Vivian Lamarque, “Il signore d’oro”

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

Torna in libreria dopo 34 anni “Il signore d’oro” di Vivian Lamarque, stampato per la prima volta da Nicola Crocetti nel 1986 e ristampato nell’ottobre del 2020 nelle nuove collezioni di poesia Feltrinelli/Crocetti.

In anteprima vi proponiamo il testo di Vivian Lamarque che apre la ristampa.

QUANTO HA DOVUTO LAVORARE IL MIO DOTTORE

DI VIVIAN LAMARQUE

Il signore di fronte

Era un signore seduto di fronte a una signora seduta di fronte a lui.
Alla loro destra sinistra c’era una finestra
alla loro sinistra destra c’era una porta.
Non c’erano specchi eppure in quella stanza
profondamente ci si specchiava”.

Sono passati quasi quattro decenni. Tutto era iniziato ( finito mai) il 14 febbraio del 1984, avevo 38 anni.
Da anni sentivo forte necessità di un soccorso, alcuni amici poeti mi consigliavano un’analisi lacaniana, altri una junghiana.
Nel dubbio le iniziai tutte due, antico vizio.
Il dottore lacaniano aveva studio nel centro di Milano, sotto prestigiosi portici. Strano, da quella lussuosa portineria usciva quel giorno il plebeo odore buono di certi minestroni che si mangiano da bambini, salii di corsa, emozionata, credo che la mia prima parola al celebre lacaniano sia stata minestrone.

Il dottore junghiano aveva studio quattro gradini sotto il livello stradale, in un bel palazzo vicino alla Rai di Corso Sempione, con tutte quelle antenne, quelle grandi orecchie. Nessuno stava cucinando niente, credo che le prime o seconde parole siano state se Lei muore da chi vado?

La prima seduta lacaniana era durata meno di 30 minuti, non avevo fatto in tempo neppure a nominarli tutti quei miei svariati genitori che lui aveva detto può bastare.
La prima seduta junghiana dal Dott. B.M. ne durò 90. Riuscii a elencargli non solo tutte quante le figure genitoriali comparse sulla scena, ci fu addirittura tempo anche per le loro scomparse (3 su 4 al compimento del mio quarto anno di vita ).
Da lui mi aveva indirizzata la sua collega del Cipa Dott. Faretra (“astuccio per conservare sul dorso le frecce”) e la freccia del transfert scoccò con una velocità inaudita. Non c’era dubbio che mi avrebbe sposata, anche se forse non subito.

Splendidissima era la vita accanto a lui sognata.
Nel sogno tra tutte prediletta la chiamava.
Enellarealtà?
La realtà non c’ era, era abdicata.
Splendidissima regnava la vita immaginata.

Abdicata da decenni: “con una bianca gomma / aveva cancellato l’inutile linea di confine”. A 10 anni giravo per cimiteri ebraici alla ricerca di nomi della mia famiglia d’origine, “ma errore, confondeva persecuzione e paese, i suoi avi giacevano dissanguati e quieti / in terra valdese”. A quindici credevo che una mia prof fosse mia consanguinea e scrivevo nel diario “oggi mi ha dato 4 (per non fare differenza con le altre)…. oggi mi ha dato 7 (la voce del sangue è stata più forte)”..

Quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore! Non ve lo potete immaginare.
Anch’io però ce la mettevo tutta. Per meritare di essere sposata.
Manterrò in queste righe un tono lieve (“la mia superficie è felice /
ma venga venga a vedere / sotto la vernice”), ma è stata un’analisi drammatica e potente, ottovolante di sapienti accoglienze e rifiuti.

I mesi passavano, la mia mano non veniva richiesta. Per la mia testa abdicata, che il mio Dottore fosse già felicemente coniugato e con figlia contava zero di zero (io da mio marito Paolo Lamarque – che sempre mi incoraggiò a scrivere – ero separata, benché conservatrice abusiva del bel cognome, ). Infine capii: questione di deontologia, ero sua paziente, bastava non esserlo più, conclusi dall’oggi al domani l’analisi e iniziai un’euforica attesa.
Attendendo, disegnai come avrei trasformato il suo studio composto da sala d’attesa, stanza d’analisi, doppio corridoio, cucinetta e servizi (con un davanzale sul quale avrei messo dei gerani). Tra l’altro, che comodità, mia figlia Miryam frequentava il Liceo Classico Beccaria che era proprio a venti passi da lì. Aspettavo fiduciosa di essere chiesta in sposa, ma niente. Infine mi decisi a tornare all’ovile. Per nulla arresa però.

Quanto ha dovuto lavorare il mio Dottore. Quanto? Come avrà fatto a portarmi un giorno finalmente a scrivere Credevo non mi amasse / perché è vietato / invece forse non mi ama / perché non è innamorato?
Era la realtà che si era affacciata, ma per un solo istante, poi si era di nuovo ritirata. Da decenni ero un castello in aria vivente, ma con fondamenta di cemento armato.
Da dove mi veniva quella inscalfibile tenacia? Che per caso fosse per me questione di vita o di morte?

Forse un po’ in allarme, un giorno il mio Dottore riuscì a farmi dare un’occhiata da un suo collega psichiatra, non si sa mai. Credo l’abbia tranquillizzato: NON ERO UN’ALDA MERINI, UN POCO MENO.

(qui sotto non riesco a dimezzare l’interlinea)

Il signore d’oro nacque da un divieto. Tra la seduta del martedì e quella del venerdì e viceversa, scrivevo al mio Dottore km e km di lettere. Dopo un periodo di sua illimitata accoglienza, un giorno, semisommerso, mi chiese di non superare le quattro pagine (otto a settimana). Seguì un breve periodo di grafia mia minutissima, infine ubbidii. Le parole rimaste chiuse fuori assunsero forma di brevi prose poetiche, finirono in una cartellina, fogli su fogli che intitolai il signore d’oro, il signore gentile, il signore mai, il signore intoccabile, il signore loden, il signore usignolo, il signore neve, il signore rapito ecc. ecc.
Quando giunsi al duecentesimo Signore, Giovanni Raboni mi consigliò di proporli a Nicola Crocetti. Crocetti rispose sì, per la sua collana Aryballos, ero felice, scelsi 80 signori, gli altri 120 rimasero nella cartellina.
Selezione discutibile, fatta con secondi fini amorosi, per esempio avevo scartato Il signore di fronte ( con cui invece ho aperto qui sopra) che considerai sbiadito, poco efficace, per aprire invece con Era un signore bello e meraviglioso, con maggiori probabilità seduttive.
Il signore di fronte, con altri 40 della cartellina, nel 1992 confluirà, prefato da Giovanni Giudici, ne Il Signore degli spaventati, sottile librino per un cofanetto a 4 delle edizioni Pegaso (con Gabriella Sica, Mario Tobino, Antonio Delfini) curato da Manlio Cancogni. Ma spaventati chi? Noi pazienti dalle nostre ombre, o spaventati anche gli Analisti da noi pazienti? Si apriva con

Il signore nel cuore

Le era entrato nel cuore.
Passando dalla strada degli occhi e delle orecchie
le era entrato nel cuore.
E lì cosa faceva?
Stava.
Abitava il suo cuore come una casa.

Quanto ha lavorato. Ne è dimostrazione, per esempio, un autoritratto mio di inizio analisi. Benché assediato da montagne di lettere, poesie, fiabe, sogni, un bel giorno il Dottore mi chiese se avessi mai disegnato. No, mai. Mi invitò a farlo, naturalmente non me lo feci ripetere!
Ulteriore forma di invasione cartacea per lui, ma con un’enorme differenza: nei disegni ero totalmente scoperta, a nudo, non c’era la padronanza della penna a soccorrermi, usavo le matite come l’alfabeto un’analfabeta.

Nell’autoritratto, fatto di getto XXXXXXX c’era zero corpo, quanto alla testa non era una testa ma un castello in aria, turrita la fronte, gli occhi e il naso, orecchie zero, bocca quasi idem. In più c’erano una cicatrice sulla fronte e di vedetta sulla testa una sentinella con fucile. Ero così inconsapevole, da dire, consegnando il foglio, c’è anche una sentinella, non so perché.
Un giorno disegnai anche il suo studio sotto il livello stradale di quattro gradini che nel 2002 diventò copertina del mio Oscar di Poesie. Quante ore ho passato fuori da quello studio, specie verso sera per vederne la luce accesa.

Abitava il suo cuore come una casa”. E la abita tuttora, anno 2020, io 74enne e il Dott. B.M. 86enne. Ha ancora molti pazienti, gli auguro meno indisciplinati di me ( con il caldo non poteva lasciare il finestrino dell’auto abbassato che gli infilavo fogli, foglie, anche golie per la gola, di tutto; nel cestino della sua bicicletta Holland sacchetti di pane e noci (perché dice il proverbio pan e nus mangià de spus), e poi fiori e frutti del mio giardino ecc.; sul suo zerbino idem.

Quel giorno del 1984 ero giunta a pezzettini, il mio Dottore mi aveva rammendata tutta, alternando interventi con anestesia ad altri senza. Grazie alla sua guida ferma sono riuscita a scalare l’Everest: splendidissima, circa splendidissima, mi regna oggi la realtà, non che la vita immaginata sia scomparsa, ci mancherebbe, ma non è più lei il re.

PS. L’analisi nuoce alla creatività? Durante l’analisi ho scritto quattro libri di poesie e decine di fiabe. Dopo l’analisi ho scritto Madre d’inverno e ora sto terminando L’amore da vecchia (per innamorati che però non lo sanno che li ho amati, non glielo ho mai detto).

VIVIAN LAMARQUE nata a Tesero (Trento) nel 1946, è sempre vissuta a Milano dove ha insegnato italiano agli stranieri e letteratura in istituti privati. Ha pubblicato “Teresino” (1981), “Il signore d’oro” (1986, tradotto in lingua inglese nel 2017, The golden man), “Poesie dando del lei” (1989), “Il signore degli spaventati” (1992), “Una quieta polvere” (1996). Nel 2002 la sua opera poetica è stata raccolta nell’Oscar “Poesie 1972-2002” con una fitta sezione di inediti; “Poesie per un gatto” (2007), “La Gentilèssa” (2009), “Madre d’inverno” (2016);

Tra i premi: il Viareggio Opera Prima (1981), il Montale (1993), il Pen Club, il San Pellegrino e l’Alghero Donna (1996), il Camaiore (2003), l’Elsa Morante (2005), il Cardarelli Tarquinia e l’Ostia Antica (2006), l’Ambrogino d’oro (2008), l’Alda Merini (2013), il Giuseppe Tirinnanzi alla Carriera (2014); il Carducci, il Bodini e il Metauro (2016), il Pontedilegno, il Bagutta , il Raffaele Crovi (2017), il Cetona (2018).

E’ anche autrice di una quarantina di fiabe tradotte in varie lingue (Premio Rodari 1997, Andersen 2000, Storia di Natale 2015) e delle raccolte “Poesie di Ghiaccio” e “Poesie della Notte”.
Ha tradotto, tra gli altri, Valéry, Baudelaire, La Fontaine.
Nel 2013 è uscito “Gentilmente Milano”, selezione di suoi articoli sul Corriere della Sera.

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