Quando l’arte si riconobbe: Cucchi e Basquiat

Jean-Michel Basquiat e Enzo Cucchi New York, PS1, 1981 – Foto Archivio “Enzo Cucchi” per gentile concessione © copyright riservati

di Fabrizio Fantoni

Dalle profondità stratificate dell’archivio Cucchi, come un fossile di luce rimasto sepolto sotto il peso del tempo, riemerge una fotografia che segna un momento importante nella storia dell’arte moderna. Non è un’immagine: è una soglia. Un varco che si apre su un istante irripetibile, in cui due orbite artistiche si sfiorano e generano una collisione silenziosa, destinata a riverberare per decenni. Da un lato, Enzo Cucchi, giovane sciamano della pittura, già intriso di visioni arcaiche, di simboli che sembrano scolpiti nel tufo della memoria mediterranea. Dall’altro, Jean-Michel Basquiat, ancora acerbo ma già incandescente, come un codice urbano che pulsa sotto pelle, un profeta metropolitano che scrive con il sangue e il ritmo.

I loro sguardi si incrociano. Non si parlano: si leggono. Si riconoscono come due creature nate dallo stesso incendio, pur se cresciute in terre lontane. È un incontro che non ha bisogno di parole, perché ciò che accade è al di là del linguaggio: è il battesimo di una nuova grammatica visiva, fatta di ferite, di intuizioni, di materia che vibra. Quella fotografia non è solo documento: è reliquia, è epifania. È il battito originario di una rivoluzione che non ha nome, ma ha voce.

Siamo nel 1981, in una New York che pulsa come un cuore in fibrillazione, affamata di rotture, di visioni, di linguaggi che non chiedano permesso. Diego Cortez — alias Jim Curtis — concepisce New York/New Wave, una mostra che non vuole semplicemente esporre, ma detonare. Il luogo scelto è il PS1, un’ex scuola elementare abbandonata, trasformata in cattedrale profana dell’arte emergente. Cortez, con l’intuito di un rabdomante, raduna 119 artisti, ciascuno portatore di una lingua nuova, di una ferita da esibire, di un’urgenza da gridare.

Tra loro, Jean-Michel Basquiat. A lui viene dedicata una sala intera: quindici opere che sembrano urlare, sanguinare, danzare.  Il pubblico accorre come in pellegrinaggio. Henry Geldzahler, sovrintendente ai beni culturali di New York, chiede di incontrarlo, acquista una tela. Cortez, già proiettato nel futuro, prepara il terreno per l’ingresso di Basquiat nel pantheon dei grandi dealer.

Ed è in questo crocevia che arrivano Enzo Cucchi e Sandro Chia, esponenti giovanissimi di un nuovo modo di fare arte in Italia. L’incontro con Basquiat è folgorante. Non vedono un graffitista, ma un visionario. Un artista che, come loro, rifiuta le etichette e cerca l’essenza. Chiamano Emilio Mazzoli, il gallerista che aveva acceso la miccia della Transavanguardia a Modena. Mazzoli vola a Manhattan, vede le opere, le acquista. Propone a Basquiat una mostra personale, la prima in Europa.

Nel maggio seguente, Basquiat arriva a Modena. È spaesato, lontano dalla sua giungla urbana, privo dei suoi rituali: erba, LSD, junk food. Ma Mazzoli lo accoglie, lo rifornisce di materiali, lo lascia creare. E Basquiat esplode. Produce tele immense, febbrili, viscerali. Ogni opera è un grido, un sogno, una ferita aperta.

Seguono mostre di successo: Annina Nosei a New York, Larry Gagosian a Los Angeles, Bruno Bischofberger a Zurigo. Basquiat diventa meteora e stella fissa, icona e enigma.

Ma tutto parte da quell’incontro al PS1. Da quello sguardo tra Enzo Cucchi e Jean Michel Basquiat. Due percorsi autonomi, due visioni distinte, ma una stessa tensione: fare dell’arte un linguaggio che non si piega, che non si addomestica, che brucia.

Modena diventa il punto di partenza di una traiettoria che cambierà la cultura visiva contemporanea. E quella fotografia, finalmente svelata, è la chiave di volta. Non solo un ricordo, ma un segnale. Un momento in cui l’arte ha smesso di essere forma e ha cominciato a essere destino.

Le loro traiettorie sembrano distanti, eppure si sfiorano come correnti sotterranee che scorrono verso la stessa foce: un’arte che rifiuta il silenzio concettuale e torna a parlare con immagini, simboli, materia e poesia.

Basquiat abbandona il rigore minimalista per una pittura febbrile, istintiva, dove la figura esplode in segni, parole e colori che urlano la sua verità.

Cucchi, visionario ed evocativo, si allontana dall’astrazione cerebrale per abbracciare una figurazione poetica, dove mito e storia si fondono in un linguaggio personale, quasi oracolare. Entrambi scelgono di raccontare il mondo non con formule, ma con visioni.

Il passato vibra nelle loro opere come una presenza viva. Cucchi evoca la letteratura, la mitologia, la memoria dell’arte antica, trasformandole in immagini che sembrano emergere da sogni arcaici.

Jean-Michel Basquiat, con la furia di chi vuole riscrivere la storia, intreccia riferimenti alla cultura afroamericana, alla schiavitù, alla musica, creando un mosaico che è insieme denuncia e celebrazione.

Ogni tela è un campo di battaglia.

Enzo Cucchi “Paesaggio barbaro” (1983) Foto Archivio “Enzo Cucchi” per gentile concessione © copyright riservati

Enzo Cucchi mette in scena il conflitto tra forze opposte – luce e tenebra, spirito e carne -mentre Basquiat costruisce un caos visivo che riflette le tensioni sociali, spirituali e identitarie del suo tempo. I loro simboli non spiegano, ma evocano, non descrivono, ma feriscono, interrogano.

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