
Kim Simonsen © Thomas Koba, per gentile concessione
Introduzione, traduzione italiana dei versi ed estratto dalla postfazione al volume
di Giovanni Agnoloni
Oggi desidero proporvi una selezioni di versi dalla silloge del poeta faroese (già noto a livello internazionale e tradotto in molte lingue) Kim Simonsen “La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene”, edita da I Libri di Mompracem nel 2025 col finanziamento degli enti culturali delle Isole Fær Øer “FarLit” e “Mentanargrunnur Landsins”.
La traduzione l’ho realizzata partendo dalla versione inglese della collega (e poetessa) statunitense Randi Ward, che mi ha anche aiutato a cogliere alcune importanti sfumature del testo originale faroese, che ho potuto seguire – pur non conoscendo la lingua – grazie ad alcune sue assonanze con lo svedese.
Seguono cinque poesie (nelle tre lingue) tratte della prima e dalla seconda sezione del volume, nelle quali emergono i temi-chiave della raccolta, che ruota attorno alla morte del padre del poeta, tornato alla sua isola proprio in quell’occasione. Quel ritorno diventa per lui uno spunto per riflettere su come tutto, nella natura liquida del pianeta, sia collegato in un’entropia carica di senso. Infine, troverete un estratto dalla mia postfazione, dove questi temi vengono ulteriormente approfonditi.
—
Stamani è morto mio padre;
per tutta la vita ha navigato
gli oceani del mondo.
Ora le onde s’infrangono
come sempre si sono infrante
l’una sull’altra.
È così che arriveranno
a cingere le sponde di questa terra:
in un turbinio sovrapposto
di strati
su
strati.
Í morgun doyði pápi mín,
hann sigldi alt lívið
á heimsins høvum.
Nú bróta aldurnar
sum aldur hava brotið
oman á aldur.
Soleiðis vilja aldurnar
fevna fjøruna
landið
alt tað
sum legst
oman á
alt.
My father died this morning;
all his life he sailed
the oceans of the world.
Now the waves break
as waves have broken
wave upon wave.
This is how the waves will
embrace the shores of this land:
everything
eddying layer
upon
layer.
—
L’oceano sta erodendo queste sponde;
i flutti s’infrangeranno su questa terra
finché l’ultimo faraglione non sarà abbattuto.
Il fiordo, le onde, il pendio ormai saturo
Sono divenuti una necropastorale
arcaica, con quest’unico sentiero verso l’Ade.
La morte vive qui adesso,
ecco chi sta rispondendo al mio sguardo
da un punto tra l’aspra banchina e l’erba avvizzita.
Nú máar havið partar av landinum,
at enda fara aldurnar at bróta landið niður
til seinasti drangurin einaferð koppar í havið.
Fjørðurin, aldurnar og váta brekkan
eru endað sum ein deyðspastorala,
arkaisk við einum farvegi til Hades.
Nú er tað deyðin sum býr her,
tað er hann, ið starir aftur
millum hømiliurnar og deyðagrasið.
The ocean is eating away at these shores;
the waves will break against this land
until the very last sea stack is toppled.
The fjord, the waves, the saturated hillside
have become a necropastoral:
archaic with only this one path to Hades.
Death lives here now,
he’s the one staring back at me
from between the bitter dock and the withered grass.
—
C’è una spruzzata di neve sulla cengia scoscesa.
Neve, un compromesso
tra materia liquida, gassosa e solida.
La delicata formazione dei suoi fiocchi
è come questo intervallo—
come le alghe e l’erba avvizzita.
Proprio come questo giorno,
tra cumuli di sterco di pecora
e pietre bagnate
e perline di umidità che striano le finestre
mentre la casa siede quieta e vuota,
e tutto al di là del vetro attende.
Pietra basaltica ricoperta di borraccina,
muschio verde e giallo.
Non si vede nemmeno un papavero o una rosa.
Adesso non esisti più,
mi dico a voce alta.
Eitt følv hómast uppi á hamrinum,
kavin hendan millumrokningin
millum vætu, gass og fast evni,
hendan skroypiliga evnafrøðin hjá kavanum
er sum hendan tíðin,
sum tarin og deyðagrasið,
líka sum hesin dagurin,
millum túgvur av sparlalortum
og vátum steinum,
har vætan rennur oman eftir vindeygunum,
meðan húsið er stilt og tómt,
uttan fyri vindeygað bíðar alt
basalt og mosarunnið grót,
grønur og gulur mosi,
valmúa og rósur eru ikki at síggja.
Nú ert tú ikki til meiri,
sigi eg hart við meg sjálvan.
There’s a dusting of snow up on the craggy ledge.
Snow, a negotiation
between liquid, gas, and solid matter.
The delicate nucleation of snowflakes
is like this interval—
like the seaweed and the withered grass.
Just like this day,
between piles of sheep dung
and wet stones
and beads of moisture streaking the windows
while the house sits still and empty,
everything beyond the window waits.
Basalt and moss-grown rock,
green and yellow moss.
Not a poppy or rose to be seen.
Now you no longer exist,
I say to myself aloud.
—
Quando ero piccolo, disegnavo navi
come quelle su cui mio padre viaggiava per mare;
ricordavo tutti i loro nomi,
ma c’era qualcosa che mancava.
Ora sono uno che legge la spiaggia come una storia,
di quelle che riguardano il passato,
il tipo di storia capace di trasformarci.
Forse c’è qualcosa che non riusciamo a vedere
e di cui nella mia famiglia non parlavamo mai,
ed è per questo che sono tornato nel luogo dove nacqui
come la trota di mare nascosta nel fiume
che scorre attraverso il villaggio.
Nel fiume in cui le trote guizzano lungo le rocce piatte,
risalendo la corrente fin dentro la cascata e fino al punto
dove sono nate e dove deporranno le loro uova
e infine moriranno.
Tá eg var barn teknaði eg myndir av skipum,
tey sum pápi mín sigldi við,
eg mintist nøvnini á teimum,
men har manglaði okkurt.
Nú eri eg tann sum lesi fjøruna sum eina søgu,
tað slagið um fortíðina,
tað slagið sum broytir okkum.
Kanska er okkurt, vit ikki síggja
og ongantíð hava sagt í míni familju,
soleiðis eri eg komin aftur til staðið har eg eri føddur
sum sjósílið, ið er fjalt í ánni,
henni, ið rennur ígjøgnum bygdina.
Í ánni har sílini taka seg upp eftir vátari hellu
niðan fossin aftur til tað staðið
har tey vóru gýtt, har tey sjálvi
at enda gýta og doyggja.
When I was a child, I drew pictures of ships
like the ones my father sailed with;
I remembered all of their names,
but something was missing.
Now I’m the one who reads the beach like a story,
the kind about the past,
the kind of story that changes us.
Maybe there’s something we can’t see
and never spoke about in my family,
and that’s why I’ve come back to the place where I was born
like the sea trout hidden in the river
that runs through the village.
In the river where the trout leap along the flat rocks,
running upstream into the waterfall back to the place
where they hatched, where they will also spawn
and eventually die.
—
Pensavamo sempre a loro,
agli spinarelli color verde argenteo
sognavamo di catturarli
e portarli a casa con noi.
Vivevano per settimane in torbide vasche da bagno
finché non morivano di fame a interi banchi.
Lo spinarello, il nostro pesce più minuscolo
e il più resistente di tutti
con quelle caratteristiche spine sul dorso;
per gli spinarelli conta ben poco che le onde
li spingano avanti e indietro tra il mare e le pozze di marea.
La storia naturale dello spinarello
è come l’oscura storia
degli esseri umani
che vivono nella pioggia e nell’oscurità
di questa terra
mentre infuria
la terza tempesta invernale della settimana.
Altíð hugsaðu vit um tey,
tey silvurgrønu kombikkini,
ið vit droymdu um at fanga
og at taka heim við
har tey livdu í vikuvís í runutum baljum,
til heilar torvur doyðu av hungri.
Kombikkið, hetta okkara minsta fiskaslag,
og tað mest harðbaldna millum fisk,
við eyðkendu píkunum á rygginum,
lítið ger tað kombikkinum, um aldurnar flyta tað millum
havið og støðuhyljar.
Náttúrusøgan hjá kombikkinum
er sum loyniliga søgan hjá
okkum menniskjum,
ið liva í hesum landinum
í regni og myrkri,
meðan triði vetrarstormurin herjar
hesa vikuna.
We always thought about them,
the silvery-green sticklebacks
we dreamt about catching
and taking home with us.
They lived for weeks in muddy washtubs
till entire schools died of starvation.
The stickleback, our tiniest species of fish
and the hardiest among the fish
with those characteristic spikes on their backs;
it makes little difference to sticklebacks that the waves
wash them back and forth between the sea and intertidal pools.
The natural history of the stickleback
is like the obscure history
of the humans
who live in the rain and darkness
of this land
while the third winter storm this week
rages.
Estratto dalla postfazione
In una delle poesie della prima sezione leggiamo: «Siamo uno stato di flusso liqueforme». È forse questa l’essenza dei concetti già evocati e ritornanti lungo tutto l’arco del volume – a ondate, per rimanere coerenti con il contesto, «in un turbinio sovrapposto / di strati / su / strati» –. Proprio come l’editore faroese ha sottolineato nel presentare il volume: «La natura fuggevole dell’esistenza è intessuta in un tutto cosmico di onde e di mare – di vita e di morte – in cui vengono esplorati il rapporto tra gli esseri umani e il mondo, il mare dentro di noi e il nostro legame con l’acqua».
Esiste dunque una circolarità orizzontale, per così dire, che cinge e unisce tutti i componenti della natura, dai più microscopici («Sono virus, / sono alga, / sono ciò che è ammuffito»), agli animali e agli esseri umani («La mia fredda mano tocca la staccionata impregnata / d’acqua, c’è odore di terra qui; / sento le ali degli uccelli»), fino alle più imponenti formazioni rocciose («L’oceano sta erodendo queste sponde; / i flutti s’infrangeranno su questa terra / finché l’ultimo faraglione non sarà abbattuto»). Ma esiste anche una circolarità verticale, che attraversa il tempo accomunando e facendo brevemente rivivere nel qui e ora attimi appartenenti al passato degli affetti («E mentre cammino in questo / paesaggio / sto forse muovendomi tra filamenti protesi verso qualcos’altro, / verso un mondo migliore, un tempo / in cui sentivo di essere amato?») e del paesaggio in genere. (…)
In altre parole, esiste una rete di coscienza trasversale e direi quasi collettiva, in cui tutto è biologicamente e, ancor prima, vibrazionalmente collegato a tutto. Nelle parole del poeta, sono proprio i funghi a fornire l’esempio più efficace:
«I funghi si curavano di me?
Si diffondevano sottoterra, una rete intercomunicante
che si espande al contempo in ogni direzione;
ogni ifa conversando con tutti gli altri filamenti,
con tutte le piante e gli alberi
che crescono qui.»
Eppure, la coscienza di questo collegamento evidenzia quanto sia concreta la possibilità di un’“epicurea” indifferenza insita nella natura, ben espressa dal dubbio se i funghi, che pure formano quella rete sotterranea, si interessassero veramente a lui nel passato (così come, altrove nel libro, leggiamo: «Gli alberi mi / vedevano / prima che li vedessi io, / quando ero piccolo?»). Questa visione neomaterialistica e vitalmaterialistica, cioè, lascia apertissimi gli scenari della solitudine umana, o meglio, forse la constatazione che, se tutto è veramente correlato a tutto, la percezione stessa della solitudine (nel presente di questi versi strettamente legata alla morte del padre) deve trasmutare in una consapevolezza di tipo diverso, più sottile e legata alle interconnessioni profonde che la biologia e più in genere le dinamiche naturali sanno creare. E sono proprio queste a diventare un preziosissimo spunto metaforico, perché è come se la coscienza del poeta si spalmasse orizzontalmente su tutto il mondo e le voci della natura della sua isola (da cui è mancato per molti anni), ricollegandosi al contempo verticalmente a tutti i ricordi che, come l’acqua e i microrganismi che essa contiene, hanno imbevuto di sé ogni componente di quel paesaggio.
«La mia rete stamani si estende
tra diversi continenti,
fino a tornare a questo villaggio,
a quest’isola,
a questa spiaggia,
a questi ciuffi di erba avvizzita,
a questi fili che si piegano sotto il peso
di minuscoli, luccicanti frammenti di ghiaccio—
che la luce del sole colpisce,
sfavillandomi negli occhi»
Possiamo affermare che il decomporsi delle cose, non diversamente dall’evento della morte del padre, ha innescato nel poeta una presa di coscienza decisiva, un riscoprire l’eco sempre presente degli affetti di una volta, che vive ancora dentro, là dove forse certe sensazioni, con la distanza, si erano anestetizzate. È un meccanismo eternamente ritornante, proprio come quello delle onde del mare.
Kim Simonsen (1970) è autore di sette libri e di numerosi saggi e articoli. Nel 2014 ha vinto l’“M.A. Jacobsen National Literature Award” delle Isole Fær Øer per la sua silloge poetica “Hvat hjálpir einum menniskja at vakna ein morgun hesumegin hetta áratúsundið” (“A che giova a una persona svegliarsi una mattina da questa parte del nuovo millennio”, 2013), raccolta che nel 2025 sarà pubblicata in traduzione inglese da Deep Vellum Publishing.
La sua ultima silloge poetica, “Lívfrøðiliga samansetingin í einum dropa av havvatni minnir um blóðið í mínum æðrum ” (“La composizione biologica di una goccia d’acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene”, 2023), è stata nominata per il Nordic Council Literature Prize del 2024.
Le opere di Simonsen sono apparse su giornali e riviste di tutto il mondo, tra le più recenti delle quali Washington Square Review, Asymptote, Four Way Review, Trafika Europe e Versopolis. Alcune sue poesie usciranno anche nel 2025 sull’antologia Best Literary Translations di Deep Vellum e sono state pubblicate in Poems from the Edge of Extinction: An Anthology of Poetry in Endangered Languages, a cura di Chris McCabe, bibliotecario della National Poetry Library di London e fondatore dell’“Endangered Poetry Project”.
Kim Simonsen ha studiato scrittura creativa alla Gladiator’s Writing Academy di Copenaghen, ne è stato docente all’Università delle Isole Fær Øer e attualmente lavora come accademico in Islanda. Ha conseguito un dottorato presso l’Università di Roskilde ed è il fondatore e il direttore editoriale di “Forlagið Eksil”, una casa editrice faroese che ha pubblicato oltre venti titoli. I suoi libri sono stati tradotti in danese, macedone, italiano, ungherese, tedesco e inglese.
Randi Ward è una poetessa, traduttrice, paroliera e fotografa del West Virginia, negli Stati Uniti. Ha conseguito un Master in Studi Culturali presso l’Università delle Isole Fær Øer e ha vinto per due volte il “Nadia Christensen Prize” dell’American-Scandinavian Foundation. Le sue opere sono apparse su Asymptote, Words Without Borders, World Literature Today e su molte altre pubblicazioni, e sono state trasmesse anche su Folk Radio UK, NPR e PBS Newshour. Ha ottenuto l’“Appalachian Photography Award” della Shepherd University, e la Biblioteca della Cornell University nel 2015 ha inserito una raccolta di suoi lavori nel proprio Dipartimento di Libri rari e Manoscritti. Per ulteriori informazioni, visitate il sito randiward.com.
Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976), è uno scrittore, traduttore letterario e blogger. È autore del libro di filosofia del viaggiare “Le rivelazioni del viaggio. Piccoli attimi di perfetta chiarezza lungo il cammino” (Ediciclo, 2025), del romanzo di viaggio “Berretti Erasmus. Peregrinazioni di un ex studente nel Nord Europa” (Fusta, 2020), del romanzo psicologico “Viale dei silenzi” (Arkadia, 2019) e della quadrilogia di romanzi distopici raccolti nel volume “Internet. Cronache della fine” (Galaad, 2021), nonché coautore (con Carlo Cuppini e Sandra Salvato) del concept-book di racconti “Da luoghi lontani” (Arkadia, 2022).
Ha scritto, curato e tradotto vari libri sulle opere di J.R.R. Tolkien, e tradotto libri su William Shakespeare e Roberto Bolaño (quest’ultimo, Bolaño selvaggio, Miraggi, 2019, insieme a Marino Magliani) e opere di Jorge Mario Bergoglio, Joe Biden, Kamala Harris, Arsène Wenger, Amir Valle, Peter Straub e Christian Stannow.
Traduce da e verso l’inglese, e dallo spagnolo, dal francese, dal portoghese, dal polacco e dallo svedese. Nel 2023 ha ricevuto il Premio “La Quercia del Myr” come traduttore dell’anno. Il suo sito è www.giovanniagnoloni.com.