Mario Famularo da “L’incoscienza del letargo”

Mario Famularo

una stella si è spenta
confermando
incomputabili
distanze da altre luci

ne resta appena un’ombra
nel cristallo
dei pensieri

ne nasceranno ancora
minuscole
nel nulla

un mutuo disgregarsi
su uno sfondo
senza corpo

eppure ancora oggi
sollevo gli occhi
al cielo

chissà se la sua grazia
nel vuoto senza nome
riserva qualche
gioia

la sento
sorrido

sugli sguardi degli amanti
incrociano l’asfalto
rigato da una pioggia
senza fine

li osservo da lontano
con un certo turbamento
violando quell’intesa

intorno le falene
stramazzano
di luce

dal suolo
si solleva
non so che tenerezza
e nostalgia

*

L’ombra della mano
definita nel contatto
tra il nero e la sorgente
si scompone l’individuo

è la mia percezione
del calore sulla pelle
l’impulso sempre identico
la sua corrispondenza

la sagoma familiare
confrontata ad altri corpi
la condizione assoluta
di un’esistenza disgiuntiva

la maestà indecifrabile
con cui si rivela
l’estraneità del mio corpo
ad ogni altra cosa
al mondo

*

il mosaico delle regole
consente la composizione
gli universi su larga scala
dal progetto di una vita
all’espansione accelerata

e poi quasi per caso
scontrarsi con l’eccezione
l’occasione sperimentale
che arresta la normazione

quel pulviscolo residuo
tra ricombinazioni
deve avere forme
non può restare magma

la nostra percezione
compulsiva verso l’ordine
e dove non può esserci
fantastico
lo crea

Da “L’incoscienza del letargo” Oèdipus, 2018

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Il pensiero occidentale nella poesia di Kikuo Takano

Kikuo Takano, per gentile concessione

“Il senso del cielo” nella poesia di Kikuo Takano

di Mario Famularo

 

 

“Il mio scopo non è di pensare in linea con qualcosa che si fonda sull’intuizione di un’unità tra soggetto e oggetto, ma di considerare l’agire di tutte le cose esistenti come fossero ombre che riflettono il sé in un sé che ha annullato se stesso, una specie di vedere senza un vedente al fondo di tutte le cose.”

(Nishida Kitarō)

 

Sono molti i punti di contatto tra Kikuo Takano (1927-2006) e la scuola di Kyoto, movimento di pensiero sviluppatosi in Giappone lo scorso secolo: in primo luogo, l’aver vissuto le grandi trasformazioni del paese a cavallo del secondo conflitto mondiale; l’essersi confrontati con la cultura e il pensiero occidentale, e in particolar modo con quello di Heidegger; infine, il tentativo di integrare, superandoli, diversi principi della tradizione spirituale, intellettuale ed estetica nipponica attraverso il filtro di un sapere altro, con una particolare attenzione ai tratti distintivi dei due mondi.

Anche i risultati, pur in ambiti differenti come possono essere quelli della filosofia e della poesia, condividono più di un aspetto, che si originano da una riflessione di matrice “religiosa” (zen, in particolar modo) per diventare esistenziale e sociologica.

Nei testi qui proposti di Kikuo Takano, estratti da “Il senso del cielo (Poesie 1955-2006)”, a cura di Renato Minore, Passigli, 2017, la riflessione sulla relazione tra io e altro, sulla sua crisi, si intreccia a quella sull’impermanenza e sulla necessità di dimenticare il sé per accedere alla comprensione dell’altro-da-sé; il desiderio si mostra nella sua natura di origine del dolore, secondo la disciplina delle quattro nobili verità; l’ineluttabilità prende il peso di un predestino, quasi a riecheggiare il proverbio「人事を尽くして天命を待つ」 “jinji wo tsukushite tenmei wo matsu” (“gli uomini fanno ciò che possono e attendono la decisione del cielo”), cielo che è presente anche nel titolo del libro; infine, l’ultimo breve testo sembra concordare con l’idea del conoscere-diventando di Kitarō, che pure deve molto alla spiritualità buddhista e zen in particolar modo.

Già il titolo del primo testo, Sonetto d’autunno, sembra voler accedere a una cultura altra anche solo per la scelta formale: sono versi intrisi di un’afflizione pungente per lo svanire di ciò che è stato e la nostalgia delle cose perdute (“tutti vorrebbero giungere all’autunno … con maggiori profumi di quelli passati … ma non sempre, ahimè, ogni fiore / fa nascere il frutto con lo stesso profumo”), che si estende poi alla “smisurata lontananza” della persona amata. Eppure l’incontrarsi nuovamente “sotto un altro cielo”, all’apice della maturità, non fa che evidenziare il limite dell’essere concentrati sul sé, incapaci di dimenticarsene davvero, “ognuno chiuso / dentro di sé, e con lacerante ferita”.

Il tema continua ad essere approfondito in Baratro: “quando ti ho abbracciato / una seconda volta / era come stringere un baratro … perché … ogni cosa che abbraccio … si trasforma nel mio baratro?”: la sofferenza per non riuscire ad accogliere davvero ciò che è altro dal sé, vivendolo solo come qualcosa in relazione ad esso, fino a paragonarlo all’abisso dove l’io, inevitabilmente, finisce per precipitare dolorosamente e in solitudine, è qualcosa di estremamente vicino alla sensibilità moderna, e non solo giapponese – anzi.

È nello sviluppare questo tema che si avverte la distanza e l’incredibile prossimità del sentire di Takano: all’amica “minacciosa” che chiede “cosa mi daresti?” l’io del testo risponde “ormai da tempo non possiedo / neppure le parole che dico, / l’azione che scelgo. / Cosa potrò darti / di un ‘me’ / così trasformato?”. Qui il  tema dell’anātman, l’illusorietà del sé che non fa che impedire l’accesso alla comprensione del mondo e dei fenomeni, inizia ad insidiarsi con naturalezza, e la conclusione del testo sembra quasi richiamare un mondō zen, un dialogo tra maestro ed allievo, quando l’azione si fa più significativa di qualsiasi risposta verbale, in quel “gesto / con cui indico la falena / che sbatte contro il vetro”. Anche l’immagine della falena, attratta da una luce fatale e costretta ad affannarsi faticosamente e senza alcuna utilità, sembra alludere alle dinamiche relazionali fallimentari dei primi testi, a quella molteplicità di “sé” che, spinti dal desiderio e da una visione accentrata ed egoriferita dell’esistere, si trovano intrappolati in un’afflizione logorante. Continua a leggere

“Una scontrosa grazia”, il Festival di poesia

CO M U N I C A T O   S T A M P A

 IL FESTIVAL

dal 2015 incontri di Poesia e Letteratura

Domenica 12 dicembre, palazzo Gopcevich, Trieste dalle ore 10 alle ore 19

Domenica 12 dicembre, dalle ore 10 e per tutto il giorno, il noto ciclo di incontri triestino della Samuele Editore e diretto da Alessandro Canzian, Federico Rossignoli, Mario Famularo e Carlo Selan, diventa un Festival presso il prestigioso Palazzo Gopcevich. Una novità che nasce dalla consapevolezza del periodo ancora complesso in cui versiamo e dalla comunione d’intenti che ha visto la cooperativa campana AltreVoci, il Comune di Trieste, Lets Letteratura Trieste, Samuele Editore e ZufZone insieme per un importante momento poetico.

“Una Scontrosa Grazia” nasce a Trieste nel novembre 2015 come ciclo di incontri organizzato a cadenza bimensile presso la libreria Mondadori di via Cavana. Spostatosi poi presso la libreria Ts360, è diventato un ciclo online durante la pandemia per tornare, il 12 dicembre 2021, in presenza presso Palazzo Gopcevich in forma di Festival. Una tradizione di dibattiti e confronti che ha portato nelle librerie della città giuliana i migliori poeti italiani e internazionali come Alberto Toni, Claribel Alegria, Franco Buffoni, Giovanna Rosadini, Gian Mario Villalta, Mary Barbara Tolusso, Claudio Grisancich, Pasquale Di Palmo, Vincenzo Mascolo, Gabriella Musetti, Nicola Vitale, Lucianna Argentino, Flaminia Cruciani, Stefano Simoncelli, non dimenticando i più giovani come Matteo Bianchi, Erminio Alberti, Miljana Cunta, Giovanni Turra, Domenico Cipriano, Roberto Cescon, Fabio Michieli, Marco Amore. Mentre, durante il lockdown, ha proposto dialoghi con Maurizio Cucchi, Alessandro Agostinelli, Marco Bini, Rosaria Lo Russo, Beppe Cavatorta, Umberto Piersanti, Guido Mattia Gallerani. Alberto Bertoni, Alessandro Brusa, Eleonora Rimolo, Giorgiomaria Cornelio e diversi altri. Senza dimenticare l’importante appuntamento con il fotografo dei poeti Dino Ignani. Continua a leggere

La poesia di Paul Éluard

Paul Éluard

 

L’eterna primavera nella poesia di Éluard

di Mario Famularo

 

Limitare la questione stilistica sulla poesia di Éluard alle istanze e caratteristiche del movimento surrealista, per quanto fondamentali a comprenderne la storia e il percorso letterario, sarebbe un errore: la sua parola nasce da un’altissima compenetrazione di convincimento etico, vicissitudine sentimentale e trasfigurazione di tali elementi verso l’universalità dell’esperienza umana, di ogni uomo e di ogni donna.

Nel corso della sua lunga opera poetica, da Capitale de la douleur a Le temps déborde, fino a Le phénix, le figure femminili sono sempre differenti, nella biografia dell’autore: dalla dolorosa separazione con Gala, avvenuta in giovane età, al lungo sodalizio con Nusch, che terminerà con la sua morte, fino alla rifioritura piena con Dominique, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua vita.

Ma “l’altezza del tono”, riconosciutagli anche da Fortini (che ha tradotto diversi suoi testi, in particolare raccolti in un pregevole lavoro antologico pubblicato da Einaudi) ha proprio tale caratteristica costante, nonostante i temi trattati si estendano alla riflessione civile e storica: quella sentimentale, in senso ampio.

Il perimetro delle singole personalità femminili tende a farsi sottile e a evadere dai margini identificativi e biografici, al punto che i suoi ultimi testi potrebbero benissimo riferirsi a ciascuna di esse, come se ogni donna della vita di Éluard avesse contribuito alla formazione di un’unica immagine femminile, assoluta, in cui ciascuna di esse converge; e a fronte di questo ricco femminino illimitato, le aspirazioni del poeta, anche quando sfiorano le tematiche civili, storiche e morali, tendono a replicare la medesima istanza di universalità anche con il valore umano del soggetto, dell’io lirico, verso la stilizzazione assoluta di un sentimento puro che unisce tutti gli uomini.

È una caratteristica che si evolve nel corso degli anni e delle opere, ma che già in pochi testi si può riconoscere per le caratterizzanti attribuzioni vicine al sacro, in cui l’intreccio con i residui dell’esperienza surrealista si impone in immagini cristalline, nitide, dove la dimensione del sogno si legittima come pura ed autentica interpretazione del reale.

E così la donna è “figlia di una primavera / che non finisce”, che ride dell’insensata violenza degli uomini, ed è “sempre in fiore”, con i “piedi fermi”, “tenera con i forti” e “debole con i teneri” – un’immagine in cui dolcezza e autorevolezza si intrecciano, dove la debolezza delle reciproche solitudini umane si fa possibilità di una forza illimitata che accomuni ognuna di esse: di solitudine in solitudine verso la vita.

E se la debolezza dell’ “uomo nel vuoto”, che si riconosce “sordo cieco muto / sopra un immenso piedistallo di silenzio nero”, in un “assoluto di uno zero ripetuto” sembra già, nel riconoscere la purezza della notte e l’immacolata bellezza del mondo, un’aspirazione sentimentale alla bellezza, tale debolezza si trasforma in valore umano, attraverso l’esperienza pura del sentimento, trasfigurata: “all’improvviso parlando mi sento vincitore / più chiaro e più vivo più fiero e migliore / più vicino al sole”, ed ecco che i riferimenti all’infanzia (“In me nasce un bambino … di sempre che nasce da un bacio unico”) impongono un sentire autentico e allo stesso tempo primigenio, incorrotto e viscerale, non mediato: “la morte è vinta e un bambino emerge dalle rovine / dietro di lui le rovine e la notte scompaiono”.

La notte, che nella solitudine era pura, svanisce di fronte alla potenza di questa assolutizzazione dell’esperienza sentimentale, che in Éluard diventa totalizzante, incontro tra tutti gli uomini e tutte le donne, moltiplicate in un unicum attraverso un gioco di specchi (e gli specchi sono assai frequenti nella sua poesia).

E l’immagine di questo sentimento assolutizzante, pieno e universale, che unisce ogni esperienza umana in una vitalità illimitata, innocente e sacra, pure se “in un mondo spietato”, protegge dalla morte, dalla corruzione, dalla dissolvenza, dalla caduta di senso cui si riferiva con quella “solitudine compiuta”, quel “nulla … oblio senza limiti”, perché “non c’è notte per noi / nulla di ciò che perisce può toccarti” – ed Éluard lo scrive pochi anni dopo la scomparsa dell’amata Nusch, proprio perché il sentimento sopravvive ai singoli uomini, alle singole relazioni, alla stessa specie umana, sembrerebbe suggerire, attraverso il suo riflesso (il suo specchiarsi) in ogni altra esperienza analoga, attraverso la sua assolutizzazione nella dimensione del sogno e del sacro, attraverso la consacrazione della vitalità che l’accompagna. Continua a leggere

Mario Famularo, “Favēte linguis”

Mario Famularo

tredici anni, dico, e nemmeno una
parola. piuttosto parla il padre,
“è arrivata questa a casa”. la procura
della repubblica persegue una
bambina denunciata dalla madre.
maltrattamenti in famiglia, l’inizio
del reato corrisponde alla data
di nascita. voglio credere sia
una svista, certo, imperdonabile,
come l’espressione muta della piccola,
lontana da ogni cosa,
che appena muove il capo se le parlo.
del resto ogni parola sembra proprio
uno squilibrio, l’incanto del sistema
che costringe in uno scatto impersonale
di tagliola. io spero che qualcuno
le riservi una frattura da quest’ansa
di miseria. (al male non c’è cura)

*

un tempo era l’infanzia
profumi senza nome
confusa intonazione
di un addio

quell’espressione tenera
dal volto di bambina
la mente che ripara in una
sciocca fantasia

ma l’isola era verde
la brezza al tempo
amabile

perviene nel presente
col sapore di
tossine

fragore penetrante
che in un primo istante
soffoca

il dono del silenzio
chiamerai
dimenticanza

*

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Rilke, la percezione del terribile

Rainer Maria Rilke

COMMENTO DI MARIO FAMULARO

La parola poetica deve essere, per Rilke, una parola svuotata del peso dell’io e fatta essere lo spazio puro in cui si trascrive l’esperienza del «contatto» con le cose, quel contatto che un poeta «senza nome» esperisce con le «cinque dita della mano dei sensi». La questione della parola – il suo come – è pertanto strettamente connessa sia alla necessità di un esercizio di estrema riduzione del sé, sia alla necessità di dire dell’intimità estranea che ci lega alle cose.”

(Daniela Liguori in “Rilke e l’Oriente”, Mimesis, 2013)

Le poesie contenute in “L’Angelo e altre poesie” (Via del Vento Edizioni, 2003, traduzione di Roberto Carifi) riescono a restituire, con una selezione accurata, la cifra stilistica e tematica del Rilke più maturo, quello che, incorporato serenamente l’orrore della morte e della dispersione (ricorrente, ai limiti della novella gotica, nei racconti giovanili di “Totentänze”), si fa voce impersonale dell’assoluto, strumento nelle mani del tremendo e del magnifico, parola commossa che si lascia nominare da quella stessa bellezza che “disdegna di distruggerci”.

Ed ecco che in “Morte del poeta” i versi mostrano la gioia nascosta di essere “una cosa sola / con queste profondità, con questi prati”, in uno splendore invisibile a “chi lo vide vivere”, nonostante il suo viso fosse sia “le acque” che “la vastità del tutto”, quel tutto che lo desidera, “lo reclama” – fino a collegare la maturità della dissolvenza dell’esistere al frutto caduto dall’albero, la cui polpa “nell’aria si corrompe”.

La percezione del terribile, intrecciata alla rivelazione della bellezza nascosta nel mistero delle cose, viene poi paragonata “all’impacciato incedere del cigno”: nuovamente vi è il richiamo alla morte, a una fine serena e compenetrata nel quotidiano, priva di angosce, che si avverte come profondamente naturale.
Nonostante nella consapevolezza della nostra fine dilegui “il fondamento / del nostro stare quotidiano”, essa rivela un’accoglienza felice, “mite”: così come il cigno è “padrone di sé e sempre più regale”, capace di reggere l’abisso della sua “discesa ansiosa” sotto le acque, allo stesso modo l’uomo che ha fatto proprio l’orrore della dissolvenza e della morte, riuscendo ad accedere al segreto più sacro e intimo dello splendore delle cose, “in dignitoso distacco avanza”.

Sarà sempre Rilke, nella nona elegia duinese, in uno stato non dissimile a quello estatico, a ribadire: “Terra … non sono più necessarie / le tue primavere a guadagnarmi a te –, una, / ah, una sola è già troppo per il sangue. / Senza nome, da tanto, a te mi sono votato. / Sempre fosti nel giusto, e la tua sacra scoperta / è la familiarità con la morte.” Continua a leggere