Giulio Maffii, da “RadioGrafie”

Giulio Maffii

che guardare il sonno
prendere cura e il senso del respiro
dividere ancora il giorno
come se fosse una catena di montaggio

*

che sale un odore oltrepassa la finestra
si fa vestito radiografico dilaga

(tutti si ritrovano a indossare
la faccia dell’errore o del catasto d’amore)

si riaprono gli armadi
si nascondono le mani

*

che ogni morto porta al proprio dio
un nome un oggetto fatto d’ossa
e qualche scampolo di notizia

che arriva con tanta ansia accumulata
al momento della dispersione
al ricordo dell’occasione persa

*

che dare il cibo al gatto
è compito seriale

che il rovescio nudo delle scale
è punto di appoggio e di sutura

che le case emanano odore
di lampade votive

ti piovo ti spiovo e dopo di nuovo
muovo l’odore dentro lo specchio

(Giulio Maffii, “RadioGrafie”, il Convivio Editore 2022).

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Giorgia Meriggi, da “La logica dei sommersi”

Giorgia Meriggi

La luna è nata
per separare l’acqua
dalla terra
un morso strappato
alla cute ininterrotta di granito
che sigillava il mondo,
quindi:
l’orogenesi
il sale
la molteplicità delle forme
viventi
l’amore
l’assillo della fame
e la persecuzione
le abitudini carnivore
l’amore
la guerra:
nessun medicamento
per l’incongruo
in acqua come in terra.

*

Sott’acqua tutto cade
chiedendo scusa
luna e sole sono pesci
di secondo grado
la pioggia è solo il fremito
di un cosmo appena nato.

Per i pesci del Tamigi
Dio è una nave
la fortuna non c’entra:
l’acqua è una grande cellula
uovo
le molecole
non fanno rumore
l’amore non si nomina
il vento non ha senso.
Tutto qui.

Quindi, non preferiresti
essere un pesce?

*

Dove l’acqua è più buia
e fonda
Dio parla ancora
dell’origine del mondo,
la luna non esiste
ancora.
I pesci privi dei sensi
ricevono i pensieri
di tutto ciò che esiste
intorno.
L’acqua entra nell’aria
ed è un messaggero,
i pesci sono il chiasmo
dei pensieri.

Giorgia Meriggi, tre poesie da La logica dei sommersi (Marco Saya Edizioni, 2021)

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Innocenzo Odescalchi, “Il battesimo di Lucifero”

Nota introduttiva di Fabrizio Fantoni

 

Con la sua ultima mostra – intitolata “Oltre” – realizzata nei locali dell’antica fornace di Antonio Canova Innocenzo Odescalchi ci consegna un’opera di grande impatto visivo.

In uno spazio circolare – voltato da cupola come i templi dell’antica religiosa – ecco palesarsi allo sguardo del visitatore la  figura di Lucifero che si cala dall’alto legato ad una catena infissa alla volta. Sotto di lui – sul pavimento al centro della sala -uno specchio d’acqua a simboleggiare il rito del battesimo. La catena che lo serra impedisce al demone l’immersione purificatrice nell’acqua.

Con questa opera, spiazzante e totalizzante, Innocenzo Odescalchi condensa le contraddizioni insite nella nostra contemporaneità in cui l’essere umano appare teso tra perdizione  e desiderio di redenzione.

Intervista a Innocenzo Odescalchi
di Fabrizio Fantoni
Roma, 10 luglio 2022

 

L’opera esposta sembra affrontare l’idea del sacro. Puoi raccontare la genesi del lavoro?

 

L’origine del mio lavoro “il battesimo di Lucifero” è nato dall’esigenza di poter descrivere uno “spettacolo visionario” che ti trascina fuori da questo tempo e ti conduce in un “mondo altro”.

Canova22, luogo dell’esposizione, è la Fornace dove Antonio Canova ideava e modellava la prima forma in creta per poi forgiarla col fuoco, elemento primario. Ho cercato di dare forma a una rivelazione, un’esperienza estatica che scuote e trasforma il trauma spirituale dettato dall’Arte per ricostruire una pratica trascendente, Friedrich Nietzsche diceva: “l’Arte alza la testa dove le religioni scompaiono”. La statua che rappresenta un demone in cerca di salvezza. Lui, il mistificatore che viene ingannato esso stesso, impossibilitato a purificarsi, scambia una pozza di petrolio per una fonte d’acqua destinata al fuoco perenne. Continua a leggere

Sergio Bertolino, da “La sete”

Vieni,
avrai un sorriso stanco alla parete.

Dileguàti gli uccelli nelle forre,
non suonano più scarpe al Gradenigo
se dici «accoglimi», la loro lingua
è mistificazione del mondo, archibugio.

Così sei stato, per gli dèi dell’ozio,
un amante impossibile – lucerna
che la terra chiama a mentire,
farsi grande alla finestra.

Così falliscono anche i versi,
ed ogni cosa – per sempre ferma e distante
– come quest’aria non ha voce.

***

Non c’è alternativa.

Stanca la bocca nell’esercizio del fiato,
ciò che resta – la più piccola parte
di me – trema per un lascito d’amore,
abbarbicato come cosa morta.

Conosco la ferocità della commedia; non m’incanta
la fanfara dei màrtiri a sera, l’irrilevanza di una lingua
e del tempo. Tutte le frecce puntano un centro,
lo stesso di quando in due abitavamo un corpo:
ma trent’anni non sono bastati a risalire le acque verdi.
E oggi le bevo perché torni alla verità della vite,
al remoto, al diverso che dà luce.

***

Col vero mi tenta a non piegare il ginocchio
chi per sete ha scatenato i cancelli.

C’è nell’intimo un mondo mentre l’altro
ha fallito; e solo dubitando
finalmente cadiamo. – Ma su gocce d’acqua
si abita la foglia sempre viva.

Non dorme la pietra, il sangue stravolto
è un no che sa tacermi sull’altare.

Dov’è stato un sogno
è il grido impresso.
E brucia la fronte
il sole che ho negato,

l’aculeo dentro al cuore di mia madre.

***

Credi a me, qualunque strada s’imbocchi
basta un abbaglio: quel rito – sempre lo stesso –
che tolga la cera fredda da sotto gli occhi.
Un po’ come resistere, prepararsi
un letto piano tra le ortiche
perché frani l’inverno e trasfiguri,
e soffino i vetri dai colli accesi
per la tristezza musicale dei barconi.
Resto l’uomo che guarda fisso il vuoto
dai ponteggi, che pensa
nulla di questa febbre andrà risolto.
Resto chi non sputa fuoco a margine
di un foglio, scrive di giorno
e perciò non sa realtà al di fuori
del deserto. Ma stamane rido mortalmente
con le scimmie. Mi ripeto, mi abbaglio.
E tu non conosci il mio nome;
dormi ancora tredicenne – celata
ai guasti della luce – sulle panche
dove siedo a sistemarmi i capelli
e a domandarmi se sarà fieno il tempo, se
soffro per sollevarmi o farmi neve.

Sergio Bertolino, da “La sete” (Marco Saya Edizioni, 2020)

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Mario Famularo da “L’incoscienza del letargo”

Mario Famularo

una stella si è spenta
confermando
incomputabili
distanze da altre luci

ne resta appena un’ombra
nel cristallo
dei pensieri

ne nasceranno ancora
minuscole
nel nulla

un mutuo disgregarsi
su uno sfondo
senza corpo

eppure ancora oggi
sollevo gli occhi
al cielo

chissà se la sua grazia
nel vuoto senza nome
riserva qualche
gioia

la sento
sorrido

sugli sguardi degli amanti
incrociano l’asfalto
rigato da una pioggia
senza fine

li osservo da lontano
con un certo turbamento
violando quell’intesa

intorno le falene
stramazzano
di luce

dal suolo
si solleva
non so che tenerezza
e nostalgia

*

L’ombra della mano
definita nel contatto
tra il nero e la sorgente
si scompone l’individuo

è la mia percezione
del calore sulla pelle
l’impulso sempre identico
la sua corrispondenza

la sagoma familiare
confrontata ad altri corpi
la condizione assoluta
di un’esistenza disgiuntiva

la maestà indecifrabile
con cui si rivela
l’estraneità del mio corpo
ad ogni altra cosa
al mondo

*

il mosaico delle regole
consente la composizione
gli universi su larga scala
dal progetto di una vita
all’espansione accelerata

e poi quasi per caso
scontrarsi con l’eccezione
l’occasione sperimentale
che arresta la normazione

quel pulviscolo residuo
tra ricombinazioni
deve avere forme
non può restare magma

la nostra percezione
compulsiva verso l’ordine
e dove non può esserci
fantastico
lo crea

Da “L’incoscienza del letargo” Oèdipus, 2018

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Esce postuma l’ultima raccolta di versi di Alberto Toni

addio a Alberto Toni

Alberto Toni / Credits photo Dino Ignani

da “Tempo d’opera”, Il ramo e la foglia edizioni (2022)

L’estate della betulla, un buon inizio nella veglia,
quello che mi è passato per la testa, un istante,
lei si è decisa a stare ferma, immobile alla fotocamera,
lei che muove solo lento il braccino al vento.
Ma non c’è vento e sta ferma, solo un po’ per l’acqua
improvvisa venuta giù a diluvio l’altra sera,
o stamattina presto ancora dentro il sonno.
Tengo caro il verde del giardino da quel lato
e nessun torto a questo dal mio studio,
già troppo celebrato, e il leccio capirà
che c’è un tempo per tutti e il tempo è caro,
l’amore muove il tempo, muove me,
muove la pace già precaria dello stare
e se leggo il giornale già il mattino
scivola via tra un assedio e un tremore,
già il tempo che misuriamo a luce
frana e si sfalda in infinite ombre.

*

E come all’ultimo balzo del mattino sparisce
la morte del diluvio notturno. È tutto un rifiorire,
tremare in tua presenza.
E mi alzai, con la convinzione di me,
del tuo ramo al mio innamoramento.

Scendi, fai, e che la forza mai non manchi,
fai, poi rispondi al tuo calo di forze.
Mai noi potremo dire abbiamo solo
per poco, solo per poco rinunciato
a vivere. Mai che la vita non sia

o ci abbandoni.

*

È una pioggia lenta, l’acqua che cade, vedi
e non possiamo farci niente, andiamo verso casa
e ci sono le cose che accadono e non possiamo
farci niente, temere, per quella forza del pensiero
che ci tira avanti. Ragiona dunque sul fatto che non possiamo
farci niente, come il tiro quando vai troppo lontano,
decidi di riprovare nel cammino che va da casa alla
prima stazione di sosta, tremeresti ancora se non fosse
per amore, tutto l’amore che hai radunato in te, tutto,
e quell’odore di terra bagnata che ti rimanda al primo
ardore.

*

Quel vaso di felci, non lo guardo mai, ed è come se stesse
lì da un’eternità, riappare e a ragione riprendo il filo
del discorso, a volte il caso, è perfetto nel suo ordine.
Me lo dicevo tra un silenzio e l’altro. Vedi, non basta
mai la scoperta, è vita, ed è lì davvero da tempo,
ricordo, basta pensarci, stavolta è stato in una pagina
di Naipaul, leggere «vasi di felci». La vita degli oggetti
sta tutta nel pensiero che li fa vivere. E mettere nei versi
una dimenticanza, ora è viva, e per un po’ andrà bene così,
senza un sentimento particolare, ma solo una realtà

oggettuale.

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Juan Arabia, “Verso Carcassonne”

Juan Arabia

 

Carcassonne

El único castillo construido
hacia el horizonte es el de los pájaros.

El otro es el refugio de los pobres
que siempre exigieron autoridad

representando el teatro de la criadas
en las voces ocultas del atardecer.

El trovador mojaba su pan
en todas las fuentes, en tabernas ocultas,

bebía de ese otro campo,
sustancial como el excremento de un rey.

*

Carcassonne

L’unico castello costruito
verso l’orizzonte è quello degli uccelli.

L’altro è un rifugio per i poveri
che sempre esigono autorità

mettendo in scena il teatro delle cameriere
nelle voci nascoste della sera.

Il trovatore inzuppava il pane nelle fontane,
nelle taverne più nascoste,

beveva da quell’altro campo,
prelibato come la merda dei re.

 

*

AnteProvenza

Esa máscara ingobernada
silenciada por el bulto moderno
deformada en marrones pretéritos
mucho antes de llegar a Provenza
lejos del sueño
reptando entre todos
repitiendo el coro siniestro.

Hijos de todas las cosas
indefensas y aceptadas
riendo en la democracia del débil,
no quedan más que renacuajos
en la orilla
rincones y sapos lejos del fuego
perdido sol de la eternidad.

Hijos idiotas de un soberano
hurgando del envenenado pan
viviendo de sus limosnas,
sonrisas perpetuas, ancladas
en el viejo palomar
de las más suaves quemaduras
donde arranco los pétalos
de su existencia.

 

Prima della Provenza

Quella maschera indisciplinata
silenziata dalla bolgia moderna
deformata da trascorsi bruni
molto prima di arrivare in Provenza
lontano dal sogno
strisciando tra tutti

ripetendo il coro sinistro.

Figli di tutte le cose
indifese e accolte
ridendo nella democrazia dei deboli,
nient’altro che girini ormai
sulla spiaggia
angoli e rospi lontani dal fuoco
sole perduto dell’eternità.

Figli idioti di un sovrano
frugando nel pane avvelenato
vivendo della sua carità,
sorrisi perpetui, ancoràti
alla vecchia colombaia
delle bruciature più morbide
dove strappo i petali
della sua esistenza.

*

Retrato

La Mère Inconnue.”

Ahora me gustaría tejer su retrato por fuera de todo tenue
esplendor,
de Provenza y los lejanos pasillos de la memoria.
Mira, aquí llegan ecos, débil diversidad
de entremezcladas campanas en el fin de la tarde,
o como mares lejanos deberían enviarle
el homenaje de su temblor, sin descanso,
resonante. De todos los sueños que existen,
¿debo decir que los sueños más prufundos la contienen?

¡No! Porque he visto las sombras más puras de pie
mirándola siempre con reverente amor,
el silencio mismo ha hecho crecer su devoción
y nunca la esperes en aquella tierra
donde ella reina, donde sólo se funden
las voces más suaves, alabándola.

 

Ritratto


La Mère Inconnue

Ora vorrei tessere il suo ritratto di ogni vago splendore,
della Provenza e dei lontani scorci della memoria.
Guarda, qui arriva l’eco, esile varietà
di campane intrecciate nel tardo pomeriggio,

come mari lontani dovrebbero mandarle
l’omaggio del loro tremore, implacabile,
risonante. Di tutti i sogni che esistono,
devo dire che i più profondi la contengono?

No! Perché ho visto le ombre più pure sempre
in piedi a guardarla con amore riverente,
il silenzio stesso ha fatto crescere la sua devozione
e nulla la aspetta in quella terra
dove regna, dove si sciolgono
le voci più dolci lodandola.

Verso Carcassonne (Raffaelli Editore, 2022), traduzione in italiano di Mattia Tarantino Continua a leggere

Davide Cortese, “Zebù bambino”

Davide Cortese

Nota di Davide Cortese

L’idea di raccontare in versi l’infanzia del diavolo nasce in seguito a un titolo che un giorno mi è balenato in mente: Zebù bambino, per l’appunto.

Zebu’ è un nome che subito evoca Gesù e al contempo Belzebù, creando contraddizione e cortocircuito di senso.

Ho scritto tutti i versi che compongono la piccola raccolta (si potrebbe forse definirla un poemetto) di getto, in una sera dell’estate 2019 a Lipari: la mia isola, la mia terra-mare di origine.

L’ho scritto per il piacere di scrivere: per me. Non l’ho scritto pensando a un destinatario.

Ne è venuta fuori una tenera fiaba nera, dove, tra le righe, è la natura umana incline al male a  parlare. La nostra tenebra. Una tenebra che chiede di essere amata

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Luigi Auriemma, l’arte in versi

Luigi Auriemm


di Marco Amore

Arte e parola condividono lo stesso passato: non a caso, le prime forme di scrittura erano simboli – e non parlo dei geroglifici egiziani o del sistema di scrittura cuneiforme sumera – ma delle pitture rupestri nelle grotte di Lascaux, risalenti al Paleolitico superiore, o dei successivi petroglifi della Val Camonica.

Partendo da Leonardo da Vinci e da Michelangelo Buonarroti, il primo con la sua scrittura speculare e il secondo con la sua lirica amorosa e tormentata, fino ai giochi di parole e alle frasi omofone di Marcel Duchamp, questo legame non si è mai incrinato, anzi, è andato via via rafforzandosi, malgrado il processo di settorializzazione della cultura occidentale, esasperato da convinzioni ormai superate sulla nozione di divisione del lavoro (ricordate Adam Smith e la celebre “fabbrica di spilli”?) e da teorie che non incontrano le attuali esigenze del mercato del lavoro in una società liquida che si affaccia alla quarta rivoluzione industriale – digitalizzazione dei processi, smaterializzazione delle filiere produttive, rottura dei confini settoriali.

In questo frangente, non possiamo tacere del lavoro antioggettualista di artisti visivi come Lawrence Weiner (1842-2021), tra i precursori (è corretto usare questo termine, se teniamo conto del passato che accomuna arte e parola?) della smaterializzazione dell’oggetto artistico in favore del linguaggio.

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Ascanio Celestini, “Museo Pasolini”

Ascanio Celestini

Ascanio Celestini attore, regista, scrittore e drammaturgo italiano è uno dei rappresentanti più interessanti del teatro di narrazione in Italia.

Nell’anno delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, Ascanio Celestini porta in scena “Museo Pasolini”. Un museo “immateriale” del quale lui è “il custode”.

“Museo Pasolini” è quindi, un museo immaginato attraverso le testimonianze di uno storico, uno psicoanalista, uno scrittore, un lettore, un criminologo, un testimone che l’hanno conosciuto.

Lo spettacolo prende vita da una dichiarazione di Vincenzo Cerami: “Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film Salò, l’ultima sua opera, noi avremo il ritratto della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degni anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro paese in tutti questi anni”.

“Il pezzo forte di Museo Pasolini” è il corpo di Pasolini, racconta Ascanio Celestini nella mia intervista realizzata per la TGRCampania il 29 giugno 2022 nell’ambito delle Celebrazioni delle Giornate leopardiane a Torre del Greco, a Villa delle Ginestre, e rivela verità molto importanti sui veri responsabili di quella morte.

Pier Paolo Pasolini e sua madre

Alla fine dell’intervista ho notato che Ascanio porta un braccialetto giallo con una scritta: “Verità per Giulio Regeni”. Per poterlo leggere ho dovuto toccargli la mano,  e far girare il braccialetto sul suo polso. Un gesto intimo, di solidarietà e di vicinanza che mi ha fatto sentire la grande forza del suo impegno umano e civile.

Gli ho chiesto se ci fosse per lui una qualche relazione fra Pasolini e Giulio Regeni.

Lui ha risposto così: “Prima cosa sono tutti e due legati al Friuli. Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna però poi viene sepolto a Casarsa della delizia perché la mamma è di Casarsa è friulana e Giulio Regeni vive vicino, a Fiumicello… però tutti e due sono esposti, lanciati nel mondo, ma proprio esposti, liberi e anche indifesi nei confronti del mondo. Continua a leggere

Addio a Raffaele La Capria

Raffaele La Capria ph di Luigia Sorrentino, Roma 2005

Lutto nel mondo della Cultura. Si è spento a Roma a 99 anni, Raffaele La Capria.

Il grande scrittore napoletano che viveva a Roma, verrà sepolto per sua volontà a Capri nel Cimitero degli artisti accanto alla moglie, Ilaria Occhini.

In occasione di questo tristissimo evento, che segna la fine di un’epoca e di una generazione di scrittori, vi riproponiamo il testo scritto di un’intervista televisiva realizzata da Luigia Sorrentino con Raffaele La Capria nel 2005 per RaiNews24 subito dopo l’uscita del suo libro “L’estro quotidiano” (Mondadori, 2005).

Intervista a Raffaele La Capria
di Luigia Sorrentino

 

L’epoca che viviamo è tragica, funestata da eventi tragici. Come vive Raffaele La Capria questa sua epoca?


‘L’ho scritto nella ultima pagina del mio libro ‘L’Estro quotidiano’. Quel libro l’ho scritto nel 2003, ma per ragioni editoriali è uscito nel 2005. Dal 2003 al 2005 la situazione è peggiorata e il tasso di odio, ferocia, crudeltà, è aumentato nel mondo in maniera inimmaginabile. Dopo le esibizioni filmate delle teste tagliate e la strage programmata dei bambini in Ossezia, si è persa la bussola dell’umano e le parole non sono più all’altezza del male che vorrebbero denunciare. Il nostro privato rispetto a questi eventi tragici, sembra una futilità. Qual è il risultato? Di ridurre la nostra vita quotidiana a un assurdo. Adesso la nostra vita quotidiana non ci sembra più normale, è una pretesa normalità. Ma è una normalità falsa quella in cui crediamo di vivere noi privilegiati, credendo di stare in pace, di non soffrire di queste terribili calamità che il mondo soffre’.

Quest’epoca, ha cambiato qualcosa nella sua scrittura?

‘Certo. Soprattutto se si legge tutto il mio libro ‘L’Estro quotidiano’ si sente che è attraversato come da un’angoscia, da un sottile rimorso di star bene. Si sente che c’è una frattura spaventosa tra quello che sappiamo e la vita che viviamo. Questo aspetto lo metto in evidenza in un punto preciso del libro in cui racconto che sto guardando la televisione e vedo massacri, cose orrende e dico: “questo è il telegiornale delle otto, e io devo vestirmi in fretta, alle nove ho un appuntamento al ristorante”. Ed è proprio questo l’assurdo: vedere il male, ma poi andare al ristorante’.

In un articolo uscito sull’ Espresso Giorgio Bocca ha detto che La Capria ha elaborato una sua teoria per mettere d’accordo le due Napoli, quella della borghesia, colta e aristocratica, e quella selvaggia, del popolo napoletano. Praticamente Bocca dice che lei ha inventato la napoletanità.

‘Non ho inventato la napoletanità, ma l’ho analizzata criticamente. L’ho analizzata e criticata anche più ferocemente di quanto Bocca, qualche volta, abbia criticato il sud e i mali del sud. Bocca dice, però, che questa mia teoria è elegante, ma consolatoria. E io gli ho risposto: “Bhe? Che c’è di male che sia consolatoria? La letteratura deve essere anche consolatoria, oltre che critica.’

Il suo linguaggio narrativo di certo non rappresenta la Napoli della camorra e della illegalità. È una sua scelta non rappresentare quella Napoli?

‘Uno scrittore non è obbligato a scrivere di camorra. Credo che uno scrittore abbia il compito di dare un’immagine della sua città molto più grande e più complessiva, che include tutto. Una rappresentazione della città, una rappresentazione mentale che sottragga la città dalle false rappresentazioni che gli vengono date continuamente. Tanto utile, rivoluzionaria, importante è l’opera di uno scrittore, quanto più questo scrittore si affranca dalle false rappresentazioni e cerca, come un archeologo della mente, di scavare attraverso la cenere di queste false rappresentazioni, il documento vero, la sostanza vera di quella immagine della città che lui sta creando mentre scrive. A tutto questo deve corrispondere, anche, uno stile adeguato, perché soltanto quando c’è questa fusione tra un’idea e una rappresentazione, e uno stile che la sostiene, funziona la comunicazione.’

Lei tempo fa ha scritto un racconto per spiegare perché ha voluto diventare uno scrittore. Il racconto parla di un bambino di otto anni sulla cui spalla va a posarsi un canarino… Continua a leggere

Addio a Patrizia Cavalli

Patrizia Cavalli Credits ph. Dino Ignani

Nota di Gisella Blanco

La parola ricerca la sua purezza, l’essenzialità del suono nel segno e del segno nel suono.

“La vera e migliore poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi, commenti e perorazioni avvocatesche[1]” scrive Alfonso Berardinelli sulla poesia di Patrizia Cavalli e sul suo precipuo scopo: “la purezza della dizione”.

 

Devo fingere volgarità e tradimento
per accomodarmi sul divano
per ricambiare sguardi; spiegando
le tredici pieghe di un pensiero
decifro l’accorta sentenza che scende
sulle mie sentimentali parole che dico
che dico fingendo anche l’amore
e nella finzione riconosco il punto perfetto
l’unico possibile della certezza[2].

 

Improvvisi rimemi accelerano il corso naturale di un dettato poetico chiaro, lineare. Fugaci assonanze irrompono nel verso, acuiscono il senso di ogni immagine. La parola è immersa nella tensione di una brevitas che definisce l’essenziale e lo scolpisce nell’atto linguistico di una poiesi perennemente volta alla comunicazione del dettaglio intimistico. La sua poesia è l’anello di congiunzione tra la sopravvivenza della cura per la metrica e un lessico familiarmente contemporaneo.

 

Mai come oggi – primo giorno d’estate – si seguirà il consiglio di Patrizia nella nostalgia del commiato:

 

Ma per favore con leggerezza
raccontami ogni cosa
anche la tua tristezza.

 

Vita meravigliosa
sempre mi meravigli
che pure senza figli
mi resti ancora sposa[3].

 

***

 

Saliva le mie scale con una torva malinconia
brutale, io l’aspettavo fuori dalla porta
ma era così assorta nella sua ascesa
quasi rinocerontica mortale
che solo giunta in cima mi vedeva
improvviso bersaglio da incornare.
Allora io da matadora accorta
veloce mi spostavo e lei incornava
dritta al mio letto il vano della porta.

 

***

Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.

 

 

Il cuore non è mai al sicuro e dunque,
fosse pure in silenzio, non vantarti
della vittoria o dell’indifferenza.
Rendi comunque onore a ciò che hai amato
anche quando ti sembra di non amarlo più.
Te ne stai lì tranquilla? Ti senti soddisfatta?
Potresti finalmente dopo anni
d’ingloriosa incertezza, di smanie e umiliazioni,
rovesciare le parti, essere tu
che umili e che comandi? No, non farlo,
fingi piuttosto, fingi l’amore che sentivi
vero, fingi perfettamente e vinci
la natura. L’amore stanco
forse è l’unico perfetto[4].

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Milo De Angelis, da “Biografia sommaria”

Milo De Angelis credits ph Fabrizio Fantoni

Cartina muta

Ora lo sai anche tu
lo sappiamo
mentre stiamo per rinascere
Franco Fortini

 

Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro.
Poi lei getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
«Perché fai questo?»
«Perché io sono così», risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. «Perché io…
né prendere né lasciare.» Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.

«Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
… vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…»

Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamio esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca
non era più impastata. «Dove sei stata
per tutta la mia vita…» Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dir, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io… lo vedremo… lo vedremo tutti… ora…
ora che stiamo per rinascere.

 

da Biografia sommaria, Mondadori, 1999 Continua a leggere

Rinviata la conferenza stampa di martedì 21 giugno nel Salone delle Feste di Capodimonte per annunciare il dono della Collezione Lia e Marcello Rumma al Museo

COMUNICATO STAMPA

Gentilissimi,
Vi comunichiamo che a causa di forza maggiore, la conferenza stampa di martedì 21 giugno alle ore 11 nel Salone delle Feste del Museo e Real Bosco di Capodimonte, per annunciare la donazione della Collezione Lia e Marcello Rumma allo Stato Italiano, è RINVIATA. L’avevamo annunciato QUI. 

Sarà nostra cura comunicarvi, appena possibile, la nuova data che sarà riprogrammata al più presto.

I nostri più cordiali saluti,

Galleria Lia Rumma

Rito sonoro a Otranto di Mariangela Gualtieri

martedì 21 giugno, alle 8 di mattina, Libreria Anima Mundi a Otranto.

Fraternità solare
Rito sonoro di e con Mariangela Gualtieri
con la guida di Cesare Ronconi
Produzione Teatro Valdoca

*
Improvviserò, fra i molti versi che ho a memoria, lasciandomi ispirare dal mare, dalla incredibile città e dai suoi morti, dai suoi vivi di ogni genere e specie, dal cielo, dai molti echi che arrivano dal passato. In una fraternità solare che ci tenga vicini, innamorati e ben desti.

Mariangela Gualtieri

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L’eterno femminile nella poesia di Alberto Bevilacqua

Alberto Bevilacqua

Nota critica di Gisella Blanco

Dalle Poesie di una vita è possibile trarre il lungo racconto di quel “manoscritto indecifrabile” che è l’umana esistenza. D’altronde, “il sapere non è che una grafia/con cui ciascuno nasconde ciò che sa”. In Piccole questioni di eternità (Einaudi 2002), opera riassuntiva contenente anche alcuni testi rivisitati, Alberto Bevilacqua esprime, sin dal titolo, una delle sue molte, luminose vocazioni: “La bellezza non è del creato/ma di chi ne muta l’incanto”.

La raccolta mostra, a cominciare dai primi testi, un andamento narrativo che attinge dalla brillante esperienza di romanziere, nonché da quella di regista e sceneggiatore, dell’autore di Parma, nato nella fervida cittadina emiliana ma poi trasferitosi a Roma, come fecero i più anziani Attilio Bertolucci, Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini.

Lo stesso Pasolini definisce, con una formula apparentemente criptica, il Bevilacqua degli esordi come “irrelato fantasma idillico[1]”, riferendosi, forse, a quell’interlocuzione astratta e segretamente colloquiale che caratterizza le sue poesie, perfino quelle più auto-diegetiche.

Gli influssi della tradizione letteraria e di quella cinematografica italiana, propense all’arte dell’alludere senza dire (che si tratti, riguardo alla scrittura, di una vera e propria aposiopesi o di una narratività eloquente nell’uso della reticenza, come nel caso di Bevilacqua), pur senza evidenti epigonismi hanno certamente influenzato lo stile poetico dell’autore parmigiano.

L’opera svolge un “tuffo/negli abissi quotidiani” attraverso un linguaggio talvolta piano (che ricorda le dolci altalene lessematiche del Canto alla durata[2] handkeiano), talaltra più acrobatico nel lessico e nella costruzione filosofico-gnoseologica: “sia ciò che dev’essere: un vocativo/d’avventura, ma l’avventura impossibile/- proiezione desertica del Muro/la sua/ombra proiettata all’indietro/di voci, cose, qualche eco futuro”.

Alcuni titoli sembrano imporre una tensione ludica, accostabile al divertissement, a testi altrimenti intrisi di un’ironica nostalgia, ben percepibile nell’incontro tra la dimensione prosodica e quella semantica.

Il topos erotico si svolge per brevi scorci narrativi, e a volte perfino volutamente affabulatori, che accedono a un’enfasi immaginifica capace di travalicare il dato oggettivo e trasfigurarlo in categorie psico-antropologiche intrise di un acceso intimismo: “…allora, non trovando la lampada, non potrò/sapere se sono vivo/a tentoni appoggiando l’orecchio al tuo cuore/a qualche tua aritmia/non sarò più uno/che si ascolta sulle tue pareti della mia prigione”.

Tra i versi, si compie una personificazione oggettuale, come se l’oggetto diventasse un alter ego dell’io, soggettivizzato ma non ancora umano, che si presenta univoco ma in perenne confronto con l’alterità: “i treni che vanno coi miei anni/amanti miei che già/mi hanno dimenticato come una loro avventura”.

Perfino un indesiderato commiato può far parte di quelle minime questioni inerenti all’enormità eternale che permea il vivere quotidiano: “l’essere/infelici con poco” è un talento inviso e stupefacente che affiora nel distacco dal sé, perpetrato nell’addio.

C’è, poi, un afflato goliardico che viene liricizzato attraverso un lessico proposto, in alcuni casi, in chiave gergale o dialettale, e che trasfonde l’elemento carnale in quello emotivo, pur rimanendo lontano dalla mistica e dai moralismi più assertivi.

Le soluzioni esistenziali si possono rintracciare in una visione panica dell’universo, osservato come organismo autonomamente funzionante in cui l’individuo è un ingranaggio necessario nell’interconnessione degli elementi naturali: “che smetta il mondo/la trovi/lui la soluzione”.

L’atto amoroso, interpretato sulla scia della tradizione romantica come metamorfosi dell’amato nell’amante (si pensi alla suprema voluttà abbandonico-trasfigurale del wagneriano Tristan und Isolde, e all’ontologia sessualizzata, la “Sessistenza”[3], di cui ha scritto Nancy), diventa origine e archetipo dell’io che smarrisce sé stesso per ritrovarsi nell’altro: “mia cara perdita dei contorni/di me”.

L’eternità di Bevilacqua è una ricostruzione storicizzata di piccoli anfratti terreni e memoriali che infrange la regola dell’assoluto come dimensione postuma ed extraumana, e si può intercettare nelle scintille dell’intuito, tutta disseminata nella relazione tra le cose comuni e le personali normali.

Alla madre, figura ricorrente nell’opera, è dedicata una preghiera laica, bonariamente sacrilega nella descrizione del sembiante carnale. E’ proprio nel corpo materno che si incontrano il mito dell’origine e l’ossessione della malattia che funge da cupo vaticinio dell’abisso esistenziale. Bevilacqua riesce a esprimere l’indicibile con una tenerezza recondita che lo rende ampiamente accettabile, quasi familiare: “mi guardi invecchiare/senza capire il mistero:/sono tutte le voglie/da anni taciute nel tuo utero”.

La filialità non si perde con l’età adulta, anzi rappresenta un continuo, velleitario ritorno a una genesi strappata alla purezza e restituita all’impudicizia della vita.

Si tratta, al di là dei rimandi filosofici, di una poesia d’esperienza diretta e indiretta, che ripercorre, in chiave letteraria, ricorrenze di vita (come l’internamento materno nell’ospedale psichiatrico), fatti di cronaca, ricordi e situazioni concrete. Anche i luoghi (Parma, il Po, le ambientazioni padane) partecipano di una correlazione oggettiva adoperata come espediente d’analisi di un panorama etico e psicologico che supera la dimensione meramente empirica – anche e soprattutto – nei tratti di maggiore dettaglio realistico.

L’atto memoriale, consustanziale al poeta, è la seconda intonazione di una voce sola, di un monologo duale che riconsidera in chiave storica il tempo dell’esperienza e, al contempo, lo travasa nel tempo emotivo: “ci siamo sbagliati a disperare di noi,/siamo perfetti/nel duetto per voce sola”. Continua a leggere

Isacco Turina, “Non come luce”

Isacco Turina

Dimmi il fiore che porti nello stomaco
che porti nella mente.
Fiore scuro di paura
fiore giallo dello sforzo
fiore bianco dell’attesa.
Dimmi l’insetto che ti ronza intorno
la cicala che stride nell’orecchio
la sapienza del ragno che ti abita.
La forma che tu vedi è una follia:
sotto la giusta ombra intimamente
si muovono i giardini inconsapevoli.

*

Da una bocca qualunque ascolteremo
la frase che ci annienta per bellezza
o crudeltà e porteremo sempre
in noi come una vecchia sentenza
che rilascia nel tempo la condanna.
Cibarsi d’ombre fino a quando
sia luce tutto intorno
è ancora il congedo più bello.

*

Dopo tutto

Verdi catastrofi lontane,
vi guardiamo da dietro l’orizzonte.
Quando il dente è penetrato
siamo passati su un ponte sottile.
Barche infinite attendono
per navigare la penombra.
Con un colpo di remo gli equipaggi
si staccano da riva.
Nella cisterna ovale del tempo
rimbombano le gocce, rare
come parole berbere.
E del tempo più nulla sappiamo.

Nel presente

1. Censimento

La storia è un’acqua ogni anno più sporca.
Dei molti che morirono stanotte
rimangono le immagini scattate
in un giorno qualunque.
Riassumi la tua vita in poche frasi.

«Ho preso ordini da un libro sacro.
Ora li prendo dalla mia automobile.
Quando ne ho voglia pago un’altra donna
per farmi sculacciare e insultare.
Non ho tempo di capire».

«Quando gli organi impazziscono
un uomo mi accompagna in ospedale,
mi descrive la luna nelle attese.
Splendida vita, dondolavi
dai rami e sapevi di bucato.
La mano di un estraneo ti ha raccolta».

Abraham Yehoshua, una conversazione inedita

Abraham Yehoshua, foto ANSA

Questa intervista è stata scritta nel novembre 2021, dopo una conversazione telefonica con Abraham Yehoshua. Pubblichiamo in sua memoria, ricordando la disponibilità e la generosità dello scrittore israeliano.

 

di Alberto Fraccacreta

Abraham Yehoshua preferisce le interviste al telefono. Non è attratto dal freddo scambio di email: alla richiesta di un colloquio sul suo ultimo romanzo, La figlia unica (traduzione di Alessandra Shomroni, Einaudi, pp. 168, euro 18) – in realtà, una “novella”, come lui stesso ama dire in italiano –, risponde telematicamente con uno spartano ma caloroso “Call me”.

Questo magnifico senso di accoglienza si avverte persino al primo schiocco della sua voce roca e stentorea, gravata dalla malattia, dai quasi ottantacinque anni. Voce pur tuttavia avvolgente, indomabile.

“Vieni a trovarmi ad Haifa: penso che non potrò viaggiare mai più”.

Yehoshua, per amici e ammiratori Buli, con consapevole malinconia tesse l’elogio del nostro paese, raccontando come abbia deciso di ambientare la sua tredicesima opera narrativa in Italia. “Figlia unica” è infatti la dodicenne Rachele Luzzatto, “con i capelli ricci e gli occhi luminosi”, frutto perspicace di un matrimonio tra ebrei e cattolici.

I docenti della sua scuola, aderente allo “spirito candido e umanitario di Edmondo De Amicis”, le propongono il ruolo di Maria nella recita natalizia, ma il babbo impone un veto: è qui che sorge in Rachele il dissidio identitario, ondeggiante tra cristianesimo e tradizioni ebraiche (come il Bat Mitzvah, l’età della responsabilità religiosa a cui la ragazza è chiamata).

Devo dire che negli ultimi anni – rivela lo scrittore gerosolimitano –, e non solo negli ultimi anni, il mio rapporto con l’Italia riguardo alla letteratura, e non solo la letteratura, è stato molto, molto intenso. L’ho girata tantissime volte per promuovere i miei libri.

L’Italia è diventato il paese più vicino e attento alla diffusione delle mie opere. È stato organizzato persino un convegno, un simposio sui miei romanzi. Ho conosciuto parecchie persone che avevano una certa confidenza con i miei libri, anche nel giudicarli. Quindi è stato abbastanza naturale provare a immaginare una trama ‘italiana’.

Ad ogni modo, sono felice del lavoro che ho svolto in questa novella. Ho cercato di scoprire quali relazioni ci siano tra gli ebrei e i cattolici che vivono in Italia”.

Sono relazioni abbastanza aggrovigliate. Il nonno materno di Rachele è un cattolico fervente, mentre la nonna è atea. Dalla parte del padre avvocato – al quale sarà poi diagnosticato un tumore al cervello – prevalgono i valori ebraici.

L’interrogativo posto da Yehoshua è centrato sul dialogo fra realtà differenti, ognuna descritta secondo una visione del mondo a prima vista in collisione con l’altra. Non siamo lontani dall’intreccio polifonico che Michail Bachtin ha notato in Dostoevskij.

Può darsi. Bachtin si riferiva però a un plot particolare di Dostoevskij e, in quel caso, la vicenda era collocata in una società completamente diversa. “

La figlia unica”, come dicevo, tratta sostanzialmente dei rapporti interpersonali che uniscono gli ebrei in Italia agli ebrei in Israele. Sì, perché la novella che sto scrivendo ora è un prosieguo della vita di Rachele, la quale finalmente approda e si stabilisce in Israele. Tale circostanza è basata almeno inizialmente su una storia vera. La storia di una donna di origine italiana di 40-43 anni che ha scritto una tesi di dottorato sulla ricezione critica dei miei romanzi nel vostro paese.

Ebbene, la tesi poneva una questione precisa: perché in Italia il mio lavoro è così tanto diffuso? In nessun altro luogo la mia opera ha un successo e un riscontro così ampio: perché in Italia, e non in Francia e non in Inghilterra?

Tempo addietro, la comunità ebraica in Italia era piccola e le prime pubblicazioni mie, di David Grossman, di Amos Oz e di altri scrittori israeliani non hanno avuto grande circolazione nel mondo editoriale. A partire dagli anni Ottanta, il nostro patriottismo e, al contempo, la critica rivolta alla politica del nostro paese, cioè l’aver sostenuto la soluzione dei due stati, hanno reso possibile la lenta accettazione della nostra opera e l’inserimento nel quadro della letteratura. E comunque, la giovane studiosa era venuta qui ad Haifa per intervistarmi, ma le domande le ho fatte io a lei”. Continua a leggere

Andrea Galgano, poesie della terra di Lucania

Andrea Galgano

Andrea Galgano in “41esimo Parallelo Nord” – Poesie delle Terre di Lucania – (Editrice Universo sud, 2022) mette in luce voci di poeti e scrittori nati in una faglia di terra denominata Lucania, la Basilicata. Voci nutrite dal suo particolarissimo “genio” come evidenzia Davide Rondoni nella quarta di copertina.

Vi proponiamo un estratto dal libro, nel quale troveremo, con recensioni e poesie sparse di Galgano,  immagini-opere di Irene Battaglini.

*
Sei tu
oltre i balconi incolti
e il pirastro dei grani

inviolata
come mani giunte
nella dolce tenebra di ardesia

e il tuo corpo – ombra di bocca –
dove solo il bacio apre il velo dei cieli
sul basilico degli usci
e la rubata aria delle finestre.

**

Vento chiaro (Austro)

 

La plenaria dei greti
è foschia barbara
sulle tue foci di veranda

i tuoi rosati di giugno
perdono il silenzio delle porte
come gocce stordite

scarmigliano
l’austro campanile
e sgretolano penetrali di nuvole

nella chiusa delle lune
il bianco dell’anima
è finalmente nitido.

 

Nebule diamante
(scrivendo di Beppe Salvia)

 

La schiena dei litorali
ha nebule diamante
scogli e cicale
prima delle spighe

il timo buio
vela nocciole alle frasche

dove nascono i glicini
abita il tuo fondale
di vele gemelle
e il cedro cielo degli acini

i tuoi rilievi hanno frescure
di baci australi
volgono al regno
bendato delle navi

qui una verde fenice
spoglia le pupille
e le rive falbe

la sera mulatta
tinge i gelsomini
e i vimini sui petali
delle nostre barche marezzate.

(Andrea Galgano)

Beppe Salvia: la “privazione dell’assenza”

di Andrea Galgano

Andrea Zanzotto, a proposito della poesia sofferta, e quindi teneramente viva, di Beppe Salvia, scomparso nel 1985, scrive: «La sua poesia, che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di riprendere contatto con il “cuore”del mondo».

L’elemento centrale della sua poesia è l’assenza o meglio la privazione del tempo lacerato, che recupera il contatto con il mondo e che si approfondisce fino alla percezione di una fragile inconsistenza, lontana dalle persone e dalle cose. In una tensione vagabonda e luminosa verso l’infinito e attraverso il respiro di una pienezza, egli afferma e vive la bellezza delle sue sillabe:

«Abbiamo nel cuore un solitario / amore, nostra vita infinita, / e negli occhi il cielo per nostro vario / cammino. Le spiagge i cieli, la riva / su cui sassi e rovi e il solitario / equisèto, e colli erbosi grassi / rioni, città dispiegate come / belle bandiere, e nude prigioni. / Questa è la nostra vita. Questi nostri / volti vagabondi come musi / di cani ci somigliano. Il vento / il sole le corolle rosse e blu, / i sogni mai sognati i nostri sogni / Questa è la nostra vita e nulla più».

Il cuore dell’uomo è il desiderio di felicità, compimento totale e permanente dei desideri costitutivi, delle esigenze dellapropria umanità. L’irresolutezza che dilaga nel perimetro del nostro essere fa i conti con questa promessa, perché «d’umane ammende è colma sfera ogni speranza».

L’occorrenza continua nel suo verso limpido e sospeso, come oggetto nell’anima, come sacro lavacro di un tempo che non riesce a trovare compimento, isolato nella reclusione del respiro lirico, sacrifica la propria soggettività, come «l’anima già mi sfrangia / una lesta vecchiaia / eterna gioventù / d’aver più note le cose / e me scomparso»: «Non ha più limite la mia pazienza. / Non ho pazienza più per niente, niente / più rimane della nostra fortuna».

Una poesia intensa, umbratile e vibrante che frequenta i bersagli dell’essere e l’intimità del passo svelto delle cose, nelle parole che provengono da lontano e lontano si spingono fino alla nudità del cuore, al suono del battito delle corde tese: «non v’era nulla nel mio cuore è vero, / ma quest’aspra materia s’avea le sue / parole, e io le ho dette tutte o / anche le ho taciute».

L’appartenenza alla chiarità della sua visione è la gemma di un raggiungimento, di un disarmo di nudità povera, di un racconto di esperienza che induce alla spoliazione di sé.

È quel che possiede come sgomento: «C’è chi, al contrario di me, non dispera, / che con salute e forza e virtù e buona / fortuna, si arrivi a morire dopo / tanti bei giorni, pieni di tantissime / cose di questo mondo o di un altro mondo; / e dopo tanti giorni e quella gioia soltanto / povera dei giorni […]». O in Ultimi versi, dove scrive: «di lume bianco oram’assembra lieta / e povera e lieve questa mia / terra dei morti dove all’alzata ormai / dei giorni io nascondo […]».

La distanza dalle cose, pur apparentemente incolmabile, non è gergo di un ritiro dalla vita, ma momento di un’aspettativa accorata, nella proiezione del desiderio tra sperdimenti di luci, vicine e lontane, mai spente e vivide nel loro formarsi.

Già nella sua raccolta Estate, le liriche nascono in un’accorata elegia nostalgica, un punto vero di fuga in cui trovare la vera dimensione di equilibrio tra passato e presente, esterno e interno, inerzia e divenire. Il luogo poetico, rattrappito nel suo farsi e disfarsi, inizialmente immobile tende pian piano al movimento aperto del mondo, in un unico momento di esperienza stupita che oltrepassa la frantumazione e lo spargimento, pur senza frequentare l’oltre: «M’innamoro di cose lontane e vicine, / lavoro e sono rispettato, infine / anch’io ho trovato un leggero confine, / a questo mondo che non si può fuggire. / Forse scopriranno una nuova legge universale, e altre cose e uomini impareremo ad amare» ,o ancora: «distanti i suoni e, / remota ogni vaghezza delle voci / giù nella via».

Ed ecco che l’io appare insolitamente chiuso e mai ridotto, fervido d’amore protettivo per sé e per la propria identità, in un momento centellinato e ricolmo di slancio.

Irene Battaglini scrive: «La placida e paziente ansia di Beppe Salvia è fiore che sboccia in pochi istanti e cristallizza come prisma immobile da cui luce non passa. La luce diffonde e rimbalza affondando tra le persiane come in una natura morta – ma non ancora del tutto – di Morandi. E così che Beppe Salvia si va riempiendo di una vita sorda alla gioia e muta al dolore, in una via di lutto che affonda le radici in una terra grezza e gravida di parola».

Appare l’eco leopardiana in queste stanze, dove la lontananza esprime il suo canto naturale e si riverbera nella sceltalessicale e versificatoria di una «misura lieta», accostata anche all’epigramma. Le immagini sembrano convergere nella loro atmosfera rarefatta di «cieli quieti di pensieri chiari», in quadro allitterante, nominale e immoto.

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Lia Rumma dona la sua collezione al Museo di Capodimonte

Lia e Marcello Rumma, 1961

Lia Rumma, la più importante gallerista italiana, dona al Museo di Capodimonte  una parte consistente della sua collezione: una selezione di oltre 70 opere di artisti italiani, dagli anni Sessanta, con un focus sull’Arte Povera.

Tra gli artisti in collezione: Vincenzo Agnetti, Giovanni Anselmo, Carlo Alfano, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Mario Ceroli, Dadamaino, Gino De Dominicis, Giuseppe Desiato, Luciano Fabro, Piero Gilardi, Giorgio Griffa, Paolo Icaro, Mimmo Jodice, Jannis Kounellis, Maria Lai, Carmine Limatola, Pietro Lista, Francesco Matarrese, Mario Merz, Marisa Merz, Aldo Mondino, Ugo Mulas, Luigi Ontani, Giulio Paolini, Pino Pascali, Gianni Piacentino, Michelangelo Pistoletto, Gianni Ruffi, Ettore Spalletti, Giulio Turcato, Gilberto Zorio.

La collezione “Lia e Marcello Rumma” sarà allestita come raccolta permanente nella Palazzina dei Principi, elegante edificio nel Real Bosco di Capodimonte, fondato dai Carmignano marchesi di Acquaviva prima del Palazzo reale, situato davanti alla facciata principale della Reggia.

La raccolta si aggiunge alla sezione d’arte contemporanea con oltre 160 opere già musealizzate,  che rende il Museo di Capodimonte l’unico in Italia a conservare e esporre l’arte dal XIII secolo a oggi, con raccolte eccezionali tra le quali quella Farnese.

L’annuncio verrò dato martedì 21 giugno 2022 alle 11:00 presso la Stufa dei Fiori – Tisaneria annessa alla Palazzina dei Principi, dal Ministro della Cultura Dario Franceschini, da Lia Rumma e dal Direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger.

La collezione Lia e Marcello Rumma

La donazione comprende oltre 70 opere, tra dipinti, sculture, fotografie e lavori su carta e documenta la pratica di una trentina di artisti italiani, la cui ricerca ha avuto un riscontro internazionale.

Un focus è inoltre dedicato all’Arte Povera – definizione coniata nel 1967 dal critico Germano Celant – e di altri artisti riferiti alla medesima scena, la cui ricerca individuale si è sviluppata accanto ai movimenti radicali di quegli stessi anni.

L’insieme copre un arco di tempo che va dal 1965 agli anni Duemila. Continua a leggere

Stefano Carrai, da “Equinozio”

Stefano Carrai, Castelnuovo Rangone, Poesia Festival,  2019

Proteo

Non ho saputo mai
essere uomo a una dimensione

mi sono costruito una coscienza
con materiali spuri
una coscienza
ammetto
un po’ da trovarobe
ma molto
molto più
coriacea della mia faccia di bronzo

non mi è piaciuta ma l’idea di essere
una cosa sola
fin da ragazzo
quando ascoltavo i dischi
ero chitarra
piano
batteria
sax in combo
in quartetto viola…

*

Ulisse

Vorresti liberarti
ora
virare

di bordo
invertire la rotta e cedere
al canto di sirena

ma i lacci sono stretti
e nessuno che possa darti aiuto

ora vola sull’onda la polena.

*

Epigrafe per l’auriga di Mozia

              a Nino De Vita

 

Il mio vivo modello
tenne bene le redini
gareggio perse vinse
invecchiò si ammalò
morì e fu sepolto.

Chiuso nel mio minuscolo
museo io aspetto
le ciurme di curiosi
immobile nel gesto
di reggere il mio carro.

Ma potesse qualcuno
infondermi la vita
che corsa spiccherei
sulla strada sommersa
alle placche di là dallo Stagnone.

Da Equinozio, Industria e Letteratura, 2021 Continua a leggere

Victor Hugo, “Mazeppa e altre poesie”

Victor Hugo

 

Dall’introduzione
di
Stefano Duranti Poccetti

 

Avvinarsi a queste poesie non è stato sempre semplice, intrise come sono di riferimenti storici e anche mitici. È stato perlopiù impossibile, purtroppo, mantenere i giochi di rima dell’Autore.

Mi sono concentrato piuttosto – più da poeta che da traduttore – sulla fedeltà all’aspetto concettuale e mistico di Hugo, entrando con lui in rapporto empatico, cercando di dare alle liriche l’aspetto più piacevole possibile e in questo, nella maggioranza dei casi, è stata la stessa lingua francese, di norma non così divergente dalla nostra, a dettarmi l’andamento, i tempi giusti, la parola appropriata; ma, quando questo non è stato possibile, è normale avere trovato degli escamotage che spero saranno accettati dai lettori e soprattutto dallo stesso Hugo, che, chissà, magari ci starà osservando da qualche parte mentre ci accingiamo a ripristinare con lui un legame nel ricordo della sua poetica, troppo spesso dimenticata.

Nel mio piccolo, offro questa raccolta, dopo che con la casa editrice Nulla Die avevo pubblicato la traduzione de Les Chevaliers errants.

 

Mazeppa

 

(A M. Louis Boulanger)
Away! – Away! –
En avant! En avant!
Byron, Mazeppa

 

Allora Mazeppa, stridente e piangente,
vede braccia, piedi, fianchi dalla sciabola lambiti
e tutte le sue membra legate
a un arroventato cavallo nutrito d’erbe marine,
irrequieto, emanante fuoco dalle narici
e fuoco dai piedi.

Quando è attorcigliato nei nodi come un rettile,
ha ben da rallegrarsi della sua rabbia inutile
il carnefice, tutto esultante
di vederlo infine cadere sulla feroce groppa,
sudore sulla fronte, saliva alla bocca,
sangue negli occhi.

Si sente un grido e subito ecco per la pianura
l’uomo e il cavallo in fuga senza respiro
sulle mobili sabbie,
soli, riempendo di rumore il vortice di polvere.
Simili alla nera nuvola in cui serpeggia il fulmine
volano insieme ai venti!

Vanno. Nelle valli passano quali tempesta,
come quegli uragani raccolti nei monti,
quale globo infuocato.
Poi, già non sono altro che un punto nero nella bruma,
sfacendosi nell’aria quale fiocco schiumante
nel vasto oceano blu.
Vanno. Lo spazio è esteso. Nel deserto immenso,
nell’orizzonte senza fine che ricomincia
entrambi s’immergono. Continua a leggere

Eleonora Rimolo, “Prossimo remoto”

Eleonora Rimolo

Da Prossimo remoto, Postfazione Milo De Angelis, peQuod Edizioni, 2022

Come questo albero piccolo
che sta dentro una mano
tu mi sei cresciuto dentro
la gola: quando ingoio saliva
e lacrime tu distendi i rami,
perdi le foglie ed io soffoco
col concime asciutto tra i denti,
eppure impercettibile è questa
deglutizione, sogno automatico
che scuote il sonno e alza
il vento d’estate, muove le tende,
irrigidisce il palato secco
di germogli ma non abbevera
le radici dimenticate nel fondo
acido dello stomaco, solo spezza
di netto il tronco nodoso
delle tue gambe di cerva.

***

A volte la macchina del mondo si ferma
con un lungo fischio ed io non so
quale passato usare mentre riposi,
se tu mi sia remoto o prossimo. Come un fossile
la parola segnala il resto parziale di un organismo,
di una cosa che c’era e che c’è: la scheggia
di un tuo dente perduto a scuola da bambino,
l’anello che porti sull’orecchio destro
e tutto quanto ti fa vivo e primitivo
dentro quell’orma sul pavimento,
traccia ovale del risveglio, figura di partenza.

 

Nella postfazione a questi versi di Eleonora Rimolo Milo de Angelis scrive: “La poesia di Eleonora Rimolo è percorsa da una forza dirompente che si chiama Alterazione, scritto con la maiuscola per indicare la potenza arcaica di un archetipo”.

 

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Al museo Bilotti, “Cosmogonia”

COMUNICATO STAMPA

Al Museo Carlo Bilotti di Villa Borghese la mostra
COSMOGONIA

Sonia Gentili Daniela Monaci

A cura di Lorenzo Canova

Poesia visiva, fotografia, installazioni, video

La mostra Cosmogonia presenta opere di Daniela Monaci e poesie di Sonia Gentili trasformate in installazione visiva (sette Fogli e un Libro con testo dinamico) dal collettivo L’uomo che non guarda (Sonia Gentili e Ambrogio Palmisano).

Le personalità degli artisti sono legate dall’intento di superare i limiti della percezione ottica per trovare uno sguardo profetico calato nel nucleo incerto della realtà, alla ricerca di un disvelamento “apocalittico” posto sul fragile crinale che divide l’apparire e l’accadere delle cose, nel “punto d’intersezione del senza tempo col tempo” evocato nei Quattro quartetti di T. S. Eliot.

La mostra, a cura di Lorenzo Canova, è ospitata al Museo Carlo Bilotti dal 16 giugno al 4 settembre 2022 ed è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali. Servizi culturali di Zètema Progetto Cultura.

Nella mostra le trame e le geometrie della natura entrano in un rapporto di corrispondenze col dipanarsi dei versi sulle pagine elettroniche, in un perenne andamento di emersione e di inabissamento della parola e delle forme innestate agli intrecci metamorfici di un mondo in bilico fra la sua trasformazione e la sua immutabile matrice originaria.

Le opere sono armonizzate agli spazi del museo Bilotti per accompagnarci in viaggio i cui punti di partenza e di approdo restano però sospesi nell’incertezza di una strada realizzabile solo attraverso la personale immersione nella profondità della mostra.
Daniela Monaci traccia le rotte di una navigazione pensata per Smarrirsi (titolo di un suo ciclo di opere) e ritrovarsi nelle riapparizioni figurali di esseri umani che affiorano da un mare di nebbia, da una caligine simbolica che avvolge i corpi e li restituisce come alla fine di un naufragio, nella ri-creazione cosmogonica di un mondo in cui nuove terre sorgono dalle acque del nulla, evocate dallo sguardo accecato di occhi chiusi ma immersi nelle tenebre annunciatrici della profezia.

I Fogli e il Libro del collettivo L’uomo che non guarda trasformano i testi di Sonia Gentili in poesia visiva in cui il testo, dinamizzato in modo da emergere gradualmente, è in cammino verso la sua forma. Le parole affiorano pian piano come fioriture di nero nel candore della carta digitale, visione imperfetta per speculum in aenigmate di un mondo terreno a cui il mistero dell’esistere nega e concede arbitrariamente la speranza di un mondo superiore.

In occasione della mostra sarà pubblicato un catalogo da Ensemble Edizioni, Roma, con testi di Lorenzo Canova, Giovanna dalla Chiesa, Giorgio Patrizi con un contributo del Collettivo L’uomo che non guarda. Continua a leggere

Milo De Angelis presenta a Milano la sua traduzione del “De Rerum Natura” di Lucrezio

Giovedì 16 giugno, ore 19:30 alla  Casa della Poesia di Milano (via Formentini 10) presentazione di LUCREZIO a cura di Milo De Angelis. Con Vincenzo Frungillo, letture di Viviana Nicodemo. 

La traduzione di Milo De Angelis del De rerum natura di Lucrezio – da poco uscita nella collana dello Specchio Mondadori – verrà presentata da Vincenzo Frungillo, poeta da sempre vicino al mondo classico, mentre l’attrice Viviana Nicodemo leggerà un’ampia scelta di brani, che mettono in luce alcuni temi centrali di questo immenso poema: la potenza della natura, il vortice degli atomi, l’indifferenza degli dei, la novità del messaggio epicureo, la condizione umana, le malattie e la peste di Atene, di cui Lucrezio fa un ritratto sconvolgente e attualissimo alla fine dell’opera.

L’incontro si propone di mostrare ancora una volta l’inesauribile presenza di questo poeta solitario e misterioso, di cui non sappiamo quasi nulla, vissuto nel primo secolo A.C. e poi dimenticato con l’avvento del Cristianesimo.

Dopo la scoperta del suo manoscritto, avvenuta nel 1417 a opera dell’umanista toscano Poggio Bracciolini, Lucrezio non ha cessato di lasciare un’impronta duratura nell’arte e nella letteratura dei secoli successivi – da Botticelli a Tiziano, a Tasso a Shakespeare, all’Illuminismo, a Shelley, Foscolo, Leopardi, fino all’esistenzialismo di Sartre e di Camus e alle correnti più vive e appassionate del pensiero contemporaneo.

Il libro postumo di Biancamaria Frabotta

Bianca Maria Frabotta
ph©campanini-baracchi

«Nessuno veda nessuno»

di Sacha Piersanti

«Partiste sotto la luna e non ci fu tempo / di cancellare i segni della vostra presenza»: così inizia uno dei momenti più intensi di Nessuno veda nessuno (Mondadori, 130 pp., 15 €), l’ultimo libro di Biancamaria Frabotta, che se non fosse la poetessa (“la poeta”, avrebbe detto lei, senza assecondare l’idiozia degli schwa e degl’asterischi) che è stata e che è, diremmo è partita anche lei, e anche lei non ha avuto il tempo di cancellare i segni della propria presenza.

Ma quando si ha a che fare con un’opera come quella di Frabotta, quando si ha a che fare con Biancamaria Frabotta, è meglio e giusto e necessario non giocar con le parole, non farsi sedurre dagli eufemismi, vezzo imperdonabile degli umani nella Storia, degli umani che nella Storia non san starci lucidi e umani per davvero – Biancamaria Frabotta non è partita, dunque: Biancamaria Frabotta è morta il 1° maggio scorso e Nessuno veda nessuno è il suo ultimo libro. Il suo primo libro postumo.

Strutturato in tre sezioni, disomogenee e però in dialogo tra loro, tre sezioni che interagiscono pur mantenendo una propria relativa autonomia di portata e di tenuta, per temi e toni e per figure, Nessuno veda nessuno si fa leggere come raccolta e romanzo, taccuino e diario, mescolando aneddotica e autobiografia, riflessione teorico-letteraria e storico-politica, intenso lirismo e quasi profetica narrativa: «La sua ultima passeggiata cominciò / in un giorno come un altro» (p. 121), «Ma intatte sono rimaste le folte / radici abbeverate da mani gentili. / Basta un inciampo e si cade / nel costante agguato secolare» (p.74).

S’inciampa e si rovina, si cade a terra e spesso più non ci si rialza, specie quando la fragilità del corpo non è usura del tempo ma proprio condizione di natura e di più: precondizione d’esistenza.

E di fragilità e di cadute, di consistenze precarie, e come già frante di per sé, parla proprio il cuore di questo libro, se la nascita sembra un «piombare» «da un altro pianeta» (p. 36), se i morti che appaiono in sogno faticano a «stare al passo coi vivi» (p. 52) e noi, i vivi, «scaraventati / dentro al mondo» (p. 105), «non siamo mai in noi» (p. 61), ma «siamo uno sciame di molecole / una materica memoria senza ricordi» (p. 9) e «scriviamo nell’aria la nostra resistenza» (p. 10), a caccia di una qualche luce, di una «lampada a fasi alterne» (p. 92) almeno.

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Carlo Bordini, un autore di riferimento

Carlo Bordini

L’ 8 giugno 2022  la sessione di Italian Poetry Today, University of Oxford, ospita una discussione sull’ultimo libro di Carlo Bordini, recentemente scomparso: ‘Un vuoto d’aria’ (Mondadori, 2021).

A presentare e commentare la nuova edizione saranno la curatrice Francesca Santucci e gli studiosi Claudia Crocco e Gianluigi Simonetti.

Poeta appartato e ribelle per vocazione, Carlo Bordini è stato per molti, fino alle generazioni più giovani, un autore di culto, una figura autonoma di riferimento.Composto negli ultimi anni di vita, Un vuoto d’aria, che esce postumo a cura di Francesca Santucci, conserva i tratti più rilevanti della sua fisionomia poetica, in primo luogo l’intensità materica e una potente energia espressiva.

L’alternarsi di versi e prosa poetica genera una forte efficacia comunicativa, pur con volute sconnessioni interne, che va ben oltre i termini di una letterarietà di tradizione e di maniera, del tutto estranea al senso della ricerca di Bordini.

Una ricerca sempre volta, per citare un suo intervento, a quella che definiva iperverità, nella convinzione che «l’arte, ogni forma d’arte, giunge, quando funziona, a una verità più profonda di quella che una persona conosce o crede di conoscere nella sua vita».

Ci troviamo di fronte a un autore che varia le scelte tematiche e formali, e che reinterpreta la stessa poesia d’amore o autobiografica secondo termini del tutto personali. Un autore ben attento all’esempio di Pasolini, capace di ironia e di aperture trasgressive e coinvolto come pochi altri nella stagione dell’impegno, attraversata prima con adesione ideologica e poi con distacco.

Ma nella cui poesia troviamo anche legami con grandi esempi storici, come quelli di Apollinaire e Gozzano.

Bordini è stato un poeta per il quale risulta decisivo il rapporto tra scrittura e psicoanalisi, poiché nei suoi versi «la psicoanalisi è ovunque», come scrive Guido Mazzoni nel saggio introduttivo, «non è solo un contenuto: è una forma, è una macchina semiotica».

E questo nell’ininterrotta indagine sul vissuto che ha alimentato i suoi testi, ai quali possiamo oggi tornare con il pieno interesse dovuto a una riscoperta ormai necessaria.

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I “Depositi piovani” di Luccioli

Massimo Luccioli

In mostra le opere visionarie di Massimo Luccioli

Nota di Fabrizio Fantoni

 

La prima impressione che offrono le opere di Massimo Luccioli è di condensare con rinnovata energia le lezione della più importante produzione artistica del novecento.

Le sue superfici ci restituiscono la matericità di Alberto Burri, la forza evocativa di Leoncillo e la poesia visionaria di Lucio Fontana.

Le opere di Luccioli ponendosi al confine tra scultura e pittura ci portano a contatto con l’inconscio, con la materia archetipica, a volte magmatica, che si muove al di sotto o al di là del visibile.

Il gesto artistico che sorregge le creazioni di Luccioli, seppur animato da un’ irriducibile istintualità, risulta sempre contraddistinto da un controllo e da una raffinata sostenutezza formale assai desueta nel panorama artistico contemporaneo.

Un artista da scoprire ed apprezzare in questa inedita mostra.

Volto di uomo

MASSIMO LUCCIOLI
Depositi piovani
A cura di Mario Finazzi

9 giugno opening
Aleandri Arte Moderna
Roma

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L’amore universale di Tagore

Rabindranath Tagore

AMORE SENZA FINE

Sembra che ti abbia amato in innumerevoli modi,
innumerevoli volte
nella vita dopo la vita, ripetutamente, sempre.

Il mio cuore incantato ha creato e ricreato la collana delle canzoni,
che hai accettato in dono e hai messo attorno al tuo collo a modo tuo,
nella vita dopo la vita, ripetutamente, sempre.

Ogni qualvolta odo vecchie cronache d’amore, è un’annosa pena,
l’antica storia di trovarci lontani l’uno dall’altro o insieme.

Quando mi perdo nel mio passato, alla fine tu emergi da esso,
rivestita della luce di una stella polare, attraverso le ombre del tempo.
Diventi un’immagine di ciò che è impossibile dimenticare.
Tu ed io abbiamo galleggiato qui sul ruscello che ci porta con sé dalla fonte.

L’amore reciproco, nel cuore del tempo.

Abbiamo giocato insieme a milioni di amanti,
abbiamo condiviso la stessa timida dolcezza dell’incontro,
le stesse penose lacrime di addio,
antico amore ma in forme che si rinnovano di continuo.

Oggi questo amore trabocca ai tuoi piedi, ha trovato la sua fine in te.
L’amore di tutta una vita: gioia universale, dolore universale, vita universale.

Si fondono con il nostro i ricordi di tutti gli amori –
e le canzoni dei poeti di tutti i tempi. Continua a leggere

Il virtuosismo tecnico di Antonio Finelli

Antonio Finelli

 “Oltre la realtà”.

Il mondo artistico di  Antonio Finelli

Intervista di

Fabrizio Fantoni

 

Artista tra i più valenti della sua generazione, Antonio Finelli (classe 1985) si contraddistingue per la sbalorditiva perizia tecnica con cui esegue i suoi disegni.

Le sue figure, che si stagliano nette sulla carta, portano con loro la caducità e la fragile bellezza delle farfalle: volti segnati dalla vecchiaia ritratti con lenticolare precisione, immagini che sembrano emergere dal fondo della memoria per mostrarsi  ai nostri occhi un’ultima volta prima di scomparire definitivamente.

Il virtuosismo di Antonio Finelli non è fine a se stesso ma, al contrario, è il mezzo per andare oltre il visibile ed indagare le nascoste armonie che sorreggono i rapporti tra gli uomini.

 

Disegno di Antonio Finelli

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Milo De Angelis, “De Rerum Natura”

Giovedì 16 giugno, ore 19:30 Alla Casa della Poesia di Milano presentazione di Lucrezio a cura di Milo De Angelis.

Il De rerum natura, uno dei capolavori della letteratura latina, è opera ricchissima di temi ed episodi, che vengono affrontati con la violenza espressiva tipica di questo autore misterioso, Tito Caro Lucrezio, di cui si è persa ogni notizia biografica. Tutti noi ricordiamo per memoria scolastica le formidabili scene in cui la natura su manifesta in tutta la sua catastrofica potenza: voragini, incendi, uragani, terremoti, forza immense che sovrastano l’uomo e lo schiacciano, povera canna al vento.

Ma il De rerum natura è anche un trattato sulla vita degli animali, delle piante e del cosmo intero ed è un libro in cui l’uomo viene scrutato in ogni suo aspetto: fisiologico, psichico, morale, con affondi mirabili nelle zone più buie e drammatiche della sua vita interiore, come vediamo nelle pagine del quarto libro dedicate all’amore, tra le più crudeli che siano mai state scritte su questo tema grandioso.

Letture di Viviana Nicodemo

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Claudio Damiani, da “Prima di nascere”

Claudio Damiani Credits ph Dino Ignani

Se fosse che è tutt’altro,
tutt’altro da quello che siamo
tutt’altro da quello che pensiamo
e che vediamo, se quello che ci aspettiamo
fosse tutt’altro da quello che sarà,
se quello che sarà fosse qualcosa di bello
e non avessimo nostalgia della vita,
delle persone care, dei modi, di tutto quello
che abbiamo amato, se non avessimo nostalgia
ma tutto fosse con noi come era già stato
in vita, se ci fosse restituito
ciò che ci è stato tolto, che non c’è stato dato,
ci hai mai pensato? Se fosse che adesso
soffriamo, ma poi non soffriremo più,
tutto ci sarà ridato, e in più
anche altro che non abbiamo avuto
e fossimo così pieni e soddisfatti
da non chiedere più, da non soffrire più
ci hai mai pensato?

***

Di certo nei secoli, nei millenni futuri
saremo chissà dove, in altri pianeti e mondi,
saremo entrati così dentro nella natura
da comandarla a nostro piacimento,
non moriremo più, potremmo allungare la vita
quanto vorremmo, e, posto che davvero
saremo signori della natura,
non mancheranno di certo le sorprese,
dovremo combattere per mantenere il dominio
e non è detto che vinceremo sempre,
io però vorrei mantenere questi boschi
dove cammino nel silenzio tra gli alberi,
mi sta bene stare qui, anche morire fra poco
ma stare qui in questo silenzio, camminare
per questi sentieri, sentire gli alberi accanto
che respirano, stare in silenzio con loro.

***

Pensa se fosse così:
che noi mentre stiamo facendo una cosa
comunissima, tipo portare una cosa
sopra un tavolo, oppure cercarla
ecco aprirsi una porta, e nella stanza
ci sono tutti! è una stanza immensa
e ti salutano gioiosi e applaudono
come un compleanno a sorpresa
e dicono: “Hai visto? Sei consento?
Come stai? Come ti senti?”
e tu lo senti che è stato uno scherzo la vita
o un brutto sogno, o un sogno
bello, ma un sogno, oppure è stata
come una guerra sotto i bombardamenti
e ogni giorno c’erano le sirene,
o c’erano stati giorni belli anche,
di sole, di luce, di silenzio
tu camminavi da solo
in mezzo alle piante amiche.

 

Claudio Damiani, Prima di nascere, (Fazi Editore, 2022)

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Milo De Angelis, “Ritorno”

Pubblichiamo in esclusiva un estratto da : Ritorno, di Milo De Angelis, pubblicato con Vallecchi (Firenze) nel 2022.

Inconfondibile la voce del poeta che affronta il questo fondamentale volume il tema del ritorno come atto conoscitivo (discesa agli inferi) e di mutamento del sé.

OMERO

IX SECOLO A.C.

 

Partiamo dunque da Omero, leggendo il celebre episodio di Argo, nel diciassettesimo canto, che ho cercato di tradurre e di restituire alla tensione sentimentale che lo percorre, persino elegiaca, insolita in Omero.

Ulisse sta per varcare la soglia della reggia. Nessuno l’ha riconosciuto, finora, E anche più tardi le creature umane faranno fatica a riconoscerlo, chiederanno una prova, una garanzia, un segno, una vecchia cicatrice.

Argo no. Argo lo riconosce immediatamente. Ma non riesce a mostrarlo. È talmente grande la sua emozione da creare una paralisi, un blocco, un’assoluta incapacità di camminare e andargli incontro.

Riesce solo a muovere la coda e resta fermo lì, in quel mucchio di letame, pieno di pulci e dimenticato da tutti. Argo è attraversato da una dolcezza infinita e da un infinito dolore.

Muore così, all’ingresso della reggia, nel momento stesso in cui Ulisse varca la soglia, e la sua morte conduce alla rinascita del padrone.

Sono due nell’Odissea, le sentinelle del ritorno, come ha scritto la grande grecista Maria Grazia Ciani, e nessuna delle due è creatura umana.

Sono due: un povero cane dimenticato da tutti e un arco.

Il cane resta muto e esalando l’ultimo respiro restituisce il respiro a Ulisse.

L’arco, oggetto inanimato, si rianima tra le mani del legittimo proprietario e sembra quasi riconoscerlo, come uno strumento musicale che riconosce la mano antica e tanto amata (“toccò con la mano destra la corda, dice Omero, ed essa emise un suono bellissimo, come la voce di una rondine“).

Ecco dunque che il tema del ritorno si connette qui a un altro grande tema che percorre tutta la letteratura occidentale, ossia il tema del riconoscimento, (anagnòrisis) un tema che troviamo tante volte nella tragedia greca (Oreste e Ifigenia, Elena e Menelao), e poi in Dante e Shakespeare, nel Conte di Montecristo, nel Fu Mattia Pascal.

La bellezza di tale anagnòrisis e la sua forza amorosa sprigionata nel mondo mi spingono a pensare che ci sia un segreto legame tra il riconoscimento e la riconoscenza: dobbiamo essere grati a ciò che ci consente, una volta riconosciuto, di percorrere passo dopo passo i sentieri del nostro destino.

(Milo De Angelis)

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Bertoni, da “L’isola dei topi”

Alberto Bertoni Castelnuovo Rangone, Poesia Festival 6 marzo 2022

Metamorfosi

Una delle prime cose che farò
quando tutt’e due saremo alberi
sarà dimenticarti
ma senza whisky e senza psicoanalisi

No, saprò dimenticarti
donando le foglie piú casuali,
ribelli, irregolari
alle schiere di passeri sui rami
e – vedrai – saprò dimenticarti
come ho già dimenticato
gli immani soffi atlantici
le diastoli e le sistoli del mare
che si tende o si apre
di sei ore in sei ore
cosí che ogni giorno quattro volte
avanza e si ritira

Io e te con le facce come
cortecce di rughe,
buchi da sembrare tane
e radici del buio piú profonde
io e te saremo entrambi bravi
a dirci come siamo stati
portatori nel complesso sani
d’abbandoni e resistenze

E cosí, rimanendo tali e quali,
fruste di salici, ali
potremo all’infinito ricordarci.

 

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Alessandro Bellasio, presentazione a Milano

A Milano, sabato 4 giugno 2022, alle ore 18, Alessandro Bellasio presenta la silloge Monade (L’Arcolaio) e la raccolta di saggi Disappartenenza. Letteratura e ascesi, i primi due volumi della Trilogia dell’infrangibile, presso la Libreria Popolare di via Tadino.

Intervengono Milo De Angelis, Lorenzo Chiuchiù e Andrea Leone. Continua a leggere

Pier Paolo Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”

Pier Paolo Pasolini

I

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l’abbaglia

con cieche schiarite … questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio… Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

tra le vecchie muraglie l’autunnale
maggio. In esso c’è il grigiore del mondo;
la fine del decennio in cui appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo…

Tu, giovane Gramsci, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore;

quanto meno sventato e più impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano

delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi? che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d’incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

la sua giornata, mentre intorno spiove.

II

Tra i due mondi, la tregua, i cui non siamo.
Scelte, dedizioni…. altro suono non hanno
ormai che questo del giardino gramo

e nobile, in cui caparbio l’inganno
che attutiva la vita resta nella morte.
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

che mostrare la superstite sorte
di gente laica le laiche iscrizioni
in queste grigie pietre, corte

e imponenti. Ancora di passioni
sfrenate senza scandalo son arse
le ossa dei miliardari di nazioni

più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
le ironie dei principi, dei pederasti,
i cui corpi sono nell’urne sparse

inceneriti e non ancora casti.
Qui il silenzio della morte è fede
di un civile silenzio di uomini rimasti

uomini, di un tedio che nel tedio
del Parco, discreto muta: e la città
che, indifferente, lo confina in mezzo

a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
vi perde il suo splendore. La sua terra
grassa di ortiche e di legumi dà

questi magri cipressi, questa nera
umidità che chiazza i muri intorno
a smorti ghirigori di bosso, che la sera

rasserenando spegne in disadorni
sentori d’alga…. quest’erbetta stenta
e inodora, dove violetta si sprofonda

l’atmosfera, con un brivido di menta,
o fieno marcio, e quieta vi prelude
con diurna malinconia, la spenta

trepidazione della notte. Rude
di clima, dolcissimo di storia, è
tra questi muri il suolo in cui trasuda

altro suolo; questo umido che
ricorda altro umido, e risuonano
– familiari da latitudini e

orizzonti dove inglesi selve coronano
laghi spersi nel cielo, tra praterie
verdi come fosforici biliardi o come

smeraldi: <> – le pie

invocazioni…. Continua a leggere

Sacha Piersanti, da “L’infanzia stipendiata”

Sacha Piersanti credits ph Dino Ignani

1.
Non ti chiedo strette, mano,
né, gamba, un altro scatto –
non ti chiedo tempo, morte,
né a amore, tuo fratello
tuo amante tuo doppione,
chiedo comprensione –
non chiedo voli al cielo
(senza ali e senza piume
si sta meglio), no, nemmeno,
terra, a te ti chiedo
d’aprirti o farti lieve:

chiedo a Te che scruti
non visto, non vedente,
chiedo a Te, inesistente,
chiedo anzi pretendo
di darle retta quando

allora

alla fine della carne

anziché domande,
invece di preghiere,
invece del perdono
Ti darà consigli –
ascoltala, Ti prego,

la sua infanzia stipendiata
T’insegnerà che non ha età
solo quello che è divino

ma solo l’uomo non ce l’ha
quello che chiami destino.

2. LA PROMESSA DI DIVISA

“Er poliziotto o ‘r finanziere
‘r viggile der fòco o l’avvocato
anche se pure l’infermiere
è sempre mejo der malato.
Basta che prometti, a nì,
de fatte un nòme da divisa,
che non te ritrovi mai
a fatte carpestà.
Adesso che ce penzo,
fai la guardia forestale!”

*
Non dissi altro che sì, certo,
avrei indossato una divisa,
un’armatura fra le tante
che forgia Società.

*
Ma è come il ragazzino
viziato che sgambetta
sotto il tavolo se tenti
d’erigere un castello
con le carte piacentine
la vita mai domata
che ci disobbedisce –
ho provato a rispettarla
la promessa di divisa,
ma mi colse e non potei
far altro che subirla
la marea della parola
che per quanto bassa
diluvia nella gola.

 

3.
Avrei dato tutta la storia del pensiero,
ogni verso della storia,
per seguire fedelmente
il suo bisogno di vedermi
in divisa e sistemato,
ma tra gli spacchi della terra

(camminavo, sguardo in alto,
e dalla pianta la mia spina
dorsale del pianeta
mi richiamava all’uomo)

la vidi – giuro, vidi
l’origine del tutto:
quel niente che noi siamo
senza la parola
a illuderci la mano.

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