Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid.

Come cambieranno i rapporti umani? Se è una rifondazione dell’esperienza relazionale il nostro nuovo compito, la poesia non potrà non farne parte. Anzi, la poesia è, in un certo senso, il genere per eccellenza della distanza ravvicinata, il contrappunto fra la solitudine radicale e l’incontro con l’umana compagnia. Dante è solo con i morti nella Commedia, Leopardi è solo con la morte ne La ginestra, eppure è lì che gli umani si danno ancora appuntamento per ritrovare tutti i viventi e rifondare il senso del loro stare al mondo. Fare del Covid un tema è un atto lecito, anche se rischioso. Forse, però, di tutto avremo voglia, e soprattutto bisogno, che di poesie sul Covid.

Negli scorsi mesi ho riletto le poesie di Emily Dickinson, Serie Ospedaliera di Amelia Rosselli, Millimetri di Milo Angelis e Il catalogo della gioia di Antonella Anedda, libri spesso di estrema solitudine.

Mi hanno dato coraggio i versi di Montale, Caproni, Fabio Pusterla, versi di resistenza e di riaffermazione dell’umano in tempi bui.

Dalla poesia mi aspetto la prefigurazione di nuove possibilità di gioia, di un nuovo senso della communitas, di una nuova musica relazionale.

La poesia degli ultimi decenni ha cercato di rimettere in discussione il rapporto fra l’io e gli altri, con una serie di drammi e di processi pronominali che si sono spesso rivelati asfittiche questioni metaletterarie travestite da posizioni pseudo-etiche, in una sorta di ginnastica posturale dell’io, a volte francamente ridicola.

Forse è arrivato il momento di ripensare questi rapporti in termini di esperienza sullo spartito ritmico della versificazione.

Ho riletto giorni fa Essere rondine di Mario Luzi: una poesia che ho sempre trovato stupenda (il Luzi che più mi piace è forse quello che meno gli somiglia). La questione del rapporto fra libertà e limite, fra la libertà individuale e il limite posto dall’appartenenza responsabile a una comunità, viene lì risolto attraverso l’icasticità della metrica, che davvero mima il volo delle rondini, con lo stacco della singola parola o espressione dal gruppo e il suo rientro nella collettività ritmica, gli slanci, le planate ad alta quota, e il ricadere dei versi: la metrica diventa il perfetto equivalente del rapporto fra libertà e limite.

La metrica ha a che fare con l’etica molto più di quanto non si pensi solitamente. È quello che intendo quando parlo di una nuova musica relazionale come mia personalissima attesa di lettore.

 

2 pensieri su “Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

  1. Ho letto con molto piacere questo intervento di un mio concittadino che non conoscevo affatto. Dimostra una grande dimestichezza (tutta vissuta dall’interno) con la poesia italiana del secondo Novecento e fino ad oggi. Mi trovo in sintonia con la sua lettura trasversale di questo enorme spartito…Soprattutto mi ha colpito la sua affermazione che “La metrica ha a che fare con l’etica molto più di quanto non si pensi solitamente” perché costituisce “il perfetto equivalente del rapporto fra libertà e limite.” Se dovessi fargli una domanda, gli chiederei se il metro della poesia non sia la radice ritmica dello stesso concetto greco del logos, che originariamente significa “rapporto”, “commisurazione fra l’intero e le parti”. Un principio di musica relazionale, appunto.

  2. Questo passo è stupendo
    La poesia degli ultimi decenni ha cercato di rimettere in discussione il rapporto fra l’io e gli altri, con una serie di drammi e di processi pronominali che si sono spesso rivelati asfittiche questioni metaletterarie travestite da posizioni pseudo-etiche, in una sorta di ginnastica posturale dell’io, a volte francamente ridicola.
    Grazie

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