Biancamaria Frabotta

 

Foto di Pasquale Comegna

Foto di Pasquale Comegna

AUTORITRATTO
Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Autoritratto al buio

di Biancamaria Frabotta

L’11 giugno del 2004 è nato mio nipote Luca, cui auguro di non assomigliarmi troppo, dato che lo stesso giorno del 1946 sono nata anch’io. Non so se possa vantare coincidenze più illustri di questa. Il mio compleanno ora è il suo, in cui mi annido, come una quieta seguace della sua infanzia non finita. Alla “vera vecchiaia”, diceva Caproni, ci si arriva solo dopo la “vecchiaia” pura e semplice. Nella prima forse me ne starò rintanata, attonita, magari mi capiterà di scrivere poesie atonali, senza troppe storie e rigurgiti dell’amore e dell’ira che non distinguono vita da poesia, ritmi da carattere, sonni da risvegli. L’altra vecchiaia, quella appena sopraggiunta, riconoscibile nei capelli come sono, nella pelle com’è, nelle ossa ringiovanite dalle protesi, la nostalgia è di casa. E’ arrivata e se ne andrà prima che io possa abituarmici .Questi sono i temi che oggi m’inclinano la penna (dato che le poesie le faccio ancora a mano, come il pane) verso un altro modo di dire gli affetti, la gentilezza, una brusca leggerezza. Debbo ringraziare il “mio” mese di estate incipiente – quest’anno lo attraverserò per la settantesima volta – per i suoi brividi, il sonno profondo da cui mi sveglio, scarmigliata e rintronata profetessa. Come rimpiango i primi caldi, i cieli, gli orizzonti liberi dalle foschìe della grande estate! A Civitavecchia, dove è nata mia madre, vivevo quattro mesi di libertà, da giugno a settembre, nella casa dove i nonni materni erano stati ricacciati dopo i bombardamenti anglo americani. Il carattere etrusco, scorbutico e indolente dei civitavecchiesi, da bambina lo temevo, da adolescente mi rincresceva, da grande lo imitai senza accorgermene. Un giorno Moravia mi chiese se non volessi piuttosto essere chiamata «civitavecchina ». Ma sì, perché no, precoce vecchina cresciuta in un territorio decentrato. Invece, irrimediabilmente, nacqui a Roma. Allora non m’importava nulla dei luoghi di nascita. Mia madre era bellissima, le mie sorelle anche. Quattro donne, ritratte in foto di piccolo formato, in bianco e nero, coi bordi seghettati furono il prezioso fermento per la voglia di scrivere in versi: un solletico che non passa mai, nemmeno grattandolo. Anzi, peggiora. Civitavecchia, col suo mare pieno di polpi, di cozze e a maggiore profondità di murene e di scorfani, dove mio padre da impiegato si improvvisò pescatore sub, tutto ciò, nella memoria si addensa e si travisa, anno dopo anno, alla frontiera fra gloria e sgarbo. « Fra poco/ci staranno addosso in tanti i polipi/ della città fantasma/ con tentacoli e raggiri e tu, ora lesta/ a provocarli, col guizzo circasso/ dell’occhio, a patirli, sordida/ giòvale, giovane Civitavecchia/ sgarbata bilancia fra apocalisse e paese/ smaniosa pazienza è la felicità che/ incendia in lei troppe parole o nessuna». Sono dentro La viandanza , scritta di getto e ha poi dato il titolo a una raccolta del 1995.L’epigrafe l’avevo calata giù da Melville: È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Sfoglio la copia che regalai a Brunello, molto amato ma non ancora marito. E trovo la dedica. “A Brunello e a Benedetto a me entrambi carissimi perché «basta solo affacciarsi sulla sponda/ per vedere il fondale risplenderti dentro»” . I versi citati ricordano l’angoscia di una malattia che afflisse il mio uomo dal doppio nome nel New Hampshire. E io non ero lì. Apparvero per la prima volta in Appunti di volo e altre poesie del 1985. Nella seconda pagina un disegno di Toti Scialoja mi ritraeva di profilo, con puntuti riccioli ricadenti sulla fronte, con un’immagine da lui anticipata in una quartina del 1982: «Per una lucciola/ che te l’ha illumina/ se ti alzi i riccioli/ ti vedo l’anima». Già, quand’è che mi accorsi di avere un’anima?

Sin dalla prima infanzia impariamo, senza discutere, a dare un sesso a tutto: persone, animali, cose e concetti. Il Sole, la Luna, il Soggetto, l’Anima hanno messo in noi radici profonde. Quasi serbassimo la remota memoria di quello che imparammo immersi nel liquido amniotico dove galleggiavamo come pesci fra fonde risorgive di balbettii dimenticati. Le parole cominciarono a fluire alle labbra più rapide dei concetti che si formavano nella mente e talvolta per qualche misteriosa ragione femminile fanno ressa nella gola occludendola con un ostinato silenzio. Divenni femmina, nel linguaggio, prima che nel corpo. Affeminata, appunto, sfrontata distorsione di senso, provocazione, proterva venuta alla luce. Mia prima plaquette che mi facesti tremare i polsi… Parlare a vanvera mi sembra oggi meno pericoloso che pensare a vanvera. La parola “viandanza”, per esempio, apolide e intrusa in quanto alla grammatica, navicella di lungo corso nel gran mare dei simboli classici ( homo viator, wanderer, nostos o naufragio, identità o perdita) danzando per la via, mi dette un’anima. Al corpo ci pensò natura, il tempo gli mise l’orologio al polso. Con chi prendersela ora se il cuore perde qualche colpo, l’anomìa apre lacune nel cervello? La poesia, come una madre pietosa, raccoglierà le spoglie delle sue creature. Cosa volete che vi dica più di questo nell’epoca del balenante selfie? Qualcosa che illumini il buio e duri più dell’attimo dello struscio del dito sullo schermo?

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