Per un profilo provvisorio di Jolanda Insana (1937-2016)

 jolanda-insana

di Carmelo Princiotta

Con Jolanda Insana se ne va l’ultima fattucchiera della lingua poetica novecentesca, la poetessa dell’alterco espressionista, il rovescio di Quasimodo e l’altra faccia di una terra, come la Sicilia, feconda di grandi narratori ma avara di veri poeti. È pur vero che Insana, nata nel 1937 a Messina, dove si sarebbe poi laureata in filologia classica, era originaria di Monforte San Giorgio, dunque di quel lembo tirrenico del messinese segnato dalle presenze di Lucio Piccolo e Bartolo Cattafi, al cui cospetto i versi di Insana stanno come la prosa di D’Arrigo a quella di Vittorini (e non è, sia chiaro, un giudizio di valore). La lingua poetica di Insana non nasce soltanto da un’applicazione della funzione Gadda o dalla mislettura del magistero di Amelia Rosselli, ma anche dalla riduzione a filologia inventiva, se mi si passa l’ossimoro, dell’indole espressiva dei siciliani, sempre oscillante fra incantesimo e crudezza, fra gelsomini e coliche renali. Il fondo paremiologico di Sciarra amara, la silloge con cui Giovanni Raboni scoprì Insana nel 1977, e dei libri successivi ne è la dimostrazione. Quel titolo d’esordio, come spesso accade ai poeti, è davvero emblematico, riassuntivo e insieme premonitore, in quanto condensa il tema fondamentale di Insana, cioè l’alterco, la struttura dominante della scrittura, cioè il dibattito in forma di bisticcio che introverte e polemizza un genere originario della poesia siciliana e, più in generale italiana, come il contrasto e insieme lo trasforma in un teatro tutto mentale, e la sigla stilistica di quest’autrice, un espressionismo amaro e sciarrero. La corporeità, anzi la vera e propria carnalità, della poesia di Insana passa attraverso la prevalente sollecitazione del gusto, a fini non esclusivamente metaletterari (benché, si sia parlato, a ragione, di parola agra, aspra e, per l’appunto, amara). La Sicilia, che Insana ha lasciato nel 1968 per trasferirsi a Roma, in quella via dei Greci ch’era tutta sua (come ha ricordato l’amico Elio Pecora in un’indimenticabile poesia di dedica) e dove ieri è morta, rivive nella sua poesia perché si è impressa una volta per sempre non già nelle pupille ma nelle papille: gli unici momenti di struggimento di questa poesia sono legati al gusto, che per un siciliano veicola irrimediabilmente la nostalgia della madre, figura cui del resto pertiene il probabile capolavoro di Insana, Più non riconcilierà Abele e Caino ne La tagliola del disamore (2005). È questo un libro del materno fra i più toccanti e tremendi nel nuovo millennio, a partire dall’insostenibile poemetto d’apertura, La pietanza votiva, chiuso da una delle rarissime comparse del dialetto nella poesia di Insana, ovvero dalla straziata invocazione «matri bedda / matri ranni».

L’espressionismo non è che un ermetismo rovesciato, nel momento in cui ruota attorno a un detto: se davvero l’ermetismo di Quasimodo origina dalla rimozione di un eccesso di sensualità, perseguita attraverso un estenuato furore di astrazione, l’espressionismo di Insana si traduce in un caparbio furore di matericità, forse a partire da una violenza degli uomini e della natura. Non è un caso che la poetessa non abbia quasi mai fatto ricorso al dialetto, lingua non già della manipolazione ma dell’autenticità, preferendogli un grottesco impasto a base italiana e abbia sempre tenuto lontane le forme della lirica per quelle della recitazione e del poemetto ellittico, sostanzialmente non narrativo. Basterebbe mettere a confronto Il bombardamento ne L’occhio dormiente (1997) e il suo corrispettivo dialettale, U bummaddamentu in Satura di cartuscelle (2009), per rendersi conto del livello di esposizione che comporta la parlata monfortese: il dialetto è traditore, perché mette a nudo ciò che si ha veramente da dire. O leggere i frammenti dialettali dell’oratorio Per il centenario del terremoto di Messina, sempre nel libretto di cose extravaganti rispetto al volume Tutte le poesie (1977-2006) del 2007, poi completato, forse solo provvisoriamente, da Turbativa d’incanto nel 2012. Non sappiamo, o meglio non so, quale “bucato” poetico (vista l’abitudine dell’autrice di stendere i testi ad asciugare al fumo delle sigarette su veri e propri fili all’interno della sua abitazione) fosse appeso nella mansarda di Insana al momento della morte, quindi in attesa di stampa.

È notissima l’autodefinizione di «pupara» compresa in Sciarra amara, inizio di una trilogia dell’alterco fra la vita e la morte, la lingua e il dialetto, la poesia e il poeta, completata dal vero e proprio libro d’esordio Fendenti fonici (1982), o lo «sbraitar cantando» del suo libro più celebrato, La stortura (2002), anche per la concomitante vena civile; ma a me sembra che nella sua carriera di oprante metafisica, metalinguistica e metapoetica, per quanto accanitamente fisiologica, s’intravveda anche il limite del suo teatro: il pirandellismo. Così come nella sua ininterrotta fedeltà a una vocazione di «scannaparole e gabbalessemi» s’intravvede forse il rischio del suo espressionismo, che è poi la pedanteria del virtuosismo o, se vogliamo, di ogni sperimentalismo. A me sembra che i versi più belli di Jolanda Insana siano quelli in cui la Sicilia affiora, forse involontariamente, nella sua indomabile prepotenza e pietà gustativa, inscrivendosi nel dominio del materno: nessuno potrà più mangiare uno dei piatti poveri nominati da Insana senza pensare insieme alla sua terra e alla sua poesia. Nessuno sa che cosa sia la Sicilia se non ha mai provato nostalgia per una cosa da niente come il biancomangiare. E nessuno come Jolanda Insana ha saputo parlare la lingua della fame.

 

Più non riconcilierà Abele e Caino

 

goccia di mare nel suo nome

non andrà più al mare

non pescherà la paletta

sottratta dall’onda al bambino che frigna

non toccherà acqua

con quelle dita storcinate un poco dall’artrite

 

più non riderà a bocca chiusa

con gli occhi azzurrini stretti a fessura

quando è orgogliosa e però non dice l’emozione

perché la figlia scalciando non lasci il corrimano

e perda la misura

 

e più non scenderà le scale per appurare

se vale comprare il palàmito o la tonnina

cantata dal banditore nel vicolo sotto Castellaccio

 

non tirerà più la catenella dell’acqua

e io che sto al piano di sopra

non sentirò lo sciacquone

e se ora mi capita di sentirlo

so che la sua mano non c’entra nulla

con tutto questo gorgòglio e brontolio

di acque strozzate nelle tubature

perché realizzo che sono a Roma

e non a Messina

ma il trasalimento resta lo stesso

di quando ragazza abitavo la stanza di sopra

e sentivo i suoi rumori

e ogni volta è un soprassalto

 

più non riconcilierà Abele e Caino

e a Pasqua non cucinerà l’agnello

per i figli che tornano a casa

 

la danza e il salto sono compiuti

Pasqua è passata e il fornello è spento

 

e più non mi soppeserà compunta

come fa la gatta che lecca

e accarezza con gli occhi la mìciola smunta

 

non pregherà più

e la sua requie materna in pace

non riconduce più il latino

al grembo della madre

con le sillabe affrante del cuore

 

più non punterà dritti gli occhi

sulle facce degli amici e dei nemici

sulle feci e i pidocchi dei marmocchi

scrofolosi itterici e picciosi

sul sangallo e la fiandra

sulla tela di agave lavorata

nella contrada del camposanto

o sui dolcini di ricotta e gelsomini

 

e più non darà consigli

e non mi dirà non fare la baccalara

che inghiotte a bocca aperta

perché tutti si fanno i conti in tasca

con qualche rarissima eccezione

e tu non hai imparato e mai imparerai a contare

e la vita è appesa a una foglia di frasca

 

non mi proteggerà più

e più non si attarda in ciabatte sulla soglia

quando sfrenato di voglia il cuore mi dice di andare

e non dovrei carezzare il ghiaccio

ma non si affligge del mio errare

perché ha sempre preferito dare

più che celando conservare

 

più non guarderà le stelle

nelle sere d’agosto

dal terrazzo di rose fucsie e gardenie

con vista sui Peloritani e sull’Aspromonte

né i fuochi d’artificio sullo Stretto

per la festa della Vara

 

e più non strapperà dal culo ai mocciosi

il verme solitario che li impuzzolentisce e sfiacca

mangiandosi tutta la sostanza e lo scarso nutrimento

degli anni perniciosi dell’anteguerra

della guerra e del dopoguerra

 

non berrà più gazzosa

e più non offre per amore del prossimo

la solita mezza bottiglia di vino

con qualche stuzzichino di carne secca

alla vicina stizzosa con le pupille sgranate

che bussa imbriaca alla porta

 

più non s’incamminerà di notte

per il pellegrinaggio alla Madonna Nera

o al santuario dell’Antennammare

e non accenderà candele contro il male ;

e i diavoli che sotto forma di vermi

entrano nella pancia di ogni mortale

e gli tolgono la luce degli occhi

aizzano la mente lo fanno demente

mortuario sotto il suo sudario

 

e più non mi nutrirà

a panecotto e biancomangiare

e non scoperchierà la pentola

con il bollito di capra

la buona setosa carne di capra

che non mangio da una vita

 

non taglierà più pelose cotogne a tozzi

e tolto il marcio e il verme

non le passerà bollenti al setaccio

prima dell’aggiunta di zucchero

tanto quant’è il peso della polpa

e non verserà la marmellata corposa

schiarita dal limone

nelle formelle di terracotta smaltata

per caliarla al sole sul balcone di Gravitelli

sotto veli di organza

contro l’arroganza di api vespe e calabroni

 

non ci sarà più

protettiva e curativa

la sua trasparente cotognata

per la figlia ulcerosa

 

più non s’arrampicherà sul gelso bianco

come nel ’43 con la pancia di otto mesi

perché golosa delle more zuccherine

non voleva passare il segno della voglia

al figlio che arrivò con gli alleati

e sulla chiappa sinistra ha una stampiglia fragolosa

 

 

e più non sbuccerà a mani nude

i fichidindia tenuti al fresco sul balcone

 

erano il nostro dolce

il torrone gelato d’inverno

dopo cene di borragine e olive

pecorino e fichi secchi

 

non farà più ricotta né l’infornerà

e più non allungherà con l’acqua

il latte grasso di pecora

che i muccosi viziati sputano

perché vogliono latte di capra

 

più non farà doni e più non accetta con fervore

il mazzetto di menta fresca il tralcio di peperoncino

o i primi fichi mulinciani che tiene in mano

borbottando grazie ma non si doveva disturbare

 

cresciuta senza madre e senza cura

e da sempre allenata a fare e a dare

era così contenta e gratificata

che doveva immediatamente ricambiare

con un pezzetto di pecorino un quarto di vino

qualche grammo d’olio o un panino

imbottito di pescestocco alla ghiotta

conoscendo i bisogni dell’offerente

perché conta il gesto mi spiegava

 

il pensiero che si ha dell’altro

e c’è bisogno di pensarlo l’altro

per non tapparsi gli occhi

davanti all’indigenza e alla sofferenza

rimirandosi nello specchio concavo

del proprio ombelico

 

non conta la cosa che si dà o si riceve

conta la creatura a cui si pensa e si dà la cosa

e per non sbagliare è sempre meglio dare che contare

 

e più non mi aspetterà

con le sarde a beccafico pronte

per la cena del ritorno

e non dirà mangia mangia

che sei troppo magra

 

non sarà più qui

in questa contristata città

un tempo detta babba

nelle umide stanze dello scagno

accanto ai sacchi di carbonella per il focolare

le cannizze per caliare pomodori e fichi

i bidoni militari americani pieni

d’acqua potabile dei Peloritani

e sarà lì dove correva ragazza

e a maggio spicchiava arance amare

 

più non parlerà

e non ci sono tenaglie per tirare la lingua

quando la morte vince e inghiotte la parola

ma ricordarsi e scambiarla di contrada in contrada

sguittìo sussurro fremito di corde o balbettìo

e sia la morte padrona assoluta dell’ultimo fiato

 

non farà più giorno

e più non accende la luce

 

più non avrà colpi per la giostra

e più non lancia anelli al pesce rosso

 

non raccoglierà più gladìoli in mezzo al grano

e più non strappa al gelso foglie per i bachi

 

più non si toglierà le spine

e più non succhia favi di miele

 

non schiaccerà più noci con le mani

e più non apre cozze col coltello

 

più non perdonerà

e più non accoglie il nemico

 

non sceglierà più gelato di fragola e limone

e più non sviene

 

più non tirerà la vita alla vita

e più non dà l’acqua ai fiori di cera

 

non metterà più capperi sotto sale

e più non ammolla il tonno salato di Milazzo

 

più non si scrollerà colpe

e più non ha vergogna

 

non intreccerà più corone di sorbe

e più non scioglie nodi e fiere contorte

 

più non si sbilancerà per acchiappare

il bambino che cade

e più non cade inciampando nel tombino

 

non andrà più in giardino

e più non resta chiusa nella casa fortino

 

più non sentirà la katabba di sant’Agata

e più non fa la novena

 

non ci sarà non ci sarà e ci sarà

finché c’è la parola che la dice

 

non fa

nulla può fare nulla può più fare

e nel sogno ha fame e chiede cibo

 

più non accudisce né picchia

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