Andrea Galgano, poesie della terra di Lucania

Andrea Galgano

Andrea Galgano in “41esimo Parallelo Nord” – Poesie delle Terre di Lucania – (Editrice Universo sud, 2022) mette in luce voci di poeti e scrittori nati in una faglia di terra denominata Lucania, la Basilicata. Voci nutrite dal suo particolarissimo “genio” come evidenzia Davide Rondoni nella quarta di copertina.

Vi proponiamo un estratto dal libro, nel quale troveremo, con recensioni e poesie sparse di Galgano,  immagini-opere di Irene Battaglini.

*
Sei tu
oltre i balconi incolti
e il pirastro dei grani

inviolata
come mani giunte
nella dolce tenebra di ardesia

e il tuo corpo – ombra di bocca –
dove solo il bacio apre il velo dei cieli
sul basilico degli usci
e la rubata aria delle finestre.

**

Vento chiaro (Austro)

 

La plenaria dei greti
è foschia barbara
sulle tue foci di veranda

i tuoi rosati di giugno
perdono il silenzio delle porte
come gocce stordite

scarmigliano
l’austro campanile
e sgretolano penetrali di nuvole

nella chiusa delle lune
il bianco dell’anima
è finalmente nitido.

 

Nebule diamante
(scrivendo di Beppe Salvia)

 

La schiena dei litorali
ha nebule diamante
scogli e cicale
prima delle spighe

il timo buio
vela nocciole alle frasche

dove nascono i glicini
abita il tuo fondale
di vele gemelle
e il cedro cielo degli acini

i tuoi rilievi hanno frescure
di baci australi
volgono al regno
bendato delle navi

qui una verde fenice
spoglia le pupille
e le rive falbe

la sera mulatta
tinge i gelsomini
e i vimini sui petali
delle nostre barche marezzate.

(Andrea Galgano)

Beppe Salvia: la “privazione dell’assenza”

di Andrea Galgano

Andrea Zanzotto, a proposito della poesia sofferta, e quindi teneramente viva, di Beppe Salvia, scomparso nel 1985, scrive: «La sua poesia, che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di riprendere contatto con il “cuore”del mondo».

L’elemento centrale della sua poesia è l’assenza o meglio la privazione del tempo lacerato, che recupera il contatto con il mondo e che si approfondisce fino alla percezione di una fragile inconsistenza, lontana dalle persone e dalle cose. In una tensione vagabonda e luminosa verso l’infinito e attraverso il respiro di una pienezza, egli afferma e vive la bellezza delle sue sillabe:

«Abbiamo nel cuore un solitario / amore, nostra vita infinita, / e negli occhi il cielo per nostro vario / cammino. Le spiagge i cieli, la riva / su cui sassi e rovi e il solitario / equisèto, e colli erbosi grassi / rioni, città dispiegate come / belle bandiere, e nude prigioni. / Questa è la nostra vita. Questi nostri / volti vagabondi come musi / di cani ci somigliano. Il vento / il sole le corolle rosse e blu, / i sogni mai sognati i nostri sogni / Questa è la nostra vita e nulla più».

Il cuore dell’uomo è il desiderio di felicità, compimento totale e permanente dei desideri costitutivi, delle esigenze dellapropria umanità. L’irresolutezza che dilaga nel perimetro del nostro essere fa i conti con questa promessa, perché «d’umane ammende è colma sfera ogni speranza».

L’occorrenza continua nel suo verso limpido e sospeso, come oggetto nell’anima, come sacro lavacro di un tempo che non riesce a trovare compimento, isolato nella reclusione del respiro lirico, sacrifica la propria soggettività, come «l’anima già mi sfrangia / una lesta vecchiaia / eterna gioventù / d’aver più note le cose / e me scomparso»: «Non ha più limite la mia pazienza. / Non ho pazienza più per niente, niente / più rimane della nostra fortuna».

Una poesia intensa, umbratile e vibrante che frequenta i bersagli dell’essere e l’intimità del passo svelto delle cose, nelle parole che provengono da lontano e lontano si spingono fino alla nudità del cuore, al suono del battito delle corde tese: «non v’era nulla nel mio cuore è vero, / ma quest’aspra materia s’avea le sue / parole, e io le ho dette tutte o / anche le ho taciute».

L’appartenenza alla chiarità della sua visione è la gemma di un raggiungimento, di un disarmo di nudità povera, di un racconto di esperienza che induce alla spoliazione di sé.

È quel che possiede come sgomento: «C’è chi, al contrario di me, non dispera, / che con salute e forza e virtù e buona / fortuna, si arrivi a morire dopo / tanti bei giorni, pieni di tantissime / cose di questo mondo o di un altro mondo; / e dopo tanti giorni e quella gioia soltanto / povera dei giorni […]». O in Ultimi versi, dove scrive: «di lume bianco oram’assembra lieta / e povera e lieve questa mia / terra dei morti dove all’alzata ormai / dei giorni io nascondo […]».

La distanza dalle cose, pur apparentemente incolmabile, non è gergo di un ritiro dalla vita, ma momento di un’aspettativa accorata, nella proiezione del desiderio tra sperdimenti di luci, vicine e lontane, mai spente e vivide nel loro formarsi.

Già nella sua raccolta Estate, le liriche nascono in un’accorata elegia nostalgica, un punto vero di fuga in cui trovare la vera dimensione di equilibrio tra passato e presente, esterno e interno, inerzia e divenire. Il luogo poetico, rattrappito nel suo farsi e disfarsi, inizialmente immobile tende pian piano al movimento aperto del mondo, in un unico momento di esperienza stupita che oltrepassa la frantumazione e lo spargimento, pur senza frequentare l’oltre: «M’innamoro di cose lontane e vicine, / lavoro e sono rispettato, infine / anch’io ho trovato un leggero confine, / a questo mondo che non si può fuggire. / Forse scopriranno una nuova legge universale, e altre cose e uomini impareremo ad amare» ,o ancora: «distanti i suoni e, / remota ogni vaghezza delle voci / giù nella via».

Ed ecco che l’io appare insolitamente chiuso e mai ridotto, fervido d’amore protettivo per sé e per la propria identità, in un momento centellinato e ricolmo di slancio.

Irene Battaglini scrive: «La placida e paziente ansia di Beppe Salvia è fiore che sboccia in pochi istanti e cristallizza come prisma immobile da cui luce non passa. La luce diffonde e rimbalza affondando tra le persiane come in una natura morta – ma non ancora del tutto – di Morandi. E così che Beppe Salvia si va riempiendo di una vita sorda alla gioia e muta al dolore, in una via di lutto che affonda le radici in una terra grezza e gravida di parola».

Appare l’eco leopardiana in queste stanze, dove la lontananza esprime il suo canto naturale e si riverbera nella sceltalessicale e versificatoria di una «misura lieta», accostata anche all’epigramma. Le immagini sembrano convergere nella loro atmosfera rarefatta di «cieli quieti di pensieri chiari», in quadro allitterante, nominale e immoto.

Guardava a Pascoli e alla passione per l’entomologia di Gozzano, mentre si allontanava da Penna, oppure spesso aveva referenti accostamenti a Umberto Saba, soprattutto nella tenerezza elegiaca: «viva la via deserta tutta / fiocchi bioccoli / lanugine di giugno».

La stoffa dell’esistenza è intrisa di stupore melanconico e vanità, e allo stesso tempo, percorre le strade grigie della impossibilità, della chiusura–aperta al dolore che intride lontananze e la vanità delle «cose vaste e silenziose» in un fondale di brevi luci e chimere, come commenta Mario Benedetti:

«La vanità delle «cose vaste e silenziose» sembra dunque essere il tema centrale della poesia di Salvia, un universo nelquale si può dire che un «raggio ha dimorato tra misure / rigorose e chiare di calici», ma non per noi, o, almeno, non per il poeta: «…non parenti / siamo noi di luci che riposano». È come fosse stato tolto il fondale alla scena del mondo: appare una luce radente dove convivono uomini, bestie e cose in un «vuoto di chimere», ma è una luce che l’anima non regge, in cui non può perdurare».

La parola diviene lacerata, remota, quasi sibillinamente percepita nell’estrema vaghezza: «Questi nostri volti vagabondi come musi / di cani ci somigliano».

La lontananza e la vicinanza vivificano l’esistente nel loro bisogno reciproco e vicendevole, non solo nella loro terminologia affettiva, ma anche nella loro struggente vivezza di colori e suoni, odori e profumi, che finiscono per annullarsi nella vanità annullatrice dell’esistenza: «Io dipingo / la sera quando i tormenti più / vivi / accendono il cielo e bruciano il cuore, / e all’alba quando già nulla è la vita». Improvvisamente si sente il bisogno di un passato che sia paragone con la propria vita presente, nella giovinezza, simbolo del paragone del cuore della vita, in cui la categoria del possibile e del molteplice disgelava l’innocenza ormai perduta: «Mi immaginavo mondi tutti / assai / più lievi e volatili di questo mio» e nel rigoglio ansimante della primavera si scorge il sentore dei profumi che l’aria incide.

Il tema che apre i sentieri dell’iter poetico di Salvia è la solitudine, costretta, imposta, colpita nella sua impersonalitàcontraffatta: «Imparo da solo / con stenti / l’errore d’esser solo», e spesso in quel sentiero solitario, qua e là vagabondo, si staglia la pura voce dolce e malinconica, di un aggrapparsi spalancato alla vita che non deve ridursi, che non può ridursi al cambiamento delle stagioni, come delle nostre ere, su cui poggiare il nostro tempo d’attesa, di richiamo alle cose e alla loro sopraffatta verità: «E adesso / io amo questa nostra vita / mite / e quei colori e quei versi e / tutta / infinita grandezza / E la pazienza / del nulla intorno a queste sillabe». Dall’incandescenza delle contrade lucane, bagnate di polvere, al limine delle luci di foreste di volpi e lupi, lo raggiunge la grazia passionale di Isabella Morra e l’ode incessante di Orazio, fino alle dolci vertigini di Scotellaro.

La morte non è l’ultimo vessillo della vita, la morte è solo l’annuncio di un nuovo inizio, come scrive Andrea Zanzotto, e anche in quella morte apparente del non–essere dell’uomo in questa contemporaneità, spesso drammaticamente vissuta, si presenta sempre il rapporto ininterrotto con l’esistere, come il bianco della liberazione, della proiezione femminile, dell’ottundimento, dell’accecamento.

La poesia di Salvia ci appartiene, non nella terra, ma nella sua luce sul vetro e nel suo sperpero di luce sacrificale: «spariràogni imperseguibile / mia identità clandestina: essere / individuo sarò serenamente».

Andrea Galgano(1981), poeta, scrittore e critico letterario, è nato e cresciuto a Potenza. Collabora con il periodico on-line «Città del Monte», per il quale è editorialista e curatore di poesia e letteratura, e per le pagine culturali del quotidiano “Roma-Cronache Lucane”.

È direttore umanistico e docente di letteratura e scrittura creativa presso la scuola di psicoterapia Erich Fromm di Prato-Padova e fondatore e direttore responsabile di “Frontiera_di_pagine_magazine_online, coordina il progetto di ricerca sul senso religioso in Giacomo Leopardi per International Foundation Erich Fromm e lo sviluppo di processi di formazione letteraria nelle professioni intellettuali per la scuola di psicoterapia Erich Fromm.
Ha scritti numerosi libri di poesia e prosa tradotti in diverse lingue.

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