Carlo Bordini

BORDINIDa un’idea di Luigia Sorrentino

A cura di Fabrizio Fantoni

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Sono nato nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale e della catastrofe dell’Italia. Mio padre era un generale dell’aeronautica con simpatie e nostalgie fasciste. Mi ha terrorizzato e l’ho sempre odiato in silenzio. Per questa ragione ho sempre inconsciamente identificato con mio padre tutto ciò che sapesse anche lontanamente di autorità, e quindi anche tutte le istituzioni. Quando sono stato costretto ad adattarmi ad esse, l’ho fatto con una freddezza piena di disprezzo.

Sono sempre stato un ribelle e anche un timido nello stesso tempo. Dico questo per spiegare perché per me la parola “letteratura” è sempre stata sinonimo di qualcosa di odioso e di disprezzabile. Perché in essa ho sempre sentito la presenza dell’istituzione.
Sempre per questo problema di odio e di timore nei confronti del padre mi sono identificato per lungo tempo con un gruppo trotskista ultraminoritario e anche per questa ragione ho avuto, all’interno della vita letteraria, una tendenza all’isolamento e una preferenza spiccata per situazioni piuttosto marginali.

Ho cominciato a scrivere molto giovane, ma non volevo pubblicare. Così come non volevo lavorare e in genere avevo difficoltà nelle situazioni personali. Per me scrivere era l’unico modo per avere un po’ di vita, l’unico modo per respirare.

Ho smesso di scrivere tra i 24 e i 32 anni, quando mi sono identificato con un progetto politico, e quando l’ho lasciato mi sono rimesso a scrivere. Quando ho deciso di pubblicare, nel 1975, non conoscendo nessuno, l’ho fatto con un ciclostilato. La mia scrittura ha suscitato l’interesse di due dei più importanti letterati del tempo (leggi: Fortini e Siciliano). Con la mia incapacità di capire la vita e con la mia negatività assoluta nei confronti delle pubbliche relazioni me li sono giocati in poco tempo. E’ iniziato così un lungo periodo di apnea e di marginalità. Questa solitudine mi era però necessaria, perché diventare un loro protetto e quindi in qualche modo anche un loro allievo, con l’insicurezza che mi ha sempre caratterizzato, questo l’ho capito dopo, mi avrebbe rovinato, mi avrebbe sostanzialmente condizionato, e mi avrebbe impedito di trovare quella parte di me che sono riuscito a trovare.

Un padre ti condiziona sempre. Soprattutto me, che non sono mai sicuro. Altri magari potrebbero sopportare il peso di un padre. Io no.

Per questo, in definitiva, ho sempre rifiutato di avere un maestro. I movimenti e cenacoli letterari mi hanno interessato poco, e sempre per poco tempo. Non ho mai voluto imitare nessuno.

Credo che la mia sia una scrittura schizofrenica, e credo che ogni forma d’arte, quando funziona, riesca a raggiungere quella che io voglio chiamare qui “iperverità”. Schizofrenica nel senso che cerca di mettere insieme vari registri, di seguire il ritmo del pensiero, che vaga con libertà e con completa illogicità. Alcuni mi definiscono un poeta narrativo, altri un poeta sperimentale. A me vanno bene tutte e due le definizioni, ma non completamente.

Non ho mai creduto alla “riduzione dell’io” e per questo non ho mai amato il gruppo ’63. Quando ho letto I novissimi – poesie per gli anni 60, ho pensato: secondo questi io dovrei smettere di scrivere. Naturalmente ho continuato.

Credo di essere un romantico, e per questo voglio riportare qui una cosa che ho scritto e che non ho mai avuto l’occasione di pubblicare.

“La musica è molto importante nella mia poesia e io sono indubbiamente molto attratto dalla musica romantica. In questo senso io sono realmente, come diversi hanno detto, un poeta narrativo, perché il romanticismo ha sempre qualcosa di narrativo. Cerco sempre di raggiungere effetti forti, intensi, e, vedendomi dal di fuori, qualcosa che dimostra la mia attrazione per la musica romantica è anche il fatto che io punto sempre ad avere finali forti. Tutte le mie composizioni, brevi o lunghe, puntano sempre ad esplodere nel finale. Come la musica romantica. Anche nella narrativa. Nella narativa, ad esempio, mi piacciono quei libri che non sarebbero completi, che non avrebbero senso, senza le ultime cinque parole. Il mio racconto-diario Susanna, ad esempio, è così. Ma anche Gustavo e Memorie di un rivoluzionario timido, ancora inedito, hanno finali forti. Magari il finale forte è cinque pagine prima della fine, ma c’è.

In poesia tutte le mie composizioni lunghe, Pericolo, Polvere, Poema inutile, Strategia, hanno finali forti. Devo dire in questo senso che in me c’è una lotta costante: cerco di essere più intenso possibile e nello stesso tempo cerco di fare in modo che questa intensità non divenga retorica. Sono molto attratto dall’opera lirica ma, nello stesso tempo, sento la retorica che si annida [sempre] in essa. Lotto contro questa retorica che è anche in me. Amo molto Verdi, ma preferisco Donizetti. Mi piace molto anche l’opera non romantica, come Rossini, Mozart. E a questo punto vorrei parlare dell’aspetto sperimentale della mia poesia che si intreccia con quello narrativo e sentimentale. C’è in me un’ironia, una tendenza alla comicità e al paradosso che si intreccia con l’aspetto romantico e passionale. Sono molto attratto dai surrealisti. Amo moltissimo Magritte. Il linguaggio basso mi serve ad evitare le sviolinate romantiche. Ed anche l’uso dei detriti del linguaggio. In questo senso devo dire che non amo quel petrarchismo strisciante che ha abitato la poesia italiana fino a pochissimi anni fa, il suo carattere aulico. Ma c’è un altro elemento che mi abita, e che insieme all’influsso surrealista (uso il detournement e il collage) è la base del lato sperimentale della mia scrittura: il clima, e non solo la musica, degli anni 70. E anche il jazz. Non a caso Paolo Febbraro ha parlato, a proposito dela mia scrittura, di “razionalismo onirico” e Filippo La Porta di “dormiveglia vigile”: il bisogno di seguire i meandri del pensiero che porta all’irregolarità. L’irregolarità era di casa negli anni 70 e anche prima, nel vestire, nell’agire, nel parlare, nel fare musica; l’irregolarità e lo sperimentalismo della mia scrittura non vengono da correnti letterarie, ma piuttosto dalla musica. Mia moglie Myra dice che io non amo il rock, in realtà io amo il rock complesso, i Pink Floyd, Frank Zappa, e anche certe reiterazioni ossessive tipo James Gang. Questo mio passare mentale da un argomento all’altro, da un tono all’altro, che è tipico di questa musica, questo continuo svariare della mia scrittura, questo lasciarsi trasportare dai meandri del pensiero ma poi tornare sempre al centro, riprendere il filo, è quel misto di narratività romantica e di sperimentalismo della cultura dello sballo (termine di quell’epoca) che è l’aspetto musicale della mia scrittura.

Devo aggiungere che adoro la reiterazione, strumento che è proprio della musica di tutti i tipi, e che cerco di usare ogni volte che posso”.

Aggiungo che le esperienze dei viaggi che ho fatto mi hanno portato ad amare molto la poesia spagnola e ispanoamericana e quella portoghese e brasiliana. Credo che in questo periodo questa poesia abbia una forza molto maggiore della nostra. Questo dipende indubbiamente, a mio parere, dalla maggiore vitalità di queste società, società dinamiche, anche se piene di problemi, rispetto alla nostra società semi-morta e ormai richiusa su se stessa. Ma azzardo anche un’ipotesi: la tradizione a cui attinge questa poesia è la grande tradizione ispanica barocca.

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Quando parlo di iperverità intendo dire che l’arte, ogni forma d’arte, giunge, quando funziona, a una verità più profonda di quella che una persona conosce o crede di conoscere nella sua vita di tutti i giorni, sia a livello razionale che a livello emotivo. Per questo, ad esempio, anche se taluni mettono molto in rilievo gli aspetti sociali della mia poesia, io nutro una certe diffidenza nei confronti della poesia impegnata. La poesia impegnata politicamente rischia di essere un elenco di luoghi comuni. Non necessariamente, ma questo rischio c’è. La poesia socialmente impegnata ha sempre bisogno di un pizzico di eresia. Ci sono luoghi comuni di cui è inutile fare un elenco. Non si aggiunge nulla a quello che si sa o a quello che si crede di sapere, o a quello che si sente o che si crede di sentire.

Recentemente sono rimasto assai impressionato da un articolo della rivista Science che parla della struttura del DNA. Il genoma umano, non ripiegato, sarebbe lungo due metri, eppure riesce a entrare nel nucleo di una cellula che ha un diametro di un centesimo di millimetro senza creare nodi e grovigli. Gli scienziati hanno scoperto come questo fenomeno apparentemente impossibile accade: il genoma si ripiega fino a formare un frattale, ossia un oggetto geometrico la cui struttura ripete la stessa forma su scale diverse. A me sembra in definitiva che la poesia abbia qualcosa in comune con la struttura del frattale, perché ripete ed esprime simbolicamente a livello di microcosmo ciò che esiste a livello di macrocosmo. La Commedia dantesca può essere considerata un frattale, perché ripete sia a livello di impianto generale sia nella sua struttura il numero tre. E credo che questo si ripeta ed esploda nell’arte del Rinascimento. Devo aggiungere che questo non si può ridurre a uno schema, a una formula matematica. Dante è capace di esprimere nel microcosmo l’urlo e l’orrore della vita che si esprime nel macrocosmo reale. Infine solo un poeta, Leopardi, è stato capace di prendere l’infinito e di metterlo in un sonetto.

Carlo Bordini

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