Emily Dickinson, la poesia come possibilità

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Margine, silenzio, ellissi: ecco le parole chiave tradizionalmente associate alla produzione letteraria – e alla vicenda esistenziale, che la rispecchia – di Emily Dickinson. Eppure, la lettura attenta dei suoi versi rivela una tensione costante verso ciò che non conosce confini: il microcosmo della stanza entro la quale la scrittrice sceglie di vivere i suoi ultimi anni è lo spazio privilegiato dal quale è possibile osservare le ambiguità del mondo e restituirle sulla pagina attraverso una lingua che, al contrario, risplende nella sua trasparenza. Nelle pause del respiro, nella sincope che caratterizza il metro, Emily Dickinson impara a evadere dalla prigionia della prosa e a proiettarsi verso una possibilità altra, verso una dimora che può essere abitata anche da chi non sa stare ferma – da chi ha imparato a dire la verità, ma a dirla obliqua, perché “il vero deve abbagliare per gradi”. È questa la sua “lettera al mondo”. Continua a leggere

La poetica del frammento di Piera Oppezzo

Piera Oppezzo

TRA LE ROVINE DELL’ESSERE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Un’ansia insopprimibile scuote la vicenda esistenziale di Piera Oppezzo e ostinatamente pervade la parabola della sua ricerca letteraria, dagli anni della sperimentazione a quelli intorpiditi dal silenzio della solitudine. Il dettato disadorno, privo di orpelli, riconducibile a una sorta di poetica del frammento, rivela l’ascendenza dickinsoniana di un universo circoscrivibile ai confini di una stanza. Se la vita è un esercizio di disciplina continuamente minato dalla paura della paura, la scrittura è un compito da assumere con spirito di abnegazione. Benché saccheggiata, fragile, isolata, la poetessa riesce a cogliere l’istante in cui è in procinto di germogliare una ferma utopia – probabilmente la riflessione femminista sulla necessità di un’emancipazione autentica. Rinnovarsi, per quanto vanamente, equivale a sopravvivere, mentre l’amore si decompone e il muschio ricopre la memoria.
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Anna Achmatova, la poesia dell’assoluto

PAROLE GRANITICHE E RIPOSI ETERNI

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Anna di tutte le Russie – risuona nella sua magnificenza l’epiteto che l’adorante Marina Cvetaeva attribuì ad Anna Achmatova, impareggiabile simbolo dell’assoluto poetico ben oltre i confini della pur vasta patria. Durante il periodo più cruento del Terrore staliniano e la prigionia del figlio innocente, la poetessa è in grado di restituire con le parole lo strazio suo e di tutte le madri in fila davanti alle carceri di Leningrado: il sacro requiem che la donna pronuncia si leva come la voce di un intero popolo, stretto in una sofferenza che affratella. Un destino luttuoso colpisce gli intellettuali che non aderiscono in modo acritico ai dettami del regime; ad Anna Achmatova tocca in sorte il saluto inconsolabile ai sodali scomparsi: la parola si fa di pietra, il silenzio urla nella gola e solo la memoria custodisce il valore senza tempo dei suoi versi granitici.
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L’immortalità di Jorge Luis Borges

Jorge Luis Borges a 21 anni

CRONACA DI SOGNI

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

A un labirinto intricato o una biblioteca scrigno di misteri assomiglia il mondo di Jorge Luis Borges: l’immaginario di cui si nutre il poeta rivela ai suoi lettori le ambiguità che si celano dietro l’apparenza illusoria del reale. Nell’istante stesso in cui sgretola le certezze, tuttavia, la sua poetica – quella del doppio, dello specchio, della maschera – apre inediti scenari di possibilità («mi aspetta illimitato l’universo»). Lettore instancabile e dalla leggendaria memoria, lo scrittore argentino dà alla luce un’opera multiforme, impastata della più nobile tradizione letteraria europea e capace di testimoniarne la potente e inesauribile vitalità. Le imprese di Don Chisciotte, le gesta eroiche di Beowulf e la tragedia di Edipo sono costellazioni che illuminano di senso la ricerca di Borges e, in un afflato di creatività, riconnettono la sua stanca storia a una forma vasta e immortale.

LETTORI

Di quell’hidalgo di citrina e secca
pelle e d’eroico affanno si ritiene
che, in perpetua vigilia d’avventura,
non sia mai uscito dalla biblioteca.
La cronaca precisa che racconta
imprese e tragicomiche bravate
fu sognata da lui, non da Cervantes,
e altro non è che cronaca di sogni.
Uguale è la mia sorte. Anch’io ho sepolto
qualcosa d’essenziale e inestinguibile
in quella biblioteca del passato
dove lessi la storia dell’hidalgo.
Volta le lente pagine un bambino
e grave sogna vaghe cose ignote.
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“Il digamma” di Yves Bonnefoy

Yves Bonnefoy (ANSA)

NEL CUORE DELL’ALFABETO
di Bianca Sorrentino

Può la scomparsa di una lettera dire della nostra contezza della finitudine? Se lo domanda Yves Bonnefoy ne Il digamma, un testo del 2012 pubblicato tre anni dopo in Italia per i tipi di ES, con la cura di Fabio Scotto, il quale mette immediatamente a fuoco la cifra imprescindibile dell’autore francese: “ogni scritto di Bonnefoy ha un tasso di poeticità altissimo”. Con slancio lirico egli elabora in effetti una raccolta di prose che sfuggono alla definizione di genere: racconti, argomentazioni critiche, evoluzioni dei cosiddetti récits en rêve da lui teorizzati – visioni oniriche formulate in stato di veglia, in aperto contrasto con le trascrizioni dei sogni care ai surrealisti.
Brillante e irriducibile, l’opera bonnefoyana suscita vivo interesse perché con arguzia solleva interrogativi che riguardano l’umano e prova a mettersi in ascolto di una possibile risposta che provenga dall’esperienza stessa del mondo. Non è un caso che il volume si apra con uno scritto dedicato all’immortale tragedia shakespeariana che secondo Agostino Lombardo si configura come “una grande domanda”: la riflessione che Bonnefoy porta avanti nel testo intitolato Dio in «Amleto» riguarda infatti da un lato l’impossibilità della rappresentazione (sia nel circoscritto spazio teatrale sia sul vasto palcoscenico del mondo) di un’opera per sua natura incontenibile, dall’altro l’insoddisfazione dell’artista-demiurgo-drammaturgo di fronte alla propria creazione. Continua a leggere

Nello sguardo di Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

OLTRE OGNI DUREVOLE BUIO

COMMENTO E SCELTA DEL TESTO DI BIANCA SORRENTINO

L’indolente atmosfera delle rovine di Roma avvince l’esule Brodskij in una luminosa fascinazione. Sulla scorta delle Elegie romane composte da Goethe durante ben altri fasti, il poeta russo si inserisce nella tradizione rinverdendola: la lezione dell’antico, pur nella sua vigorosa persistenza, si lascia pervadere da un novecentesco disincanto. Così la meditazione oraziana sul tempo, privata dell’aura di sacralità, rivive negli stupori e nell’ironia di un ‘barbaro’, nella disillusione di chi vaga tra le vestigia della cultura classica e ne ricava una riflessione feroce su ciò che è eterno e ciò che invece non sa durare. L’invisibile abita i nostri luoghi; l’indivisibile è capace di inchiodarci alla gratitudine, ai ricordi, all’appartenenza. Roma è nella sua luce: l’oro che si è salvato dalla sua decadenza rimane nello sguardo del poeta, sopravvive alle molte ombre della storia ed è sufficiente a riscattare ogni durevole buio. Continua a leggere

Sylvia Plath, “Olmo”

Sylvia Plath

L’OMBRA DELLA PAROLA FATALE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Non ha paura del fondo perché lo ha abitato, Sylvia Plath. La sua poesia, confessionale eppure incapace di insterilirsi sul puro piano dell’autobiografia, adombra una ricerca finissima in ambito lessicale e fonico e, dalla voce di dentro, proietta sulla pagina letteraria un dialogo viscerale e sanguigno con la natura e i suoi elementi. Non c’è spazio per la neutralità: l’urlo deve essere ribadito, perché ai tormenti è necessario dare del ‘tu’. Tuttavia, sebbene la consapevolezza delle proprie ombre sia portatrice di una qualche lucidità, il dolore non porta qui a un livello superiore di conoscenza. L’autrice è ancora inchiodata al ruolo di Elettra che da sola ha voluto assegnarsi, non ha ancora imparato – né mai ne avrà occasione – la legge di Zeus per cui la sofferenza fa scaturire scintille di luce e di sapere. Orfana, culla la propria afflizione e come in un rito pronuncia per tre volte la parola fatale cui andare incontro. Continua a leggere

Isabella Morra, da “Rime”

Isabella Morra

CANTO PER IL PADRE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Sotto i colpi inferti da una Fortuna a lei avversa, Isabella Morra cristallizza la sua fulminea esistenza in un piccolo e adamantino canzoniere, composto nell’altissima solitudine di un castello. La condanna al destino dell’abbandono, celebrata dalla sua stessa famiglia, acuisce in lei la sensibilità per la sorte delle Arianne, le fanciulle che nel mito giacciono addormentate su una riva dimenticata, dopo la partenza dell’amato. Nei versi morriani, l’addio è alla figura paterna in fuga: il suo canto filiale si consuma in un funambolico equilibrio tra innocenza e accusa di tradimento. Il tormento che deriva dalla permanenza nel luogo dell’infelicità non impedisce tuttavia alla poetessa di proiettare il suo sguardo oltre il limiite imposto, nella ricerca mai paga di una visione che culli una qualche novella.

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La poesia di Antonia Pozzi

Antonia Pozzi

DESIDERI BIANCHI DI NEVE

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

La poesia, e dunque la vita, di Antonia Pozzi ruotano attorno alle ombre della parola ‘desiderio’, si nutrono degli slanci legati alla volontà di donarsi e soffrono al contempo un destino di spietati rifiuti e subìte solitudini. Nei suoi versi immaginifici i fotogrammi di assoluta levità parlano spesso di quiete e pace: colori pastello, azioni appena annunciate e mai compiute, distanze che non sanno scatenare passioni irruente. Una sola è la preghiera che si leva – leggerezza. Il cuore pesa come un macigno, e il placido paesaggio che si stende davanti agli occhi non sa stemperare questo stato dell’anima. Eppure resta un confidente immaginare il futuro: una sera che verrà, l’anima ormai libera saprà – senza far rumore, muovendosi appena – farsi beffe della lontananza e intraprendere un cammino ancora inesplorato.

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Char, “la finità del poema è luce”

POESIA COME RISVEGLIO

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Immarcescibile perché eternamente capace di suscitare la vita, la parola ha per René Char la responsabilità etica del risveglio: dall’oscurità dell’incompiuto la poesia traghetta la finitudine dell’uomo verso una luminosa pienezza. Ricusati i “ninnoli di vacuità” dell’esperienza surrealista, l’autore francese partecipa – attraverso il suo dire poetico che conosce il mistero dell’origine ed è pronto ad accogliere la promessa dell’avvenire – alla costruzione del Senso dello stare al mondo; la sua sfida alla gola nera della morte è una resistenza libera e laica, è una rivolta che deriva dall’attitudine a invenire – più che a inventare –, a scoprire dopo aver cercato. Negli anni Sessanta, su iniziativa di Bassani e parallelamente al lavoro di Sereni, Caproni si accosta pudico ai frammenti incorruttibili dell’esistenza di Char e ne restituisce nella resa italiana una ricchezza così pregnante da segnare il suo personale cammino. Fuoco e cenere, i due poeti hanno cantato lo scontro con la Bestia innominabile, l’incontro con la vita, sempre riconquistabile, e hanno conferito significato alla bellezza della parola ‘gratitudine’.

 

On ne peut pas commencer un poème, sans une parcelle d’erreur sur soi et sur le monde, sans une paille

d’innocence aux premiers mots.

Non si può cominciare un poema senza una particella d’errore su di noi e sul mondo, senza una pagliuzza d’innocenza alle prime parole.

 

La poésie me volera ma mort.

La poesia mi ruberà la mia morte.

 

Pourquoi poème pulvérisé? Parce qu’au terme de son voyage vers le Pays, après l’obscurité prénatale et la

dureté terrestre, la finiture du poème est lumière, apport de l’être à la vie.

Perché poema polverizzato? Perché al termine del suo viaggio verso il Paese, dopo l’oscurità prenatale e la durezza terrestre, la finità del poema è luce, apporto dell’essere alla vita.

 

Le poète ne retient pas ce qu’il découvre; l’ayant transcrit le perd bientôt. En cela réside sa nouveauté, son infini et son péril.

Il poeta non trattiene ciò che scopre; dopo averlo trascritto, presto lo perde. In ciò risiede la sua novità, il suo infinito e il suo pericolo.

 

René Char nella traduzione di Giorgio Caproni (Einaudi, 2018)

René Char. Poeta francese (L’Isle-sur-la-Sorgue, Valchiusa, 1907 – Parigi 1988), aderì formalmente al movimento surrealista (1929), ma ne rimase in effetti distaccato assumendo anche atteggiamenti critici. La rarefazione del linguaggio poetico esprime, in Char, una profonda e impegnata ricerca umana, che fa della sua lirica uno dei più alti esempi d’invito a una fraternità che nulla esclude: neppure le cose che circondano l’uomo. Tra le sue raccolte poetiche: Arsenal (1929); Le marteau sans maître (1934), che ha ispirato l’omonima composizione vocale-strumentale di P. Boulez; Dehors, la nuit est gouvernée (1938); Feuillets d’Hypnos (1946), nate dalla sua esperienza nella Resistenza; Fureur et mystère (1948); Les matinaux (1950); Recherche de la base et du sommet (1955); La fausse relève (1959); La parole en archipel (1962); Commune présence (1964); L’âge cassant (1965); Retour amont (1966); Le nu perdu (1971); La nuit talismanique (1972); Aromates chasseurs (1976). In collaborazione con A. Breton e P. Éluard ha scritto Ralentir, travaux (1930). Ha riunito in Trois coups sous les arbres (1967) l’insieme dei suoi testi drammatici. È anche autore di saggi. Una selezione di Poesie tradotte da Giorgio Caproni è stata pubblicata nel 2018 per i tipi di Einaudi, a cura di Elisa Donzelli.

 

Seamus Heaney, la potenza di Virgilio e del libro VI dell’Eineide

SEAMUS HEANEY E LA DISCESA AGLI INFERI

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

 

Il fascino che alcuni maestri sono in grado di esercitare sui propri allievi suscita, da parte di questi ultimi, una devozione che si traduce in costante pensiero e che, a volte, innesca una scintilla di creatività. Proprio in nome della pietas nutrita nei confronti del suo insegnante di discipline classiche, poche settimane prima di morire, nel 2013, Seamus Heaney firma un’appassionata resa inglese del VI libro dell’Eneide. Non si tratta di un esercizio di stile fine a se stesso, né di un inopportuno sfoggio di erudizione, bensì di un gesto gentile compiuto per onorare la memoria del passato e riscattare quel capriccio del destino in virtù del quale da studente egli dovette tradurre per l’Esame di Maturità il libro IX.

Il sospiro del suo professore di Latino, padre Michael McGlinchey, – «Oh, ragazzi, vorrei che fosse il libro VI» – è il poetico pungolo che irresistibile strega il giovane Heaney e lo incita da adulto a fare i conti con i ricordi.

Questo dialogo mai concluso con l’antico, che non si limita a una riproposizione impersonale, scaturisce in prima istanza dalla radicata consapevolezza che il mito classico fonda l’occidente e che accostarsi a Virgilio vuol dire scoprire il significato profondo della discesa agli Inferi. Se nella produzione poetica del bardo di Bellaghy il confronto con l’Eneide si era finora caricato di allusioni al particolare contesto irlandese, reso incandescente dalla guerra civile, quest’estremo richiamo del classico si nutre di un’esigenza biografica privata: così, dall’urgenza pubblica di dar voce alla Storia cantando i troubles dell’Irlanda del Nord a quella intima di elaborare la perdita del padre e misurarsi a sua volta con il mistero della morte, la poetica di Heaney si lascia pervadere dalla potenza del capolavoro virgiliano. Continua a leggere

E’ stato un grande sogno vivere…

Mario Benedetti

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.
Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono. Continua a leggere

Mappa del nuovo mondo

Derek Walcott

DEREK WALCOTT, L’ODISSEA IN UN MONDO NUOVO

commento di Bianca Sorrentino

 

Di fronte al vento che spazza le coste caraibiche, due mani nodose tengono ferma la mappa del nuovo mondo e ispirandosi ai simboli delle Indie occidentali plasmano il modello classico secondo un immaginario rinnovato e fertile. Derek Walcott è sapiente custode dell’eredità europea, ma non per questo tradisce il legame con la sua terra, anzi si serve della poesia per esprimere le contraddizioni che segnano un’identità di confine: dalla solitudine di un’isola, egli canta la comunità degli arcipelaghi; dalle atmosfere assolate e indolenti del Mar dei Caraibi, egli raccoglie la tradizione vibrante dell’Egeo e, tra un mare e l’altro, si fa interprete dell’attesa del poeta, che filtra la nebbia dei secoli e ben oltre le lacrime della pioggia accorda la sua arpa.

Arcipelaghi

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All’orlo della pioggia, una vela.

Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un’intera razza.

La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.

Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell’Odissea. Continua a leggere

Il canto barocco di Claudia Ruggeri

Claudia Ruggeri

CLAUDIA RUGGERI, POESIA DA UN INFERNO MINORE

Commento di Bianca Sorrentino

 

Alcune voci sanno riemergere sottili, e al tempo stesso impetuose, dal silenzio colpevole della noncuranza. È il caso del canto barocco e pregno di dignità di Claudia Ruggeri, che intona il lamento di un inferno minore mentre danza sull’abisso delle Passioni del sud. Il suo dialogo ruvido e doloroso con il vuoto è una sfida che accetta di perdere – se perdita è consegnarsi a un altrove di pace assoluta. La spiritualità di questi versi si sgrana in una lingua che ribolle, e come magma resta intrappolata in un grido soffocato. E se dentro la sua poesia risuonano i maestri umbratili del Novecento, il suo dire resta orgogliosamente autentico e allo schiaffo del tempo risponde con la sua folle e altissima verità.

 

lamento della sposa barocca (octapus)

t’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
– sentile ruvide come cadono -; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture

Claudia Ruggeri, da Poesie. inferno minore. )e pagine del travaso (Musicaos editore, 2018) Continua a leggere

Poesie dal margine

Vittorio Bodini

VITTORIO BODINI, LA LUNA DEI BORBONI

COMMENTO DI BIANCA SORRENTINO

Nel biancore della porosa pietra pugliese sono scalfiti i versi di Vittorio Bodini – si fanno ambasciatori delle atmosfere del sud, dei riti della controra, del sole impietoso che fa ardere il barocco leccese e inaridire le zolle. Eppure questo canto che viene dal margine rifiuta il limite e cerca rimandi in altri meridioni, finché una eco madrilena risponde e due voci ancestrali rivelano le analogie di un comune sentire. La lingua bodiniana, poeticamente e poieticamente intrisa di nostalgia, risente della preziosa esperienza della traduzione, straordinario veicolo di incontri e visioni; anche così il sangue antico continua a scorrere, fedele a se stesso e alle sue molte anime.

Viviamo in un incantesimo,
tra palazzi di tufo,
in una grande pianura.
Sulle rive del nulla
mostriamo le caverne di noi stessi
– qualche palmizio, un santo
lordo di sangue nei tramonti, un libro
lento, di pochi fatti che rileggiamo
più volte, nell’attesa che ci dia
tutte assieme la vita
le cose che crediamo di meritare.

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L’inflessibilità della lingua

Marianne Moore

MARIANNE MOORE, GLI ACULEI DELLA POESIA

 

Commento di Bianca Sorrentino

 

Visionaria e affilata, audace nella difesa strenua del metafisico, Marianne Moore dà voce all’esperienza universale ammantandola di mondi altri. Imperdonabile per la sua tensione verso la perfezione, la sua poesia è “meticolosa, speciosa, inflessibile”, nelle parole di Cristina Campo: nei bestiari che con accuratezza e fantasia allestisce, la scrittrice americana accorda un dialogo tra visibile e invisibile, senza mai cedere al ricatto della facilità. Fiero e inaccessibile, il suo “cantare vigoroso” si guadagna tra le miserie dei mortali uno spazio nobile di eternità.

 

POSSO, POTREI, DEVO

Se mi direte perché la palude
appare insuperabile,
allora vi dirò perché io credo
di poterla passare se ci provo.

 

I MAY, I MIGHT, I MUST

If you will tell me why the fen
appears impassable, I then
will tell you why I think that I
can get across it if I try. Continua a leggere

Le figure del mito in Ghiannis Ritsos

Ghiannis Ritsos

GHIANNIS RITSOS, QUARTA DIMENSIONE

commento di Bianca Sorrentino

Il fascino struggente della rovina, il passato che si sgretola e solo nel ricordo conserva il suo splendore, due donne che imbiancano, ma la cui nobiltà non avvizzisce. La Signora in Nero ed Elena, arcane figure del mito, rivivono in una Grecia muta e arrugginita; come fantasmi di una libertà lontana, le creature di Ritsos non rinunciano alle parole e travolgono con il loro dire l’interlocutore silenzioso, riscattando così quel gravoso tacere che la dittatura impone al poeta.

 

Estratto da LA SONATA AL CHIARO DI LUNA

Lasciami venire con te. Che luna stasera!
La luna è buona – non si vedrà
che si sono imbiancati i miei capelli. La luna
me li farà di nuovo biondi. Non te ne accorgerai.
Lasciami venire con te.

Con la luna ingrandiscono le ombre nella casa,
mani invisibili tirano le tende,
un dito pallido scrive sulla polvere del piano
parole dimenticate – non le voglio sentire. Taci.

Lasciami venire con te
poco piú avanti, fino al recinto del mattonificio,
fin dove la strada svolta e appare
la città d’aria e di cemento, calcinata dal chiaro di luna,
cosí indifferente e immateriale,
cosí positiva, quasi metafisica,
che puoi finalmente credere che esisti e non esisti
che non sei mai esistito, non è esistito il tempo con la sua rovina.
Lasciami venire con te.

Ci sederemo un poco sul muretto, sull’altura,
e rinfrescandoci al vento di primavera
forse immagineremo pure di volare,
perché spesso, e perfino ora, sento il fruscío della mia veste
che pare il battito di due ali forti,
e quando ti chiudi in questo rumore del volo
senti irrigidirsi il collo, i fianchi, la tua carne,
e cosí stretto nei muscoli del vento azzurro,
nei nervi robusti dell’altezza,
non ha importanza che tu parta o torni
né conta che i miei capelli siano bianchi,
(non è questo che mi dà pena – mi dà pena
che non mi s’imbianchi anche il cuore).
Lasciami venire con te.

Lo so, ciascuno cammina da solo verso l’amore,
solo verso la gloria e la morte.
Lo so. L’ho provato. Non giova a niente.
Lasciami venire con te.

Ghiannis Ritsos nella traduzione di Nicola Crocetti (Crocetti Editore, 2013) Continua a leggere

Il segno scarlatto dell’amore

Cristina Campo

CRISTINA CAMPO, PASSO D’ADDIO

commento di Bianca Sorrentino

Nel segno dell’attenzione e della grazia adamantina, la poesia di Cristina Campo è una danza lieve che accoglie le suggestioni fiabesche dell’Oriente e la lezione altissima del misticismo. Se l’assenza divora ogni cosa con la ferocia di una tigre, non resta che barattare l’amore con le parole, in un solenne e dignitoso autodafé del passato. Sulla soglia dell’essere, estranea e forse mai così coinvolta, l’imperdonabile poetessa ci insegna quali “colme presenze possa donarci un coraggioso distacco”.
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Millelibri, la prima libreria di poesia


di Bianca Sorrentino

A Bari la rivoluzione gentile si compie per mezzo dei versi: al di qua della ferrovia, in un quartiere popolare – San Pasquale –, tra botteghe che resistono e cinema abbandonati, in una strada che già nel nome svela aneliti eroici – Via dei Mille –, da un mese una piccola libreria indipendente intona il suo canto di libertà. Sugli scaffali di Millelibri i protagonisti sono i volumi di poesia, classici e contemporanei, antiche edizioni introvabili e pubblicazioni fresche di stampa, usati a basso costo e tirature pregiate; d’altro canto alla narrativa è dedicato uno spazio decisamente secondario. Da lettrice appassionata, Serena Di Lecce, ideatrice del progetto, ha così deciso di sopperire a una delle difficoltà con cui abitualmente si scontrano gli amanti dei versi: l’irreperibilità dei testi, legata a quella crudele – o forse presunta? – legge del mercato secondo cui la poesia non vende.

Perché allora non sovvertire lo schema, con l’audacia di un’operazione semplicissima? Probabilmente la poesia ha le carte in regola per vendere, se le si dà spazio e voce, se la si propone con cura e dedizione, come fa Serena, che evita gli snobismi e accoglie nei suoi altri mondi studenti più o meno giovani, incuriositi da questa terra di confine dal civico sbiadito – quasi che per giungervi sia necessario compiere una propria, personale odissea. Pur consapevole del rischio dell’impresa, la libraia si illumina mentre ripone sulla mensola del mobile appartenuto a suo nonno gli Epigrammi di Marziale, in un’edizione Guanda del ’75, e con ardore ripercorre la vicenda letteraria ed esistenziale di Ada Negri, illustre dimenticata. Per ogni volume Serena ha una storia da raccontare, dediche, autografi, lettere ripiegate che dicono di amori e di altre vite infilate tra le pagine di un libro.

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Le parole perdute dei pesci

Reading di Simone Di Biasio, Eva Laudace e Giuseppe Nibali, a cura di Bianca Sorrentino.

Roma, Casa Vuota (via Maia 12, int. 4A)
24 marzo 2018, ore 18:30

All’interno della mostra “Mar Nero” di Massimo Ruiu, curata da Francesco Paolo Del Re e Sabino de Nichilo e ospitata dal 17 febbraio al 31 marzo a Casa Vuota a Roma (via Maia 12 int. 4A), lo spazio espositivo del Quadraro apre le porte alla poesia, con una lettura a cura di Bianca Sorrentino. In una stanza disabitata, in cui risuonano solo le onde radio di chissà quali frequenze, sabato 24 marzo 2018 alle ore 18:30 i poeti Simone Di Biasio, Eva Laudace e Giuseppe Nibali, come flutti che si rincorrono, danno voce e parola alle infinite sfumature dell’oceano e dei suoi significati. Continua a leggere

Avrò mille ritorni e mille viaggi

Antonio Nazzaro

Prefazione di Bianca Sorrentino alla silloge inedita di Antonio Nazzaro Amore e dintorni

La solitudine degli altopiani, l’oceano spazzato dal vento e il corpo che si fa istinto: è questa la vita che si coglie nei versi di Antonio Nazzaro, al suo esordio come poeta. Amore e dintorni è una silloge che si contraddistingue per la voce dirompente e matura, cui fa da controcanto un pudore reverenziale – e, oserei dire, quasi fanciullesco – nei confronti dell’arte poetica. Di mille ritorni e mille viaggi si compone dunque l’esplorazione che l’autore ci propone nel territorio vasto e talvolta impervio dell’amore, con la sua verità e il suo sentire appassionato.

Il poeta celebra qui l’amore vorace e quello quotidiano, entrambi con lo stupore di chi guarda per la prima volta e già vede oltre, cogliendo la pregnanza dei gesti e accordando il proprio tempo al tempo dei respiri e dei baci. Immediati ed efficaci sono i fotogrammi che vengono evocati nella mente di chi legge: l’intimità del restare «seduti sul bordo / di questo marciapiede dell’altipiano / a guardare come le nuvole sono / auto celestiali a rubare il cielo»; la concretezza di una «città che non ha fine eppure si può toccare / ogni muro ogni asfalto sanno raccontare storie»; l’immaginazione di chi sostituisce «le biglie colorate / con parole che rotolano più lente».

La vista non è l’unica sfera sensoriale cui l’io poetante fa appello; ricorrente è il ricorso all’olfatto – richiamo evidente a Odore a, il libro di racconti e prose poetiche in cui Antonio Nazzaro rende omaggio alle sue due città, Torino e Caracas: gli odori si associano ai ricordi, ne amplificano i contorni e danno vita a un viluppo inestricabile grazie al quale l’esperienza vissuta acquista un significato ancor più profondo. Qui il profumo della pelle segna i confini dell’amore, si insinua laddove il profilo del sentimento diventa indefinito, garantisce la sospensione di un bacio «a pochi centimetri / dalla terra degli uomini» o di un’acrobazia che lancia gli amanti verso Orione, Saturno, Marte, oltre le galassie «per poi ricadere in un solo istante / qui / fra le lenzuola». Continua a leggere

Olimpia, il ventre sacro del mito

Luigia Sorrentino ph. GIanni Rollin

di Bianca Sorrentino

Alcuni luoghi custodiscono in sé un senso del sacro che li eleva dalla loro natura terrena: non fa eccezione la città di Olimpia, che, per via del nome etimologicamente legato al monte sede degli dèi, non poté mai essere disgiunta dal suo ruolo di centro di culto, tanto che nell’immaginario collettivo essa continua a essere pervasa da un’aura di spiritualità profondissima, nella grazia delle sue rovine. La traccia di questo mistero attraversa le pagine di Olimpia, il poema con il quale Luigia Sorrentino si fa soglia e accoglie verità che arrivano da un tempo altro, dal tempo prima dei giorni.
Così, da una Grecia che incessantemente sprigiona la sua forza antica e nello stupore rivela la sua contemporaneità, questi versi cristallini proiettano il lettore su un sentiero che, da un antro oscuro, conduce al bagliore che inonda chi riesce ad approdare a un nuovo orizzonte: viaggio che è dunque iniziazione e, insieme, serena accettazione dell’insolubilità di certi interrogativi che, tormentando furiosamente l’uomo, finiscono per ancorarlo alla sua dimensione mortale. Una sensibilità viscerale – che è simbolo del Femminile – permette a Luigia Sorrentino di accarezzare le eterne questioni dell’umano; ma è la sua qualità di autrice che le consente di trascendere i temi su un piano più alto, nella ricerca di una lingua raffinata, inattuale, che al contempo risuoni nella sua naturalezza: le parole di Olimpia – donna e città, bianca e altissima – non ammettono repliche, sono figlie della poesia irrevocabile dei tragici greci, che come nessun altro seppero dar voce al mito.

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Eliot, le parole si muovono soltanto nel tempo

di Bianca Sorrentino

Tempo, eterna ossessione dell’uomo; inafferrabile, rivelatore, impietoso per chi fa i conti con la propria caduca, mortale esistenza. «Tempo» è anche la parola con cui T.S. Eliot sceglie di aprire i suoi Quattro quartetti, dopo aver dimostrato nel suo capolavoro, The Waste Land (1922), quanto la Poesia costituisca un fluire ininterrotto, rispetto al quale le contingenze hanno ben poco potere; con un approccio rivoluzionario, in un momento desolante sia per le vicende di portata epocale sia per alcune circostanze private, l’autore, novello rapsodo, aveva cucito tra loro versi provenienti da culture e secoli lontani, dando vita a un canto nuovo eppure ancestrale, un respiro all’unisono in cui la Filomela di Ovidio avrebbe potuto condividere con l’Ofelia shakespeariana il suo destino di vittima, un prodigio letterario per il quale Tiresia, l’indovino della classicità, avrebbe saputo parlare al Novecento in virtù di quella forza che accomuna il mito alla poesia, la capacità di trascendere i confini spazio-temporali.

Questa universalità, documentata empiricamente ne La terra desolata proprio attraverso l’applicazione del metodo mitico – in base al quale il mŷthos diviene cioè paradigma per il presente –, nei Four Quartets viene indagata attraverso una meditazione altissima e rarefatta. Le passeggiate nella campagna inglese, lontana dalla polvere sotto la quale giace la capitale in guerra, forniscono l’occasione al poeta per riflettere sul senso della memoria, della ciclicità, del concetto di principio che finisce per compenetrarsi con quello di fine. Non è raro che in questo cammino gli elementi del paesaggio siano figura dei moti dell’animo, segnato nel profondo e reso consapevole dallo scorrere del tempo: si tratta di versi frutto di un’età matura, per di più limati nel corso di sette, lunghi anni (1936-1942), durante i quali la strada è riuscita a levigare le asperità di certe visioni. Così, in uno slancio di rinnovata fiducia e riscoperto senso del sacro, gli occhi si posano su un’arcana primavera invernale, un palpito di vita che ancora resiste dentro i ghiacci.

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Bianca Sorrentino, “Sempre verso Itaca”

Bianca Sorrentino

Giovedì 7 dicembre alle ore 21 a Roma, presso la Libreria Caffè letterario Mangiaparole (Via Manlio Capitolino, 7/9), presentazione del nuovo libro di Bianca Sorrentino, “Sempre verso Itaca. Itinerari tra mito e riletture contemporanee” (Stilo Editrice).

Dialoga con l’autrice Simone Di Biasio, giornalista e poeta.

IL LIBRO. Questo vivace dialogo tra pagine del mito classico e riletture contemporanee indaga il rapporto tra il tormento lacerante e la conoscenza, esplorandolo attraverso le sue molteplici accezioni: il viaggio, con Ulisse come archetipo di colui che «a lungo errò» e «molti dolori patì»; la memoria, con Enea che a caro prezzo paga la promessa di rifondare la casa perduta; la verità, con Edipo, che solo quando si acceca riesce a vedere; la poesia, con Orfeo, che discende nel nulla e canta la vita; il lutto, con Elettra come testimone della ferocia e incubatrice d’odio; la ricerca di senso, con Filottete che attraverso l’esperienza dell’alienazione comprende il significato delle sue ferite, e la ricerca di una via, con Dedalo che nella prigionia impara a desiderare la libertà. Al lettore resta un’immaginifica suggestione di leggerezza, che soffia via la polvere dagli occhi e con un tocco di gentilezza chiarisce lo sguardo.
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Golan Haji & Joumana Haddad

Quando l’esilio diviene un canto
di Bianca Sorrentino

Se la Poesia interviene laddove la realtà fallisce, la Musica dà voce all’inespresso dell’anima: le due arti, riunite sotto una felice congiuntura, hanno il potere di richiamarci esortandoci a essere cittadini del nostro tempo, contemporanei a noi stessi. Proprio dall’urgenza di veicolare un messaggio di attenzione, di tensione verso ciò che accade in luoghi apparentemente lontani nasce “Canti d’Esilio”, il concerto che avrà luogo lunedì 15 maggio alle 21 al Teatro Vascello di Roma. La pregnanza del progetto consiste nella sua stringente attualità, nella scelta ardimentosa e insieme necessaria di musicare i potenti versi di Golan Haji e Joumana Haddad – patologo e traduttore curdo siriano, il primo, giornalista libanese, la seconda -, che attraverso la letteratura conducono la loro personale battaglia in nome di chi vive “con la terra strappata dal petto”. Continua a leggere

« Vedendomi scritta sui muri »

AMELIA ROSSELLI Credits ph. Dino Ignani

di Bianca Sorrentino

«Ho distolto ogni luce / sdrammatizzo la tua primavera / (…). Vedendomi scritta sui muri / varcai l’isolotto»: in questo marzo tanto luminoso da lasciar presagire stagioni nuove e senza drammi, continuano gli appuntamenti di “Credo soltanto nelle parole”, l’iniziativa che una volta al mese riempie di poesia la Libreria Zaum di Bari. Dopo i primi due eventi notevolmente partecipati, dedicati rispettivamente alle voci di Pier Paolo Pasolini e di Cristina Campo, mercoledì 15 marzo alle 18.30 sarà la volta di Amelia Rosselli e del suo inferno tessuto da mani perfette. Dal momento che la bellezza, come la Cleopatra shakespeariana, rende affamati quanto più soddisfa, il ciclo di incontri continuerà e il 12 aprile ci interrogheremo con Mario Luzi sulla verità del mondo. Continua a leggere

Cristina Campo, assenze e passi d’addio

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Cristina Campo

T’ho barattato, amore, con le parole

di Bianca Sorrentino

A gennaio Pier Paolo Pasolini ci ha ricordato che l’amare conta solo al presente; a febbraio prosegue “Credo soltanto nelle parole”, il ciclo di incontri sulla poesia italiana novecentesca curato da Bianca Sorrentino, in collaborazione con la Libreria Zaum (Via  Cardassi , 85/87) a Bari: al centro dell’evento del 15 febbraio alle 18.30 saranno i versi diafani e altissimi di Cristina Campo, che con la grazia della leggerezza ci racconta di assenze e passi d’addio e ci insegna la danza del saper lasciar andare. Per il 15 marzo è prevista un’inversione di rotta con la voce dirompente di Amelia Rosselli, che dà un nome alle nostre lacerazioni e ai fantasmi che ci attanagliano. Continua a leggere

“Credo soltanto nelle parole”

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Pier Paolo Pasolini

Nota di Bianca Sorrentino

«Io credo soltanto nella parola. La parola ferisce, la parola convince, la parola placa. Questo, per me, è il senso dello scrivere»: così recita l’aforisma di Ennio Flaiano cui si ispira il titolo del ciclo di incontri sulla poesia italiana del ’900 che si terrà a Bari, a partire da gennaio, presso la Libreria Zaum, piccolo scrigno di bellezza, terreno fecondo in cui germogliano iniziative originali e di spessore.

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Bianca Sorrentino, “Mito classico e poeti del ’900”

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“La forza del suo lavoro è nella grande leggibilità, nella grazia con cui sa essere accessibile e profonda.” (Isabella Leardini)

 

Dalla nota di Rosita Copioli

Mito classico e poeti del ’900 è un libro scritto con eleganza (di stile, di lingua) intorno a un ricco nucleo di miti, l’attenzione fissa al presente. Una mente lucida va alle fonti greche e latine: Esiodo, Omero, i tragici (Eschilo, Sofocle, Euripide), Catullo, Virgilio, Lucrezio, Ovidio, Seneca. Non considera solo i miti più noti, ma anche i meno frequentati e laterali. Continua a leggere