare stanca”

 

A N T E P R I M A     E D I T O R I A L E 

 

La riedizione di Lavorare stanca di Cesare Pavese, curata da Alberto Bertoni per la collana «Interno Novecento», con nota al testo di Elena Grazioli, persegue fedelmente l’ultima volontà dell’autore, proponendo il testo così come Pavese scelse di pubblicarlo presso Einaudi, nel 1943, una volta giunta a piena maturazione una profonda modifica strutturale rispetto alla princeps, uscita per le Edizioni Solaria sette anni prima, con l’aggiunta di una trentina di liriche, il ripristino delle sei poesie censurate a suo tempo dal regime, la rimozione di alcuni altri testi e l’inserimento in appendice dei due testi di poetica, Il mestiere di poeta e A proposito di certe poesie non ancora scritte. Come evidenzia Bertoni nella lunga e approfondita introduzione al testo, «se si vuol racchiudere Lavorare stanca in una formula, la migliore rimane quella di “sperimentalismo realistico”, forgiata per le “poesie-racconto” che lo compongono da Edoardo Sanguineti, il quale le stimava proprio per la loro capacità di resistenza al “trionfo, tutto novecentesco, della poesia come lirica”».

 

 

Cesare Pavese (1908–1950), scrittore, poeta, traduttore e critico letterario è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Esordisce con la traduzione di Moby Dick di Herman Melville, nel 1932; due anni più tardi prende avvio la collaborazione, durata tutta una vita, con la casa editrice Einaudi, che stampa, nel 1943, l’edizione aumentata della sua prima raccolta poetica, Lavorare stanca, uscita per Solaria nel ’36. Oltre la sua attività di redattore, traduttore e americanista, pubblica romanzi e racconti: Paesi tuoi (1941), Feria d’agosto (1946), Dialoghi con Leucò (1947), La bella estate (1949) per cui riceverà il premio Strega. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, uscirà nella primavera del ’50. Nell’agosto dello stesso anno si toglierà la vita all’albergo Roma di Torino. Usciti postumi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apice della sua poesia, e il diario che lo ha accompagnato dal 1935 fino alla morte, Il mestiere di vivere.

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L’eterno ritorno di Milo De Angelis

Milo De Angelis / credits ph. Fabrizio Fantoni – Serralunga di Crea, Monferrato, gennaio 2020

L’ultima stazione

Su Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis

di Fabrizio Fantoni

Basta con le lacrime, vecchio imbroglione!
Smettila di piagnucolare, hai vissuto tanti anni e non ne hai afferrato uno solo, hai desiderato sempre ciò che non potevi avere. La vita ti è passata vicino e adesso la morte, la grande sconosciuta si è posata sulla tua fronte. Forza, devi sbrigarti, devi arrenderti al tempo, devi morire.

Questo frammento del terzo libro del De Rerum Natura di Lucrezio nella traduzione di Milo De Angelis potrebbe costituire un valido commento all’ultimo libro di poesie dello stesso De Angelis  Linea intera, linea spezzata (Mondadori, 2021).

Vi è, infatti, una corrispondenza fra l’opera di Lucrezio, (che Milo sta sistematicamente traducendo da molti anni) e l’ultima produzione poetica di De Angelis. Questo lavoro quindi, è testimonianza di un antico sodalizio artistico, un dialogo a distanza mai interrotto fra due maestri che ora trova una concreta e definitiva forma.

È tardi, siamo all’ultima fermata. La vita è passata accanto e al poeta non resta che prolungare l’attimo, fermarsi sul limite per l’ultimo saluto, l’ultimo colloquio, l’ultimo sguardo, per vedere ancora una volta la pioggia cadere…

Il confine che separa l’essere ancora e il non essere più, è breve, fragile, eppure, in questo spazio infinitesimale, mai la vita è stata più vera. Su questo margine che divide ed attrae il poeta rivolge lo sguardo in se stesso per ritrovare la verità e la bellezza di una vita che ora, solo ora per la prima volta, è solamente vita, esistenza che si srotola di fronte ai suoi occhi e gli rivolge lo stesso interrogativo che Lucrezio pone nel secondo libro del De Rerum Natura: “Ti basta questo, ti basta questo spettacolo per guarire la tua anima folle di paura, ti basta questo?”.

In questa domanda è racchiuso il nucleo tematico attorno al quale ruota Linea intera, linea spezzata e, al tempo stesso, la ragione per cui queste poesie sono state scritte. Continua a leggere

Cesare Pavese, il poeta delle Langhe

Cesare Pavese

Tu non sai le colline

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

Ascolteremo nella calma stanca

Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.

Ti ho sempre soltanto veduta

Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.

Mattino

La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare. Continua a leggere

Cesare Pavese, una poesia

Cesare Pavese

INCONTRO

Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.

L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.

Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, e pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino, Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.

L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.

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Bianca Garufi, il volto delle donne

Bianca Garufi

“Tu sei veramente una fiamma che scalda ma bisogna proteggere dal vento. A volte non so se un mio gesto tende a scaldarmi o a proteggerti. Anzi allora mi immagino di fare le due cose insieme e questa è tutta la mia e la tua tenerezza come una cosa sola.”
Cesare Pavese

Pavese dedica a Bianca Garufi i “Dialoghi con Leucò”, trasposizione greca del nome Bianca. Lei è per Pavese, la Musa e l’interlocutrice ideale dei Dialoghi.

Una poesia di Bianca Garufi

Sono stata cavalla
mucca farfalla
Sono stata una cagna
una vipera un’oca
Sono stata tutte le cose mansuete
e ampie della terra
il vuoto del corno che chiama alla guerra
l’oscuro tunnel dove sferraglia il treno
la caverna a notte dei pirati
Sono stata quella che sempre deve essere là
una certezza quadrata
Sono stata tutto ciò che poteva servirti
a prendere il volo
sono stata anche tigre
cima e voragine
strega
sacra e terribile bocca dentata
Come avresti potuto altrimenti essere tu il cacciatore
l’esploratore
l’eroe dalle mille avventure?
Sono stata persino terra e luna
perché tu potessi metterci
il piede sopra
E adesso
questa ruota si è fermata
devo fare una cosa
mai fatta forse mai esistita
una cosa anche per te ma
soprattutto per me
per me sola
tanto autentica e nuova
che trema persino il volto della vita. Continua a leggere

La poesia di Yiannis Pappas

Yannis Pappas

Pubblichiamo qui alcune poesie di Yiannis Pappas, poeta e filologo greco.
Tra le numerose attività svolte da Yiannis, segnaliamo qui, in particolare, la sua attività di poeta e traduttore: ha tradotto le poesie di Cesare Pavese, [ndr. parzialmente pubblicate sul blog poesia] Printa, 2004. Insieme al poeta Sotiris Pastakas, ha tradotto 12 moderni poeti italiani [c. “Planodion”, dicembre 2007).
Qui leggiamo le sue poesie nella traduzione di Crescenzio Sangiglio.

Στον κήπο πίσω από το σπίτι

Στον κήπο, πίσω από το σπίτι, τη νύχτα σκάβοντας
έφτανε λαχανιασμένος στο όνειρο.
Εκεί συναντούσε τους παλιούς του φίλους,
ονόματα και εικόνες τώρα πια ,
μιας νιότης που φαντάζει μακρινή. Και μέσα στο όνειρο
ακούγονταν γέλια και φωνές,
χειρονομίες , ένταση, νυχτερινές εξορμήσεις
για να γίνει δυνατό τʼ αδύνατο.
Τη μια καβάλα σε μαύρο άλογο γεφύρι να περνάει,
μετά να τραγουδά στη Σαλονίκη,
την άλλη σε ξένες χώρες να περιπλανιέται,
στο τέλος να πνίγεται στη λίμνη της κυρα-Φροσύνης
Κι ύστερα πάλι απʼ το λαγούμι
που έσκαψε γυρνάει εκεί στον κήπο πίσω
από το σπίτι να συνεχίσει τη ζωή του
όλο και πιο μόνος τώρα πια.

Nel giardino dietro la casa

Nel giardino dietro casa di notte scavando
ansante raggiungeva il sogno.
Vi incontrava i suoi vecchi amici,
ormai nomi e immagini di una gioventù
lontana a vedersi, e nel sogno
s’udivano voci e risate.
Gesti, tensione, uscite notturne
per rendere possibile l’impossibile.
Ora in groppa a un cavallo nero ad attraversare il ponte,
e poi a cantare a Salonicco,
ora a vagare in terre straniere,
annegando alla fine nel lago di sora-Frosslni.
E poi di nuovo uscendo dalla fossa del covile
scavata nel giardino dietro casa
ritoma li per continuare a vivere
ormai sempre piu solo.

​​​Trad. Crescenzio Sangiglio
​​​Rivista Fermenti, no 235, 2010 Continua a leggere

Cesare Pavese, nella luce stupita

LA NOTTE E IL RICORDO

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

Lo stupore di una notte remota avvolge questa poesia di Cesare Pavese. È un istante della vita, ventoso e limpido il ricordo del vago ricordare. Lo sguardo del poeta ha conservato il ricordo di una notte lontana che non sapeva che avrebbe ricordato. Perché quando viviamo un’esperienza, non sappiamo che cosa resterà in noi di quel vissuto, cosa entrerà nel nostro ricordo, non lo sappiamo mai. Ecco apparire lo stupore, la fissità dello sguardo remoto che vede. Lo sguardo remoto è sempre immobile, statico, come pietra appuntita conficcata nel petto. Il bambino guarda la notte sui colli d’estate, ammassati, senza confini. E in quella immobilità solo il frusciare nitido delle foglie, in una morte inconsapevole, desiderio di nulla. Continua a leggere

Cesare Pavese & Yiannis Pappas

Cesare Pavese

I mari del Sud Cesare Pavese

                         (per A. Monti)

Camminiamo una sera sul fianco di un colle,
in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo
mio cugino è un gigante vestito di bianco,
che si muove pacato, abbronzato nel volto,
taciturno. Tacere è la nostra virtù.
Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo
– un grand’uomo tra idioti o un povero folle –
per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino… ”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.
Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,
ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre
di questo stesso colle, è scabro tanto
che vent’anni di idiomi e di oceani diversi
non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta
con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino,
usare ai contadini un poco stanchi.

Vent’anni è stato in giro per ii mondo.
Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne
e lo dissero morto. Sentii poi parlarne
da donne, come in favola, talvolta;
uomini, più gravi, lo scordarono.

Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino
con un gran francobollo verdastro di navi in un porto
e auguri di buona vendemmia. Fu un grande stupore,
ma il bambino cresciuto spiegò avidamente
che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania
circondata da un mare più azzurro, feroce di squali,
nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo
il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo.
Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero
che, se non era morto, morirebbe.
Poi scordarono tutti e passò molto tempo.

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi,
quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta
che son sceso a bagnarmi in un punto mortale
e ho inseguito un compagno di giochi su un albero
spaccandone i bei rami e ho rotta la testa
a un rivale e son stato picchiato,
quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,
altri squassi del sangue dinanzi a rivali
più elusivi: i pensieri ed i sogni.
La città mi ha insegnato infinite paure:
una folla, una strada mi han fatto tremare,
un pensiero talvolta, spiato su un viso.
Sento ancora negli occhi la luce beffarda
dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra,
gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro.
I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto,
se li è mangiati tutti e torna in giro.
I disperati muoiono cosi “.
Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno
nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento
con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina
e sul ponte hen grossa alla curva una targa-rèclame.
Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi
e lui girò tutte le Langhe fumando.
S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza
esile e bionda come le straniere
che aveva certo un giorno incontrato nel mondo.
Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco,
con le mani alla schiena e il volto abbronzato,
al mattino batteva le fiere e con aria sorniona
contrattava i cavalli. Spieghò poi a me,
quando fallì il disegno, che il suo piano
era stato di togliere tutte le bestie alla valle
e obbligare la gente a comprargli i motori.
“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,
sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere
che qui buoi e persone son tutta una razza”.

Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina,
sempre aumenta d’intomno il frusciare e ii fischiare del vento.
Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno
scrivo sul manifesto: – Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste
della valle del Belbo – e che la dicano
quei di Canelli “. Poi riprende l’erta.
Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio,
qualche lume in distanza: cascine, automobili
che si sentono appena; e io penso alla forza
che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare,
alle terre lontane, al silenzio che dura.
Mio cugino non parla dei viaggi compiuti .
Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro
e pensa ai suoi motori.

Solo un sogno
gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,
da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo,
e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,
ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue
e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.
Me ne accenna talvolta.

Ma quando gli dico
ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora
sulle isole più belle della terra,
al ricordo sorride e risponde che il sole
si levava che il giorno era vecchio per loro.

[7-19 settembre – novembre 1930]

Yiannis Pappas

 

Οι θάλασσες του Νότου – Cesare Pavese       

( στον Α. Μόντι )

Περπατάμε ένα βράδυ στην πλαγιά ενός λόφου,
σιωπηλά. Στην σκιά του σούρουπου που προχωρούσε
ο ξάδερφός μου φαντάζει σαν γίγαντας ντυμένος στα λευκά,
που προχωράει ήρεμος, ηλιοκαμένος στο πρόσωπο,
σιωπηλός. Η σιωπή είναι η αρετή μας.
Κάποιος πρόγονός μας ήταν σίγουρα λιγομίλητος
– ένας άνδρας ανάμεσα σε ηλίθιους ή ένας θλιμμένος ανόητος –
για να διδάξει σε μας τέτοια σιωπή. Continua a leggere

Fernanda Pivano e Edgar Lee Masters

Fernanda Pivano

Fernanda Pivano, nome tutelare della Beat Generation in Italia, cominciò la sua attività letteraria sotto la guida di Cesare Pavese, nel 1943, con la traduzione dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Un libro considerato scandaloso per quei tempi, che divenne, con la pubblicazione, un grande successo editoriale.

Il racconto di Fernanda Pivano a Luigia Sorrentino

“Cesare Pavese [n.d.r. professore di comparatistica della Pivano], un giorno mi lasciò in portineria alcuni libri: A Farewell to Arms di Hemingway, A Storyteller’s Story di Sherwood Anderson, The Leaves of Grass di Walth Whitman e, coperta da una carta da imballo arancione, di Edgar Lee Masters l’antologia di Spoon River. Avevo aperto il libro a caso e mi era capitata la poesia con l’epitaffio di Francis Turner. E lo tradussi così.”

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In memoria di te, Cesare Pavese

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Lettura e nota di Luigia Sorrentino. La musica è di Jordi Savall.

In occasione della Giornata Mondiale della poesia 2016 che ricorre ogni 21 marzo in tutto il mondo, ho scelto di dedicare a tutti quelli che seguono con interesse questo blog, una mia lettura di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” la poesia più famosa di Cesare Pavese contenuta nella raccolta che ha lo stesso titolo della poesia, pubblicata postuma, nel 1951, un anno dopo l’improvvisa scomparsa del poeta. La raccolta di versi si divide in due gruppi. Il primo è “La terra e la morte“, il secondo “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi“, ed è indirizzato a Constance Dawling. Continua a leggere

“Lezioni di Letteratura Italiana Contemporanea”

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Giulio Ferroni nella foto di Dino Ignani

Nota di Carlangelo Mauro

Lezioni magistrali di Letteratura Italiana Contemporanea: Granese, Ferroni, Baldi.
Dirette agli studenti delle classi V, in vista dell’Esame di Stato, continuano con l’intervento di Ferroni su Pasolini mercoledì 17 febbraio ad Avella, Teatro Biancardi ore 9.30.

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Francesco Accattoli, “Lunga un anno”

 tuffatore
Francesco Accattoli, Lunga un anno, particolare della copertina, con una nota di Tommaso Di Dio e  illustrazioni di Linda Carrara, Edizioni Sigismundus (euro 10,00)

Nota di Tommaso Di Dio

L’impronta che non si perde

Nella poesia di Accattoli è in gioco il resoconto del crescere. Come quell’opera di Cesare Pavese, anche  questa potrebbe far proprio il verso shakespeariano: Ripeness is all. La maturità è tutto, sì; ma è terra di conquista e di un lungo cammino attraverso l’esperienza della gioia e del dolore, dove crescere è sinonimo di abbandono, di continuo e silenzioso mutare.

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Salvatore Contessini, "Dialoghi con l'altro mondo"

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Salvatore Contessini in queste poesie dialoga con undici poeti suicidi: Saffo, Carlo Michelstaedter, Georg Trakl, Antonia Pozzi, Anne Sexton, Cesare Pavese, Amelia Rosselli, Stefano Coppola, Nadia Campana, Salvatore Toma, Claudia Ruggeri, per alcuni dei quali è stato molto difficile accedere a documenti e informazioni, considerata la poca notorietà e il breve “tragitto terreno” che si sono assegnati.
Sono dunque diversi gli interlocutori, ma uno soltanto è presente, l’autore. E’ lui che interroga, e colui/colei che risponde, lo fa con i versi che ha scritto (riportati in corsivo). I poeti con i quali Contessini dialoga sono identificabili dalla citazione d’apertura di ogni dialogo: undici poeti che hanno liberamente scelto di porre termine alla propria esistenza terrena. Un percorso per voci, una sfida nella quale si rischia di rimanere impigliati. Continua a leggere

Guy Goffette, “Elogio per una cucina di provincia”

Nello scaffale
a cura di Luigia Sorrentino

COLLANA LIBELLULE
Poesia francese contemporanea
Guy Goffette, “Elogio per una cucina di provincia”
Traduzione di Chiara De Luca
Prefazione di Fabiano Alborghetti
Edizioni Kolibris, € 12,00


Partenza, nostalgia e parola.
di Fabiano Alborghetti

La poesia di Guy Goffette non si commenta: la si respira. Capace di creare spazi d’attenzione e tensione all’interno del silenzio, è il discreto architetto di stanze fatte di respiro dalle quali affacciarsi per riprendere il filo col tempo che ci spoglia (e dal quale viene spogliato egli stesso), stanze nelle quali è ripetuto l’invito a soggiornare non per interrompere un cammino o disertarlo, ma per celebrare lo sposalizio tra realtà e ricordo, tra illusione e una vita promessa, dove il futuro è il richiamo a disegnare le figure dei giorni andati, presenti Continua a leggere

Paolo Giordano dialoga con Cesare Pavese

Appuntamento

A Roma, domenica 14 aprile 2013 alle 11:00 Incontro con Paolo Giordano, (Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica, viale Pietro De Coubertin 30, ingresso 5 euro)  e con la sua rilettura del romanzo La bella estate di Cesare Pavese, vincitore del Premio Strega nel 1950. Al centro dell’incontro l’analisi, con due sguardi diversi e speculari, del mistero dell’adolescenza e della lotta, dolorosa, per diventare grandi. Continua a leggere