Alessandro Santese, “Un grande, osceno silenzio”

Alessandro Santese

AI PIEDI DEL TEMPO

ALESSANDRO SANTESE

Restano in silenzio, riguardandosi l’una nel riverbero degli occhi dell’altra, le due donne arrivate sul luogo. La pietra che trovano è vuota: il vuoto le stringe. Il corpo, amato, disamato, toccato e caduto, non c’è.

Il corpo che è nulla e abitava una voce, il corpo che è molle e robusto, non c’è.

Giunte sul luogo fresco del ricordo, per piangere ed ossequiare il momento del pianto, così il ricordo già evapora, prima che mano amica o nemica lo contamini, allora come sempre, disseppellendo se stesso nell’aria come la morte venuta fuori un giorno dal suo giardino, rigoglioso di margherite ed asfodeli: invisibile, inizierà a camminare allora tra le strade dei superstiti, scalza, forse, forse compunta, i quali parleranno bisbigliando di lei e del ricordo di lei mentre lei non è che già lì. Da sempre. Da prima di sempre. Dentro una luce accecante. Ne faranno, dell’episodio manchevole, coloro che restano, un monumento ben fatto. Nei secoli; lo chiederanno anche ai secoli.

Può accadere che accorrendo sul luogo del tragico per testimoniarne l’essenza, come gettandogli trenodicamente le braccia verso, si perda, forse, proprio il dono essenziale del tragico. Un grande, osceno silenzio è lì. Il quale non scema, ma cresce.

Eppure tutto, in quella quiete, palpita e vibra, a ben vedere, ancora più a fondo, come il vuoto dentro il quale brulica e vibra vita e natura salendo. Nulla, se così fosse, vi sarebbe da colmare con l’affanno improvviso del respiro, perché anche il nulla lì sarebbe l’eco di un respiro, forse, di troppo. E mentre un primo immediato movimento testimoniale, presentendola, vorrà oscuramente appropriarsi di quella ulteriore nascosta vita, avvicinandosi troppo con il fiato al suo collo – per soffocarne così la voce più profonda, sigillata sotto metri e metri di terra chiusa in bocca all’evento – ai secondi che arriveranno, invece, ritardatari perenni in ritardo sulla storia e sulla necessità di poter dire eccomi, a loro che riconosceranno vuoto e intoccabile davvero il dolore del luogo sacro, che a loro mai non appartiene, viceversa, sarà forse dato di restituire il vuoto del luogo e dell’evento, senza volerlo, a se stesso. Alla pace di se stesso. Al suo fuoco invisibile. Così intrecciandolo, davvero, ai fili del suo ordito incessante.

Sebbene tutto, è probabile, non comincia e finisce che lì; nelle pupille di uno sguardo soltanto iniziale, sprovvisto, sgomento e secco, simile a quello delle donne del racconto. Di qua della cronaca e della storia. Di qua dei giornali e della letteratura. Sul margine di quella voragine immedicabile spalancata nel petto della letteratura che è e può essere – in una delle sue tante forme – soltanto, forse, la poesia.

Assecondare la sua natura intima di selvatichezza, allora, tenersi accanto al passo matusalemme e poco prevedibile dell’animale della poesia, in tempi come i nostri – dunque in tutti i tempi – può prima di tutto coincidere con la possibilità di essere in grado non, di resistere al crollo, il quale già è e accade, ma al rigurgito opportunistico o patinato di lacrime incapsulato nella sostanza del racconto del tragico, di cui può farsi, viceversa, depositaria più lunga della brace nascosta, del futuro baluginante mescolato nelle pieghe ammutolite dell’evento; di ogni evento, non solo questo che oggi trasversalmente ci invade o travolge.

Secondo questa via, anche lasciare che il silenzio innaturale degli avvenimenti si depositi null’altro che dentro o sulle strade, prima ancora che sulla pagina sporcata di inchiostro, è probabile possa coincidere, secondo il medesimo movimento, con la possibilità di non perdere l’appuntamento con la natura complessa e molteplice dell’evento stesso, cioè a dire proprio, e subito, incontrandola subito, con la sua natura di ombra intoccabile e vicina, inappropriabile, inscrivibile, con la sua cella vera di incomunicabilità dura, secretata sotto le macerie di un silenzio che non ammette repliche; doppiaggi; narrazioni seconde; sotto le barche in cui non si annega; dentro i letti in cui non si muore.
Gettarcisi viceversa nei pressi, accanto i margini immediati, al contrario, per tirarne impazientemente i lembi verso il campo raccontabile dell’umano, potrebbe voler dire, in molti casi, che la donna che aspettavamo da una vita e che credevamo furbamente di intrattenere sia seduta già sul sedile di un altro treno, e ad ascoltarci sia il buio o una sedia.

Una distanza, si sa, interdetta alla consolazione, come tra chi resta e chi va, si impone: gelata e sorella, agglutinata di voci. Dura, non umana, non scalfibile, sebbene scoppiata e dolce già in ciascuno.
Per questo, come fosse il deposito salino più naturale di ogni evento limite o soggiogante, più ancora se drammatico – quale che sia – è probabile possa risiedere nella intuizione della poesia il fondo di una controforza disumana altrettanto, legata alla prima per destino e potenza, capace di accogliere – mentre tutto sembrerebbe congiurare contro – dentro sé, lo spazio impossibile di quella inaggirabile, vociferante distanza, per accrescerla e salvarla a sua volta dentro ciascuno, allargandone con pazienza chirurgica come gli estremi invisibili, sapienziali, di sutura in sutura, di giorno in giorno, da parte a parte, di verso in verso, pure abituando il corpo e le cartilagini e ogni nervo a fare resistenza, nello stesso tempo, poco a poco, al muro del canto camuffato tragicamente delle sirene dell’occasione – travestite per la occasione di versi anch’esse, magari. Abitando già la tragicità del reale, infatti, nella frattura non ricucibile tra i tempi, il doppio, osceno scritturale ritardo di segnale si farebbe in molti casi assordante nei timpani, come un’interferenza radio metallica e sporca, dura, insistita. E per un poeta, è possibile, il quale vive di puntualità e orecchio soltanto per il momento nudo, meglio ancora se extrastorico e irripetibile, sarebbe imperdonabile; oltreché fatale. Ma per lui, in questo caso; soltanto per lui.

Entrare in un più profondo andirivieni, umbratile o giocondo, battuto dal caldo o dalla pioggia, suscettibile di contraddizione e improvvisi capovolgimenti, può equivalere forse a vedere gli accadimenti con gli stessi occhi delle due donne tornate al luogo della pietra. Quando ogni antica e irrigidita strada percorsa, bloccata d’improvviso, può infrangersi per ricominciare, come una clessidra ruotata, a scorrere dentro il suo rovescio, ai piedi di nuovo del tempo. Tradire allora anche solo la catena dei momenti trascorsi fino a lì, giunti a quel punto, in alcuni casi, assecondandone la intrinseca e luminosa legge poetica, può forse esser giusto più ancora che preservarne la apparenza mendace, tanto quanto è necessario tradire il vento di ciò che tragicamente sempre accade, perché ciò che accade è soltanto più vasto.
Voltare e voltare ancora le spalle alla posa del tragico; per non tradire il tragico.

Voltarle a Euridice; sì; per una volta.
Per una volta andare dritto.
Scoperchiato il sepolcro del mondo, tutto vibra, ruotando, un giorno, e ricade.

Ho ritrovato una lontana poesia scritta tempo fa, prima di questo lungo periodo. Ho pensato potesse intrecciarsi, per una sua strana via, a parte di questo.

 

Entrano nei centomila buchi che si spalancano
come porte di fronte ai loro occhi; dicono,
è tutto così stupendo. Venite a guardare la macchia del blu
sulla schiena pelosa della nottola,
il volto accecato e spalancato nel nulla del ridere,
la farfalla inghiottita dalla luce che vibra su un ramo e non più
lo riconosce, i fili arrotolati
ardimentosi della nuvola,
le venature viventi della foglia
avvitata
come un chiodo nella sferza del vento
dove il cavallo corre
di deserto in deserto, di cento anni in cento anni,
portando il fuoco con sé,

il poeta chino che custodisce o ruba quel fuoco,
la carta sottile e ingiallita
venite a vedere,
la forza del fenicottero che tiene aperte due ali
soltanto distendendo l’arco dell’anima,
lo zoccolo del daino che scivola sopra il pietrame
brillando
alla lama del vuoto,
e poi la mappa il girotondo degli astri, venite a vedere,
seguendo con il dito
tra rigo e rigo il corso del sole eloquente che muore ogni sera in un punto,
e in un punto invisibile
e arrovesciato che non è dato vedere
rinasce
perché noi sappiamo
profondo il libro ripiegato
con i fili d’oro del mondo,
venite a sentirne l’arpa di ciò che è intorno e si muove
nella gola delle gru cinerine che gridano e cantano
perché le sfiori sul dorso ogni sera
l’occhiata della luce della sera che muore
ancora e languisce,
e per voi, che venite, soltanto per voi,

venite a sentire il tamburo del panico irreversibile dentro la buca tenebrosa del petto,
a provare la paura
venite, il terrore e il sospetto,
venite a toccare
il pelo del manto e più in fondo
dentro
il molle pastoso intestino
per sentire appena dopo il suono che fa il guscio scarnificato della
tartaruga o dell’uomo pulito delle interiora
diventare pietra
buona da battere e battere
sopra il duro che fa suoni delle cose,
la sua danza scalza, il suo spirito nudo e mortale,
la composizione dell’arpa fatta con i fili
di cuoio interiori e con
la fibra della corda della ugola della donna
che si sfilaccia poco a poco, in un solo minuto,
mentre il buio entra nelle cose e nella donna che si ferma sul palco e
si accascia,

venite a toccare, infine, il seno timido
e la costola, i piedi sporchi e
il soffio alle narici della cannella,
venite a provare la corsa del bue
dentro il vuoto dirupo di un sogno
che una mano sicura ferma nell’ombra, all’alba,
tenendo cinque dita premute sulla pietra di una grotta,

venite
a vedere la madre che prende in braccio l’agnello
e ne incide con il coltello la gola, il lievito
farsi un profumo, la sedia di legno che dondola
senza nessuno nel vento,
il padre
che urla nell’ombra
colpendo con tutta la gioia nel ventre la giovane madre.

Dissero gridando
con l’imbuto delle mani vicino all’orecchio, senza tremare:
scenderanno un giorno uomini da cavallo
e ogni cosa come loro
nella luce e nella polvere.
E ancora:

verrete, è certo, a perdervi e a vedere
affinché
qualcuno possa ancora
chiedervi e dimenticare
cosa
è stato questo
prolungato tremare di tutto al bordo delle cose e del buio

un passo prima della luce e del buio.

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2 pensieri su “Alessandro Santese, “Un grande, osceno silenzio”

  1. Più che mai “osceno”, fuori scena, il luogo del sacro, dell’impuro, appare oggi proprio perché ubiquo. Così in una evocazione obliqua dell’invisibile (Aides), fra prosa e poesia, Alessandro Santese ci comunica l’atmosfera intima (Stimmung) dell’emergenza.

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