Franco Buffoni

 

 

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FRANCO BUFFONI FOTOGRAFATO DA DINO IGNANI

AUTORITRATTO
Da un’idea di Luigia Sorrentino
A cura di Fabrizio Fantoni
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Poesia come vita

Non soltanto in Jucci (Mondadori 2014), ma in tutta la mia scrittura poetica i luoghi hanno avuto una funzione essenziale. Ricordo quell’immagine da Il profilo del Rosa (Mondadori, 2000) dove – bambino – sogno di allungare il mio corpo dal Monte Rosa al Po in una sorta di onnipotenza gulliveriana. Ho sempre fatto leva, tuttavia, anche sul potenziale simbolico- evocativo delle parole che uso. Se il “Rosa” – per chi come me è nato e cresciuto sulle colline moreniche che ne costituiscono le prime pendici – non può che essere il monte il cui profilo si staglia all’orizzonte con le sue caratteristiche cime (Gnifetti, Zumstein, Nordend, Dufour), crescendo – e nel libro è di questo che sostanzialmente parlo – il rosa diventa anche il colore dell’esclusione, della persecuzione, dell’omofobia. E proprio al triangolo rosa che veniva apposto nei Lager nazisti sulle casacche dei detenuti omosessuali, faccio riferimento nella poesia “Tecniche di indagine criminale”, dove racconto di Oetzi, l’uomo del Similaun, che dopo 5000 anni viene scoperto omosessuale: “Dicono che forse eri bandito, e a Monaco si lavora sui parassiti che ti portavi addosso. E che nel retto ritenevi sperma: sei a Münster e nei laboratori IBM di Magonza per le analisi di chimica organica. Ti rivedo col triangolo rosa dietro il filo spinato”.
Ugualmente in Guerra (Mondadori, 2005) i luoghi sono fondamentali, a mano a mano che procedo alla mappatura sincronica e diacronica assieme, della guerre combattute dal padre (“Sono ostriche, comandante? Chiese guardando il cesto il giovane tenente, ‘Venti chili di occhi di serbi, omaggio dei miei uomini’, rispose sorridendo il colonnello: li teneva in ufficio accanto al tavolo, strappati dai croati ai prigionieri”) e dal nonno (“Nel più alto campo di battaglia della Prima guerra mondiale, ai tremilaseicento dell’Ortles-Cevedale, dove fu morte sotto le valanghe e dentro i tunnel scavati nel ghiaccio…”), fino alla mia privata guerra con entrambi per l’affermazione della mia identità: “Uccidendo il padre e dunque tagliando la catena di trasmissione delle conoscenze sbagliate”.
In Noi e loro (Donzelli, 2008) – basato sulle due esclusioni messe in atto dalla cultura della disappartenenza contro immigrati e omosessuali – i luoghi hanno nuovamente una funzione essenziale, anzitutto per l’ambientazione del libro. La prima parte è interamente vissuta nel Maghreb: “Come una crescita di piante notturne, solo vaghi lampioni rischiarano – nell’ultimo tratto di discesa a Gammarth – la schiera di muscoli al muretto che scatta in improvvisa attesa”. Mentre nella seconda parte si torna in Europa: “Una lunga sfilata di monti mi separa dai diritti, pensavo l’altro giorno osservando il lago Maggiore e le Alpi nel volo tra Roma e Parigi (dove dal 1966 un single può adottare un minore). Da Barcellona a Dublino oggi in Europa, ovunque mi sento rispettato, tranne che tra Roma e Milano, dove abito e sono nato”.
Poi nel 2009 da Guanda è uscito Roma. Lombardo quale sono, dopo dieci anni di permanenza nella capitale, sentii la necessità di mettere ordine in un materiale poetico che ormai andava ispessendosi. Come il lavoro procedeva, mi resi conto che fuorusciva il ritratto di una città mitica e attualissima, dove alcuni personaggi approdati nella Roma di ieri – da Pasolini a Sandro Penna – interagivano anche con le contraddizioni della contemporaneità. Strutturai pertanto il libro in sezioni, contraddistinte dai diversi luoghi della capitale: il Pantheon, per esempio, che tradizionalmente viene visto dall’alto come l’occhio del tifone, ideale fulcro di un movimento caotico, diviene una stazione della metro cosmica: next stop il Mausoleo di Augusto. Con le sezioni centrali dove lo sguardo si stratifica e si archeologizza, per cogliere l’attualità in Galileo e in un Pinturicchio gay, e – vòlto alla campagna romana – in Leopardi suddito pontificio e in Keats, che ha già composto l’Ode a un usignolo e – attraversando la palude pontina nel viaggio verso Roma (con le ginestre che “cingon la cittade”) – trasecola alla vista di un cardinale che spara agli uccelli, lasciandone traccia nell’epistolario.
Roland Barthes sosteneva che fu un musicista – Robert Schumann – ad avere, meglio di chiunque altro, praticato e capito l’estetica del frammento: definiva il frammento “intermezzo”. E moltiplicò a tal punto nelle sue opere gli intermezzi che, alla fine, tutto ciò che scriveva era “intercalato”. Ma tra che cosa e che cosa?, si domandava Barthes. Che cosa vuol dire una pura successione di intermezzi? Allo stesso modo potrei dire del mio rapporto con la scrittura in versi. Consiste di frammenti poetici che io continuo a produrre. Come un flusso di lava più o meno forte, ma abbastanza costante. Poi i frammenti si compongono divenendo le tessere di un mosaico, e io stesso stento a capacitarmi della precisione con cui esse finiscono col combaciare. Col tempo mi sono convinto che il collante misterioso – la forza unificante – che mi permette di inanellare gli intermezzi e quindi di scrivere dei libri in poesia è la mia “poetica”. Come diceva Pasolini del film montato e finito: solo allora quella storia diventa morale. Solo quando i frammenti naturalmente si compongono mi rendo conto dell’estrema pertinenza per me della definizione anceschiana di poetica (“la riflessione che gli artisti e i poeti compiono sul loro fare, indicandone i sistemi tecnici, le norme operative, le moralità e gli ideali”) e dell’importanza del concetto anceschiano di “progetto”. Il punto fondamentale è per me di stabilire quando il progetto diventa opera, così da indurmi a unificare con sicurezza gli intermezzi. Di libro in libro constato un progressivo avvicinamento nel tempo di tale momento. Credo di avere raggiunto un certo equilibrio con Il profilo del Rosa. Dagli intermezzi si schiuse il progetto e si chiamò Nella casa riaperta. Era il 1993. L’anno successivo uscì una plaquette con questo titolo, che costituì una sorta di prova d’orchestra del progetto. Il libro le si costruì attorno – testo dopo testo, frammento dopo frammento – nei sei anni successivi.
Mi capita di scrivere due (o persino più) libri contemporaneamente. Di seguire cioè due o più “progetti” in differenti fasi di elaborazione. Mentre Il profilo del Rosa era già delineato, nel 1995 mi accadde di rinvenire casualmente una cassetta di metallo coi documenti di guerra di mio padre. Passai l’estate del 1996 a tradurre quelle paginette leggerissime scritte in stenografia senza sapere che cosa ne avrei tratto; sapevo solo che ne ero attratto, che avevo voglia di leggere quelle sue pagine. Oggi posso dire che, negli stessi anni in cui Il profilo del Rosa diventava libro (e dunque diventava “morale”), andava formandosi il progetto di Guerra. Il punto concettuale credo sia di stabilire qual è il mio grado di consapevolezza del “tutto” mentre scrivo gli intermezzi. La risposta che riesco a darmi è che tale grado è andato crescendo con il passare dei decenni. Negli anni ottanta, al tempo di Quaranta a quindici o ancor più de I tre desideri, era piuttosto esiguo. Per non dire della prima raccolta del 1979 Nell’acqua degli occhi. Non che disconosca le poesie (gli intermezzi) che compongono quelle raccolte. Al contrario: mi sento ancora ben rappresentato da quei versi, tanto che sovente mi capita di estrapolarne alcuni (cfr. “Voi che domani sarete medici e avvocati / staccherete denti d’oro / dritti con gli scalpelli / proprio nel punto là dove si dividono le ferrovie / nella casuale bestialità delle montagne”: si leggono in Guerra, ma sono già presenti nei Tre desideri) o di immettere interi testi nella nuova raccolta (“Come un polittico” è nei Tre desideri e apre in corsivo Il profilo del Rosa). Ma con difficoltà riesco a pensare a quelle mie prime raccolte come a dei libri compiuti.
In che cosa si differenzia il processo che sto tentando di descrivere dal canonico rapporto tra testo e macrotesto? Dalla sequenza, dalla disposizione, dai criteri di ordinamento seguiti dal poeta nell’inanellare i singoli testi – si dice – è possibile per lo studioso comprendere molto del suo “messaggio” (personalmente preferisco parlare di “progetto”): occorre dipanare la matassa macrotestuale per capire veramente Ossi di seppia e Diario di Algeria. Il processo che cerco di descrivere si differenzia semplicemente perché comincia prima. In sostanza il passaggio significativo testo-macrotesto rimane, ma ve n’è uno precedente – intermezzo/i-testo (o frammenti-testo) – che mi appare ugualmente o persino più significativo.
Mai come in questo periodo (gennaio-febbraio 2016) ho percepito sulla mia pelle il senso profondo di tale processo. Dopo le due uscite del 2015 – costituite da O Germania presso Interlinea e Avrei fatto la fine di Turing presso Donzelli (due libri in cui giunge al culmine anche la mia necessità di condurre in porto operazioni intratestuali) – sento ora la necessità di ripartire dalla pagina bianca. Le nuove poesie che vado componendo rispondono a due diverse intonazioni, che evidentemente sono così radicate nella mia psiche da coesistere nella fase di gestazione (come due gemelli nel grembo materno) per differenziarsi però subito alla nascita, come poesie di intonazione “lombarda” e poesie di intonazione “romana”:
http://www.francobuffoni.com/files/pdf/nuove_poesie.pdf
Dove mi porterà questo nuovo flusso al momento non so ancora dire: forse a qualcosa di completamente diverso rispetto ad oggi.
Un progetto in verità ce l’ho in mente, ma è molto ambizioso, forse troppo, e per scaramanzia penso non sia opportuno parlarne già ora. Di una cosa però sono certo, avviandomi verso il compimento del quinto decennio di vita adulta: la poesia ricopre – e sempre più ricoprirà in futuro – un ruolo essenziale non solo nella mia esistenza psichica, ma anche fisica. Chiusi i decenni della fisicità esposta, delle soddisfazioni della carne, che in qualche modo distraggono e distolgono (se uno vive davvero una storia d’amore difficilmente ha tempo e voglia di raccontarla: la creazione è già nella vita), la poesia è ormai la mia vita e la mia vita è la poesia.

In questa Roma dalle porte sante disertate, la mattina del 31 dicembre 2015 a Villa Borghese ho visto correre migliaia di maratoneti lungo il viale delle Magnolie. E mi sono interrogato – come l’Innominato al termine della notte insonne – su quale fosse la forza che spingeva tanti uomini e donne, giovani e meno giovani, a convenire alla stessa ora nello stesso posto (a scendere dalle contrade verso la parrocchiale a valle) e persino a sembrare tutti uguali con la pettorina arancione. Io – che pure amo da sempre correre e passeggiare (da solo o in scarsa compagnia) – non ho saputo e non so darmi risposta. La fede qui non c’entra. O forse sì: quella di Narciso riflesso nel laghetto e moltiplicato per mille narcisismi, non del volto ma del giro-vita-petto.

MARATONINA DELL’ULTIMO DELL’ANNO 2015

In questa Roma dalle porte
Sante disertate, la mattina del 31
A Villa Borghese erano in migliaia
A correre appaiati
In pettorina arancione.
E come l’Innominato all’alba
Mi sono interrogato
Su quale forza spingesse così tanti
A convenire nello stesso luogo,
Non richiamati da alcuno scampanìo
Forse da un twit.
Non ho saputo e non so darmi risposta
Perché la fede qui non c’entra.
O forse sì: quella di Narciso
Riflesso nel laghetto
Moltiplicato per mille narcisismi
Non del volto, ma del giro-vita-petto.

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