Vania De Luca e Luigia Sorrentino, colloquio sulla poesia

Luigia Sorrentino

Intervista a Luigia Sorrentino
di Vania De Luca
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Roma, 2 marzo 2017

Cominciamo con una citazione. Ti dirò dopo l’intervista di chi sono queste parole e in quale contesto sono state pronunciate. Vorrei infatti che nella risposta tu ti soffermassi solo sul loro significato.

“La poesia è piena di metafore. Comprendere le metafore aiuta a rendere il pensiero agile, intuitivo, flessibile, acuto. Chi ha immaginazione non si irrigidisce, ha il senso dell’umorismo, gode sempre della dolcezza della misericordia e della libertà interiore.”
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Condivido pienamente l’affermazione. La poesia è soprattutto metafora, perché trasferisce continuamente il significato di una parola in un altro. Sempre il poeta, anche il più sperimentale, nella poesia utilizza la similitudine. Per il poeta questo esercizio è automatico, fa parte proprio del suo modo di agire, di essere, di pensare, di vedere le cose. Per lui tutto ha un significato, di là dall’apparenza delle cose, c’è almeno un’altra verità. Anche il “lapsus”, l’errore involontario, è accolto dal poeta, perché può rivelare qualcosa che in quel momento a lui è ignota. Spesso la parola precipitata sulla pagina rimanda a un’altra, nella sonorità, nella composizione delle lettere, richiama qualcosa che spezza il significato primario, ne inventa un altro e diventa oggetto di osservazione per il poeta che si chiede: “Perché ho scritto proprio questa parola?” Nel “lapsus” il poeta attende la verità e la verità, si rivelerà a lui.
Non è un caso che un poeta come Paul Celan, rumeno ebreo, esiliato a Parigi, abbia scritto la sua poesia nella lingua dei suoi aguzzini nazisti, cioè il tedesco, come testo a fronte della sua stessa vita: la patria perduta, la madre morta nella deportazione, il popolo ebraico sterminato. Questo meccanismo, insito del fare poetico, aiuta a comprendere perché il pensiero del poeta anche per denunciare un’esperienza tragica, può essere agile e intuitivo. E’ un pensiero che si lascia anche agire, che trasforma e si lascia trasformare e, pertanto, è flessibile e acuto.
Il poeta sa che un intero universo può stare in una sola parola, nello spazio stretto e nervoso, ma anche “sovversivo” del pensiero. Prendiamo a esempio la poesia “Soldati” di Ungaretti: “Si sta come/ d’autunno/sugli alberi/le foglie.” In questa poesia il poeta ci porta in un altro contesto storico rispetto a quello in cui ci aveva portati Celan: siamo nella Prima Guerra Mondiale – la poesia è infatti scritta nel bosco di Courton nel 1918 – e, oltre a riferirci il particolare momento storico vissuto dal soldato durante la guerra, rivela una condizione universale e umana. Nella poesia di Ungaretti l’uomo si trova su un territorio di confine, la trincea, in un fossato scavato per ripararsi dall’aggressione del nemico, e in quel posto in cui il corpo è confinato, l’uomo si sente in pericolo, in una situazione d’incertezza, nella più totale provvisorietà , nel proprio limite. Al margine della condizione umana, la vita del soldato oscilla fra la vita e la morte. Il poeta paragona l’uomo a una foglia d’autunno perché la condizione della vita è sempre precaria, è “come” una foglia sostenuta dal ramo dell’albero dal quale potrebbe staccarsi da un momento all’altro. L’uomo trema come una foglia agitata dal vento, teme l’autunno, una stagione di passaggio che preannunzia l’inverno, il tempo in cui la natura madre si addormenta. Quest’uomo in guerra che Ungaretti pone sul fronte, è solo con se stesso, è un esiliato fra gli esiliati, ma su quel confine è rappresentata l’intera umanità, e, al tempo stesso, il poeta per rafforzare la tragicità della condizione umana, rende dal punto di vista formale, brevissimo il componimento poetico e affida il soldato al grembo della madre – il fossato. Lo affida, cioè, a una natura terrena della quale l’uomo-foglia è metaforicamente incarnazione, e contemporaneamente lo pone in una condizione ultraterrena: consegna l’uomo al “grembo” della madre e alla misericordia di Dio. La parola grembo, infatti, in ebraico è Rachim, e ha la stessa radice della parola misericordia, Rachem, due parole connesse e complementari l’una all’altra. Quindi, in questo componimento la misericordia della madre sembra essere sostenuta dall’atto del misericordioso. La misericordia di Dio è, infatti, paragonabile alla tenerezza della madre che accoglie fra le braccia il figlio, tenendolo sul suo grembo. Ecco quindi che nella brevità e nella sintesi dei versi, Ungaretti, con una modalità “sovversiva”, parla della condizione umana e offre, a chi legge, la libertà e la possibilità di comprendere la sostanza del suo pensiero e di andare anche “oltre”, in un contesto “agile”, rapido, scattante. La poesia quindi, sempre, opera un trasferimento: “da” – “a” , e lo spostamento riguarda un significato profondo che talvolta rivela proprio in un lampo, una verità essenziale che viene consegnata al lettore.

Vania De Luca

Cos’è per te la poesia?

La poesia per me è un disperato tentativo di riparazione. Qualcuno è stato tradito, umiliato, scosso, è stato ferito gravemente e si è allontanato da noi. Quell’immagine nitida è dietro di noi, ma si è fermata nei nostri occhi. Ed è in quel preciso istante che la poesia arriva in un grumo di parole raccolte sulla pagina per porre rimedio a ciò che accaduto. E’ un tentativo ultimo, perché l’azione della poesia compie un gesto definitivo, dopo non ci saranno altre possibilità. Il poeta, quindi, cerca di riparare la realtà e, allo stesso tempo, cerca un riparo dalla realtà. In questo senso la poesia può avere una funzione salvifica. In chi la legge talvolta, può provocare un senso di spaesamento, d’inadeguatezza, perché non sempre è disponibile a confrontarsi con la nostalgia – il dolore del ritorno – che nella poesia si riflette.
Sempre la poesia cerca una relazione con l’eterno, con la lontananza da ciò che si è irrimediabilmente perduto e si è separato da noi. Continua a leggere

Il libro degli allievi di Biancamaria Frabotta

Biancamaria Frabotta

Il libro degli allievi di Biancamaria Frabotta, funziona come un piccolo archivio storico meteoclimatico; un atlante di eventi e temperature registrati, nel corso di decenni, lì dove continuano a incontrarsi le stesse coordinate. Le flessioni e i climi qui rubricati si sono verificati su un’identica, tenace, geografia: tutti, sulla stessa mappa, abbiamo raccontato la medesima stagione: quasi quarant’anni di innamoramenti lirici, passioni civili, piani di studio, versi, lettere, chiacchiere e tesi di laurea.
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“Olimpia”, di Luigia Sorrentino

di Fabrizio Fantoni
Roma, 10 febbraio 2013

Milo De Angelis nella prefazione di “Olimpia” (Interlinea 2013), afferma: “Scrivendo Olimpia, Luigia Sorrentino scrive il libro della sua vita. Olimpia punta all’essenza, tocca in profondità le grandi questioni dell’origine e della morte, dell’umano e del sacro, del nostro incontro con i millenni. Ha uno sguardo lungimirante: sguardo ampio, prospettico, a volo d’aquila. Ma ha anche improvvisi affondi nella fiamma del verso.”[…] E aggiunge: […] “I tempi s’intrecciano, entrano in un’epopea dove tutto è così nostro da diventare remoto, tutto è così perduto da diventare presente. Olimpia riesce a esprimere questo tempo assoluto, e lo fa in modo mirabile, con architetture possenti ma anche con i guizzi fulminei della vera poesia. Tempo assoluto che contiene ogni tempo.” Un’opera della maturità, sottintende il poeta scrivendo: “Olimpia punta all’essenza, tocca in profondità le grandi origini della vita e della morte.”
Chi è per te Olimpia?

 

Olimpia” è l’incontro con un luogo, con un’essenza femminile, con una città, con una condizione, la condizione umana. Nel libro non vi è più nulla della città, forse non c’è più nemmeno l’umano, ma soltanto il riverbero di una voce che arriva da lontano. Tutto è irrimediabilmente sparito, raso al suolo, forse proprio per questo De Angelis scrive che “Olimpia” esprime un tempo assoluto, cioè un tempo che contiene ogni tempo. Tutto è già accaduto, è dietro di noi, ma anche davanti a noi, racchiuso in uno spazio circolare. La poesia è lì, in un’essenza viva, nitida, pulsante, è una voce che chiama a sé i suoi figli e li accresce, “in tutto ciò che siamo stati” e facendo questo percorso a ritroso nel tempo, tocca le grandi origini della vita e della morte. Continua a leggere