La foto di Alberto Toni è di Dino Ignani
AUTORITRATTO
da un’idea di Luigia Sorrentino
a cura di Fabrizio Fantoni
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Sono nato a Roma in via Ciro Menotti, 26, tra il lungotevere delle Armi e piazza Mazzini. I ricordi che ho di quel luogo sono legati alle zie, le sorelle di mio nonno, Ada e Anna, che lì hanno abitato fino alla fine. Noi intanto, i miei genitori ed io, ci eravamo trasferiti a Cavalleggeri, avevo, credo, due o tre anni. Ho varcato di nuovo quel portone qualche anno fa, ero in zona per alcune sedute di agopuntura. Ho cercato di ritrovarmi, come è normale, di figurarmi gli appartamenti delle zie, al secondo e terzo piano, se non sbaglio. Ma il ricordo di via Ciro Menotti è legato anche a una festa fine anni Settanta, forse a casa di Scialoja e Gabriella Drudi (un giardino d’angolo con il lungotevere), con Pagliarani che accenna una mossa di twist e James alla chitarra. A quel tempo frequentavo il Laboratorio di Elio e muovevo i primi passi in una Roma poeticamente vivissima.
Se la poesia è un dono, io questo dono l’ho avuto da mia madre, che da giovane a Firenze frequentava la casa di Alberto Viviani e una volta, mi raccontava, era stata anche a casa di Papini. Qui nel mio studio ho i libri di Viviani, con dedica “alla cara Romana Viola”. Un tramandarsi genetico, dunque, come qualcosa che viene da lontano e poi prende forma. Questo è stato: un respiro.
Nel 1976 l’incontro con Sandro Penna. Mia sorella a scuola aveva come vicina di banco Franca Lacchè, che abitava nell’appartamento a fianco di quello di Penna, in via della Mola dei Fiorentini. Ero all’Università e avevo cominciato a scrivere. Franca gli recapitò una decina di poesie che avevo composto durante l’estate. Penna mi telefonò, andai a trovarlo, era ottobre. Quando uscii vagai per un paio d’ore tra piazza Navona e il Pantheon in uno stato di strana ebbrezza pensando a quella casa che avevo da poco lasciato, e al Penna-emblema per me della poesia assoluta. Ci sono poi stati lunghi anni di apprendistato e di incontri, Elio Pecora, Amelia Rosselli, Dario Bellezza, Maria Luisa Spaziani, Giorgio Caproni, Enzo Siciliano, le prime pubblicazioni su Nuovi Argomenti e Tabula (con una prefazione della Rosselli), le letture pubbliche al Teatro del Prado, al Bar Gardenia in via del Governo Vecchio, al Festival dei Poeti nel 1984. Sentivo la poesia a un passo, la sentivo vibrante nella vita di tutti i giorni. L’attesa della pagina, vederla poi realizzarsi su rivista. Un mondo avvolto dalla poesia e dallo studio.
Arrivò una malattia seria, un dolore che fece da spartiacque tra un prima e un dopo. Arrivò una seconda vita, e c’era la poesia a raccontarla. Era una poesia più esperta. Nel 1987 uscirono venti poesie con il titolo La chiara immagine (Rossi & Spera). Presentai il libro in via dei Coronari. Poco prima c’era stato un incontro con Amelia Rosselli e Gregory Corso. Anche qui l’immagine dei due poeti che accennano un ballo. Un Ballo di famiglia si potrebbe dire a questo punto, anche se la nostra non era una vita minimalista.
Viola, il cognome di mia madre; Alba, il nome di mia sorella: portano un colore, il femminile della poesia. Da più di vent’anni a quei colori si è aggiunto, nel viaggio, quello di mia moglie Patrizia.
Partenza, del 1988, è la prima raccolta organica, pubblicata da Marisa Di Iorio nelle edizioni Empirìa. Nei libri che sono seguiti la storia ha avuto un ruolo centrale, storia come capacità di resistere al tempo, nonostante il tempo. Dogali, Teatralità dell’atto, Alla lontana, alla prima luce del mondo, per citarne alcuni. Fino al recentissimo Vivo così, un resoconto privato e collettivo, dentro una misura del sentire. Oggi ciò che mi interessa di più è cercare una calibratura incisiva, sporgermi nel precipizio con parole precise: chi sono e che vedo intorno (con tutta una schiera di viventi).
Vivo così: d’attesa,
spergiurando su cosa mai può essere:
cuculo, tortora d’attesa. Oscilla il lume,
la calda mano degli altri.
Sporgersi vuol dire cogliere tutte le oscillazioni, che sono oscillazioni di lingua e di musica. Un’anima. È quell’essere nel tempo, che è tutti i tempi. Un abbraccio ideale. Perché vivere è anche la lingua dei viventi (e nel caso della poesia, la lingua di un presente che viene da lontano). Ho imparato molto da chi mi ha preceduto, ed è così che deve essere se pensiamo che la lingua della poesia è l’uomo.
Mi piace pensare alla mia poesia come a un neoumanesimo risolto nella precisione del dire che vuole farsi segno distintivo. Ecco, la poesia per me è segno distintivo, emblema di lingua e presenza. E in fondo quello che ci emoziona in una poesia è riconoscerne l’emblema, il suono che ci resta dentro e continua a parlarci, non smette di parlarci anche quando ci sembra di non ricordare. Ho imparato con gli anni a farmi più preciso, a capire quello che voglio o posso dire, anche quello che non voglio o non posso. È il mio registro, che poi è tutto perché è il discorso esplicito e reticente al contempo, la frase che si allunga o che si inerpica e sale, su su, e richiama uno specialissimo significato (molti, a dire il vero). Alla fine il risultato è uno spartito semiaperto: c’è di me quanto basta: “È un continuo animarsi, distrarsi, un corpo / a corpo e già più avanti, ma mai pronto”.
Se dovessi proiettarmi su uno schermo mi vedrei come l’uomo-linea che nasce dal tratto di matita di Osvaldo Cavandoli: ne riconosci a prima vista la fisionomia, ma ogni volta il disegno è diverso.