Enrico Fraccacreta, “I cigni neri”

Racconta che era venuto al mondo
con le prime luci delle lampade cimiteriali,
si era dimenticato dell’infanzia
delle voragini dentro casa,
il sole che si eclissava dietro i vicoli
sparito, remoto in lontananza
era l’alba dei suoi sotterranei.
Un sole che non muore mai
un pulviscolo pieno di troppe informazioni
confuse, affollate nella testa
impedivano la giusta direzione del raggio netto
per rispondere alla sua ragazza
impegnata dall’altra parte del mondo
a parlare con la luna.
Ecco perché pur volendoci bene
non ci siamo mai incontrati,
dice Antonio mentre innestiamo i cedri,
lo spacco sulla gemma laterale
una mano col coltello per aria
e l’altra che trema sulla corteccia nuda.

*

Adesso nel giardino le file sono diventate quattro,
lì in mezzo ripassava la vita degli insetti
pezzi di botanica sistematica che estrae dalla memoria
mentre risponde alla domanda sulla storia evolutiva
una storia che comincia con le alghe e i licheni,
non vuole commettere l’errore delle felci
mai adattate per la dipendenza dall’acqua,
lui vuole diventare come i ranuncoli
che stanno dappertutto nel paesaggio
e la terra per loro è un’officina
dove si forgiano altre specie
per nuovi ambienti da conquistare.
Ma inciampa per un attimo sulla campanula garganica
e la sua compagna di colori, l’orchidea quadripuntata,
rammenta che la spinacristi è l’unico arbusto
rispettato dalle bestie.
Nell’atteso mattino dell’esame il futuro resta presente
e parla immaginando gli amici del giardino.
Lì hanno tutti quasi smesso di respirare,
la farfalla nera gennarino è in preghiera
con le ali chiuse
ondeggia sulla clivia che ha interrotto la fioritura,
insieme aspettano il verdetto
stretti e incombenti sull’unico straniero
il ginepro fenicio portato dalla baia di Manacore.
Attendono in silenzio il gioioso ingresso
il cancello in fondo aperto verso le grandi euforbie
l’origine, le eroiche colonizzatrici della terraferma
le prime piante della vittoria.

*

A marzo sottoterra si organizzano
rizomi e stolonifere, spingono
dietro le gallerie delle talpe,
il cardo selvatico avrebbe fatto inciampare i soldati,
il respiro dell’alisso da quando sei arrivato
serve come il glicine d’aprile
a risvegliare il mondo
e le grandi corolle dei girasoli
voltate dietro te come telegrafi di terra
per dire quello che non sapemmo dirci
tutte le volte che i cuori non corsero abbastanza
e non fummo sorpresi dall’aroma
della tua misericordia.

La primula è la più ansiosa
è da febbraio che ti saluta,
i fiori nei mandorleti azzardano la schiusa
tra le ferite delle valli mezzo innevate.
Nel tempo dell’attesa
pure l’albero di Giuda con la fretta
fiorisce sui rami prima delle foglie.
Da quando sei arrivato
è il terzo millennio da queste parti,
settecentomila inizi di primavere
vogliono ancora salutarti. Continua a leggere

Alberto Russo Previtali, l’ultimo Zanzotto

ANTEPRIMA EDITORIALE 

 

Il centenario della nascita di Andrea Zanzotto si pone come un tempo propizio per capire la sua presenza nella contemporaneità. Da qui il progetto di una raccolta di saggi, Le estreme tracce del sublime, Studi sull’ultimo Zanzotto a cura di Alberto Russo Previtali, (Mimesis, 2021) offre una descrizione e un’interpretazione degli aspetti più rilevanti degli ultimi libri, nel tentativo di cogliere la preziosa eredità poetica ed etica di cui sono portatori.

Studi sull’ultimo Zanzotto
Giorgia Bongiorno, Matteo Giancotti, Massimo Natale, Jean Nimis, Giuliana Nuvoli, Alberto Russo Previtali, Luca Stefanelli, Luigi Tassoni.

 

INTRODUZIONE
di Alberto Russo Previtali

Nella sua ultima produzione poetica, iniziata con la pubblicazione di Meteo nel 1996, e sviluppatasi compiutamente con Sovrimpressioni nel 2001 e Conglomerati nel 2009 (senza dimenticare gli Haiku for a season del 2012), Andrea Zanzotto ha confermato e approfondito le conquiste stilistiche e conoscitive più mature della sua poesia, quelle che gli hanno assegnato una centralità indiscussa nella letteratura italiana ed europea del Novecento. Ma in quest’ultima fase del suo percorso Zanzotto è andato oltre quelle conquiste, spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, il lettore “versato nel duemila” (Zanzotto) sente tutta la prossimità di questa seconda pseudo-trilogia, in cui pulsa un senso prezioso e veritiero sulla condizione dell’uomo contemporaneo, immerso in una realtà sempre più pletorica, attraversata dall’insensatezza e dalla minaccia di forze autodistruttive fuori controllo.

Negli ultimi anni sono fioriti numerosi studi importanti e approfonditi su quest’ultima parte del percorso zanzottiano, ma il sapere critico prodotto su di essa non è ancora comparabile a quello che interessa le fasi precedenti. Inoltre, l’edizione delle Poesie e prose scelte nella collana “I Meridiani” di Mondadori ha fissato in anticipo l’opera di Zanzotto, escludendo dalla sistemazione organica e dal commento capillare gli ultimi libri. Ciò ha reso a posteriori parziale la collocazione di Meteo, la cui lettura critica può dispiegarsi in modo fecondo soltanto in seno alla prospettiva unitaria della pseudo-trilogia. La pubblicazione dell’edizione Tutte le poesie negli Oscar ha colmato solo in parte queste lacune, offrendo una ricostruzione soltanto introduttiva dell’ultima produzione, della quale molto resta da esplorare, comprendere, analizzare, interpretare. Ecco perché il presentarsi all’orizzonte del centenario della nascita di Zanzotto, che coincide con il decennale della sua scomparsa, è stato sentito da alcuni studiosi come un tempo propizio per uno studio approfondito della fase finale del suo itinerario. Da questo comune sentire, da questa condivisa passione critica, è nato il progetto di questa monografia collettiva, in cui delle voci riconosciute della critica zanzottiana si misurano con la vivissima densità e con la profonda attualità degli ultimi libri del poeta.

Dire “centenario della nascita”, “decennale della morte”, insistere su questi ritorni di date, non significa, non deve significare, scadere nell’ufficialità delle celebrazioni, farsi aspirare dalla logica burocratica delle rimemorazioni retoriche, quelle di cui Zanzotto si è fatto beffe in modo insuperabile ne Il Galateo in Bosco. Farsi coinvolgere nel circolo delle date è un modo di entrare nello spazio più proprio della poesia, la quale è sempre impegnata nella scrittura impossibile di ciò che accade una sola volta. È la data che Paul Celan fa risuonare ne Il Meridiano, quel “20 gennaio” ripreso dall’incipit del Lenz di Büchner (“Il 20 gennaio Lenz attraversò la montagna”) e portato nella singolarità di ogni testo poetico: “Forse si può dire che in ogni testo poetico rimane inscritto il suo 20 gennaio?”[1]. La data del “20 gennaio” è per Celan un nome del trauma, della sua innominabilità, poiché fu il 20 gennaio del 1942 che Hitler e i suoi collaboratori, nella conferenza di Wannsee, programmarono definitivamente “la soluzione finale della questione ebraica”, in cui persero la vita i genitori del poeta. Di questo modo di ritornare della data, Jacques Derrida, come lettore di Celan, ha messo in luce il carattere ambivalente, singolare e universale, legato alla sua doppiezza strutturale e inconciliabile: da un lato l’unicità dell’evento, la sua insostituibilità, e dall’altro l’anello della ripetizione che la minaccia[2].

L’accoglienza di questo ritorno della data come traccia di un’unicità traumatica emerge in diversi punti dell’itinerario di Zanzotto, e nel modo più intenso in quel testo-ómphalos che è Microfilm, in cui le cifre del dieci ottobre, 10 10, compleanno del poeta e giorno in cui, nel 1963, egli venne a conoscenza dei tragici fatti della strage del Vajont, si trasfigurano negli elementi elementari della scrittura (I O), combinandosi in significanti in cui la tensione tra particolarità del trauma e spinta alla comunicatività universale raggiunge la sua massima apertura. Particolarmente significativi e istruttivi sono anche i componimenti che esplorano poeticamente la ricorrenza del 25 aprile, Verso il 25 aprile in Idioma e Altro 25 aprile in Conglomerati. Nella loro diversità essi mostrano un modo poetico comune di confrontarsi con un anniversario: porsi in ascolto delle istanze sepolte che giacciono in esso, far rivivere il desiderio di uomini scomparsi che si è cristallizzato nell’unicità della data, e che in essa continua a pulsare come segreto, parola muta e sacra, alla quale solo un lettore, ovvero colui che raccoglie, può ancora dare voce.

È dunque a partire dall’insegnamento stesso del poeta, dal suo modo di abitare l’anniversario, che gli interpreti qui riuniti hanno voluto onorare il centenario della sua nascita, cercando di raccogliere nel modo più consono e fecondo la parola dei suoi ultimi libri. Il primo effetto di questo posizionamento è l’emersione del carattere estremo, in tutti i sensi del termine, dell’esperienza dell’ultimo Zanzotto rispetto alle fasi precedenti del suo percorso esistenziale e poetico. Gli aspetti apocalittici e testamentari di questa produzione, sempre sospesi tra l’esperienza privatissima e la spinta insopprimibile della passione civile, non possono che far pensare all’intero percorso poetico-biografico del poeta, al quale, per “privilegio d’anagrafe” – come suggerisce il Benandante Pasolini[3] – è toccato di assistere alla fine di un tempo storico, alla distruzione del paesaggio, alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime. Continua a leggere

Cesare Pavese, tre poesie

Cesare Pavese, Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950

TU SEI COME UNA TERRA

Tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
C’è un vento che ti giunge.
Cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell’estate.

29 ottobre 1945

TU NON SAI LE COLLINE

Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

9 novembre 1945

E ALLORA NOI VILI

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto ‒
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu piú dolcezza,
non fu piú abbandonarsi
al sentiero sul fiume ‒
‒ non piú servi, sapemmo
di essere soli e vivi.

23 novembre 1945 Continua a leggere

Giannino di Lieto, “Il gesto antico e nuovo della lingua”

Giannino di Lieto

LA LINGUA INQUIETA E LA LINGUA DI UN POPOLO

 IDA TRAVI

Nel Breviario inutile, supplemento a “L’Ortica” del marzo 2003, al secondo paragrafo, titolato Della Comunicazione, Giannino di Lieto scrive: “Una Società di parlanti è attraversata da una ragnatela o intersezioni, le Società di Discorso. La configurazione di una Società di Discorso è circolare, quindi fondamentalmente chiusa”.

La lingua del discorso sembra vincente, sembra unificante solo perché è chiusa.

C’è molto di costrittivo nel suo unificare, c’è una perdita di libertà nel Discorso pubblico.
C’è una finzione. Passare attraverso il discorso pubblico, senza il coraggio della
poesia, vuol dire uscirne spellati.

La Società di Discorso chiude, non lascia parlare; la scrittura di questa Società di
Discorso
zittisce l’altro. Ecco allora che la parola poetica si ribella, forza il Discorso
chiuso, e all’improvviso apre un varco, sia nel passato che nel futuro.

Il varco è in realtà uno spiazzo millenario nel quale irrompono le civiltà che forse dormono, ma non sono ancora estinte. Dormono accanto a un futuro prossimo senza tempo.

Nello spiazzo millenario, se pur frantumato e scaduto, si fa vivo un essere antico, che mostrandosi come nuovo, riemerge dalle tempestose acque della storia.

Nessuno può sapere in che rapporto sta con l’ombra. Questa è cosa che non si può dire, ma solo poeticamente indicare, come farebbe un bambino col dito teso, come farebbe un muto indicando qualcosa di “profeticamente” accaduto.

Il tempo della capra
quando si munge piegati sul ginocchio
era uno spiazzo estivo,
ombra in corsa d’acqua
la fatica saltellante negli squadri cavi
graffiare del naufrago le mani
povere piante
come d’antico vivere:
il grido si è spellato sulla bocca.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Giochi verticali”, p. 31)

Indicare poeticamente (silenziosamente) è un gesto antico e nuovo insieme. È gesto antico e nuovo in ogni lingua, in ogni civiltà. Questo gesto poetico racchiude un silenzio che si salva anche nella parola pronunciata. E un silenzio sonoro unisce contemporaneamente ciò che sta fuori – all’aperto – e ciò che batte – dentro – con il pendolo, al muro della nostra casa.

Vivere in punta:
se l’alba brucia i boccoli dell’aria
come bolle scoppiano i tempi iridescenti
oscilla fra muri
un pendolo d’incenso
nella moltiplicazione
l’anima è riflessa in fuga d’oro.

Giannino di Lieto, Indecifrabile perché (“Un pendolo”, p. 41)

Questo interno, in cui l’anima si mette in fuga d’oro, è simile allo spiazzo estivo in cui campeggia “l’ombra in corsa d’acqua, quando si munge piegati sul ginocchio”: siamo in quell’interno-esterno in cui il mondo non può coincidere coi suoi nomi e con la voce di chi quei nomi chiama. Eppure coincide con il gesto silenzioso di chi le cose addita, il sempre vivo, il minacciato che non muore mai, venuto allo spiazzo a scompaginare la quiete.

Siamo in quell’interno esterno-esterno dove si parla la lingua dei vecchi e dei bambini. La lingua d’un popolo. Quella non scritta. La lingua prima. La lingua del corpo-voce che nomina il mondo come se fosse la prima volta che appare. La lingua materna. Giannino di Lieto riparte da questa prima lingua, e la scavalca. Continua a leggere