Intervista a Mario De Santis

Nello scaffale, Mario De Santis
a cura di Luigia Sorrentino

“La polvere nell’acqua” di Mario De Santis (Crocetti, 2012) ha in esergo un verso di Paul Celan, “Vi è un’ora che fa della polvere il tuo seguito”. Siamo di fronte a un’opera fluttuante, liquida, che cerca di disegnare una forma poetica, che si muove tra realismo e visione per disegnare la Storia, il paesaggio, della nostra epoca.

Intervista di Luigia Sorrentino
24 febbraio 2013

Mario De Santis qual è l’ora che fa della polvere il nostro seguito?

“L’ora della consapevolezza estrema, dello squarcio disperato che la storia ci ha consegnato ed è quella di un taglio dei ponti sia con il passato che con il futuro. Celan, che alla polvere non poteva guardare solo come metafora, avendo egli nella polvere dei forni perso la sua storia personale e biologica, ne rifà metafora di una polvere che resta polvere, osservando il proprio futuro come polvere, ovvero ciò che sarebbe seguito e a cui nessun alito divino poteva ridare vita. Per me un presente dilatato di questa fase di 900 terminale e di inizio del XXI secolo in cui stiamo alla Storia come ci può stare l’orfano senza genealogia e senza futuro.”

La prima sezione del libro, “L’acqua non ha centro”, è introdotta da una terzina di Dante che dà, dopo l’ora che fa della polvere in nostro seguito, la contro-misura, lo spazio e il tempo entro cui l’intera raccolta di versi si muoverà: l’acqua e la polvere. Due essenze dell’umano, due lacrime che scendono “dallo stesso occhio,| che si baciano, due gocce| che non sanno di vivere nella stessa pioggia” […] come si legge nell’incipit, nella prima poesia della raccolta. E’ così?

“Continuando nell’uso non solo di due elementi primari dell’umano ma anche nell’uso di due metafore primarie e archetipiche volevo sottolineare non un richiamo alle radici, ma una condizione postuma di chi deve ridefinire tutte le proprie categorie in uno spaesamento. La prima delle categorie per uno scrittore e per un poeta è proprio il dualismo che è insito nell’uso del linguaggio che si modifica continuamente, metaforizza tutto e non ha più nessuna speranza di poter alludere ad un senso, di essere riferimento ad una lichtung come molti filosofi hanno sperato di scorgere, sulla scorta di Heidegger, nella porsia, una luce che compare ad un certo punto del sentiero nel bosco dell’esistenza. La lirica, la poesia si ritrova insomma ad un ground zero radicale di estrema consapevolezza ma anche di estrema impossibilità. Le due lacrime in quella poesia infatti poi mutano in bolle di vetro di clessidra che misura il tempo e non a caso nella clessidra a misurare il tempo c’è la polvere. Potremmo aggiungere che il movimento è duale ella clessidra. Io cerco di rompere questo spazio, questo orto chiuso, un mise en abyme della metafora, e tenere lo sguardo sulla polvere vera che soffia fuori negli spazi aperti del nostro paesaggio storico.”

“L’acqua non ha centro”. Sul pelo dell’acqua si deposita una polvere sottile, che ferma solo per qualche istante un’immagine, un movimento, che si scomporrà, fino a disciogliersi del tutto. Il suo movimento poetico quindi il movimento dell’acqua in un vaso rotondo, riprendendo la terzina dantesca che introduce la prima sezione, avrà un andamento diverso: “dal centro al cerchio e dal cerchio al centro”, a seconda di come sarà percosso, fuori o dentro. Lei qui vuole dirci che è necessario andare fino in fondo, che è necessario cercare sempre un’altra verità per capire il movimento dell’acqua?

“Non un’altra verità che sta in un altrove, ma un’altra forma delle stesse cose del mondo. La polvere che è scarto se la si getta in acqua per un momento galleggia e si compatta. Per quel momento sembra una cosa e non quella dispersione invisibile che era. La nostra vita è spesso dispersione, io spero sempre che la poesia raccolga le cose più infime o invisibili e mettendole assieme per un momento ci renda consapevoli che quella polvere è anche un segno di tempo vissuto. Mi interessa una riflessione sulle tracce del tempo vissuto che vanno viste con sguardo diverso perché da questo sguardo traiamo la nostra verità, che è sempre storia, tempo.”

De Santis lei scrive nell’incipit che “In principio il giorno ha la memoria di una farfalla\ è l’ostaggio di un’oscurità che muore” […]. Qual è la relazione tra memoria e farfalla? Vuol dire, forse, che la bellezza, come la nostra memoria, è esposta alla brevità dell’essere qui e ora?

“Si, bellezza e memoria condividono una qualità (sottolineo che è una qualità) ovvero la fragilità. La fragilità e la brevità inevitabile spingono gli uomini (lo spero) all’attenzione, alla cura delle cose, a guardare i dettagli, ad osservare la realtà, qui e ora. E a farlo continuamente. Se lo fa, ogni uomo -posso pensare solo per singolarità non per universalità – si salva. Non per una vita futura ma si salva come quando salviamo un documento del computer ( rubo la metafora ad Antonella Anedda e al suo bellissimo “Salva con nome”) salvo e poi continuo. Se serve per il futuro, non si sa.”

Nella poesia della prima sezione, lei si ispira a un disegno di Jan Fabre – uno più prestigiosi artisti contemporanei noto per la sua fama di essere un autore scomodo e provocatore. Qui ci rende la sua testimonianza di poeta, ma entra, come in uno specchio, nella sua poesia, anche la visione, sullo sfondo, di questo straordinario e visionario artista. Che relazione c’è tra la sua poesia e Jan Fabre?

“Sono molto legato al dialogo con l’arte contemporanea e del secondo Novecento, mi faccia dire che mi stupisco un po’ di come ci sia traccia scarsa di dialogo tra arte -varie arti – e la poesia italiana contemporanea (almeno questa è la mia impressione). Allo stesso modo devo molto al teatro di ricerca (in Mariangela Gualtieri vedo ad esempio una straordinaria figura di artista tra teatro e poesia). L’artista con cui “lotto” di più è però Francis Bacon.
Fabre anche è straordinario, tra arte e teatro e scrittura. Del suo percorso più noto, mi piace quell’elemento che può sembrare astratto materiale naturale, gli insetti morti, e in realtà è allegoria che narra qualcosa di profondamente storico. In particolare quella poesia è ispirata ad un disegno di Fabre in cui una casa vuota è osservata dal punto di vista di un buco nel muro in cui s’è formata una ragnatela e ci sono insetti. E io ho immaginato insetti e ragni aggirarsi per casa mia, la casa che ho acquistato a Roma: dopo che io non ci sarò più, non avendo figli, quella casa sarà ereditata dagli insetti che la abiteranno. Comunque vita, sempre meglio di avere come seguito la polvere. In fondo è una visione di speranza, seppur minimale.”

 

Come in un diario di viaggio, lei sta dentro la Storia, offre la sua testimonianza. Sembra dunque, davvero questo lo scopo della sua poesia. Succede ad esempio nella poesia dal titolo (ovunque, sempre qui) dove lei ci fa vedere, come in un quadro o in una fotografia, gli operai che rientrano a casa dopo il lavoro. Qui ci dice, che la notte è l’unica rivoluzione, che il mondo come la farfalla, dura soltanto un giorno… e che si resta nel freddo della notte, in una pace dolorosa e sottile… Perché la poesia non riesce a cancellare la strada che si è appena percorsa, che lascia dentro di noi un senso di impotenza, di sconfitta?

“Non può perchè non deve. Perchè la poesia secondo me deve sempre stare sulla strada, dentro la storia, dentro la lingua comune, dentro il paesaggio contemporaneo. Appunto: ovunque, ma sempre qui, non “altrove”. Magari creando una Trasfigurazione fatta di criptoamnesie che riaffiorano come ruderi mascherati da visioni, come scrive Tommaso Pincio in un libro recente a proposito del paesaggio della città. Criptoamnesie involontarie o invenzioni vere e proprie, sovrapponendo la testimonianza ad una sorta di utopia vuota, un senso di attesa che è quella pace dolorosa e sottile di certe ore di notte quando ciò che verrà sembra ciò che abbiamo sognato o vissuto già – e riaffiora.”

C’è poi una poesia dedicata a Derek Walcott che lei ha incontrato a Barcellona nel 2003. Fu un incontro occasionale? Perché la colpì tanto quell’incontro?

“Ecco, si tratta appunto di una criptoamnesia. Non ricordo di un dove e come, ma si sono sovrapposti un incontro reale con Walcott, ma nel tempo di pochi minuti, di una stretta di mano e di osservare in lui occhi e pelle di colori trasparenti, poi una foto di lui in un bar di Barcellona e la mia visita a quel bar per caso. Ho scelto l’immagine del poeta Walcott, il suo essere personaggio, molto noto, ma l’ho voluto collocare in una dimensione di rifugio immaginario lontano dal caos mediatico dell’essere Nobel a riconsiderare segnali di nuovo, lui che è figlio di un “nuovo mondo” e che tuttavia cerca di decifrare il mondo intorno con i suoi segnali di disastro, di ferite, di avarìe, dettagli che tuttavia restano in una opacità di senso e al massimo in un una luminescenza di bianco luttuoso, immobile a non saper dire. Eppure stare in quella esposizione al mondo, come una tovaglia bianca sta esposta alle mosche (di nuovo gli insetti!) – e il suo corpo pure – mi sembra la scelta giusta per un artista, per un poeta: abbandonarsi a questa esposizione e abbandonare anche la retorica che la nostra storia (anche poetica) ci consegna. E anche Walcott abbandona, nel mio criptoricordo, la sua retorica poetica caraibica…”

 

Il titolo della seconda sezione del suo libro è “Time out” , “fuori partita”, “stato d’eccezione” come spiega nella nota. Una sequenza di poesie che lei ha cominciato a scrivere subito dopo i fatti del G8 di Genova, del 2001 dove negli scontri tra polizia e manifestanti morì Carlo Giuliani. Sempre nella nota mette in evidenza che lei soltanto per un giorno e una casualità non si trovò a Genova quel giorno… Che cosa è rimasto in lei di quell’evento così drammatico, scritto nella nostra Storia?

“È complicato da spiegare. Tenga conto che sotterraneo e implicito in questo libro c’è l’evento degli eventi del nostro secolo, già simbolico nel suo essere progettato come simbolicamente finzionale e cinematografico da Bin Laden, ovvero il crollo delle Torri Gemelle. Quello però è un evento come altri di questa sezione che risentono del filtro mediatico, il fatto che – lo dico da poeta, lo dico da indagatore delle crittografie del mondo – potrebbero non esistere, come piace a certa riscrittura della storia, certo alimentare le leggende, che tanto vanno di moda – interessanti come sintomo, fascinose se usate nel romanzo postmoderno o in poesia, come metafora, ma da rigettare assolutamente: la storia esiste e come e spesso è morte, polvere, sangue, appunto; non è un caso che la nostra porzione di presente sia stata inaugurata dall’evento intestimoniabile per eccellenza ma verissimo, ovvero la shoah e che si sia tentato di negarlo. Ho scelto però i fatti di Genova, perché quell’evento è nostro, italiano, contemporaneo. mi è capitato di sfiorarlo, ero fisicamente in città il giorno prima dei fatti, ma di essere impegnato in una fuga per una “questione privata” e di essere andato via.
Di quell’evento mi resta dunque una condizione che tuttavia è generazionale: una Storia vissuta da “Sfiorato” (per dirla con Sandro Veronesi). Passaggi epocali mai vissuti a pieno, Storia che sempre più ci sfiora ma non abbiamo la possibiità di influenzare. Faccio parte della prima generazione che ha cominciato a subire la Storia senza più avere la possibilità di cambiarla e forse neppure di esserne parte come vittima (mi si perdoni il paradosso). Anche la transitorietà del movimento no global lo testimonia, la sua debolezza. Se si fossero radicati i cambiamenti che quel movimento proponeva, seppur in mezzo ad altre visioni politiche e sociali che non condivido, oggi forse avremmo potuto evitare una crisi così drammatica.”

 
Anche qui in “Time out” proseguendo il suo viaggio negli anni a seguire, il protagonista della sua poesia vive il tempo della polvere che si nasconde nella Storia, tra crolli, bombardamenti, attentati, distruzioni e periferie, andando a scrutare ciò che è ai margini della nostra esistenza. Fuggendo dentro… Cosa vuol dire “fuggire dentro”?

“La fuga attraversando il paesaggio, osservandolo. Fino alla fine del mondo, raccontava un film di Wenders. Fino al punto di rottura. Ilmomento di rottura, di catastrofe naturale o storica, come un attentato, sono lo squarcio che può attivare una trasforazione. È una krisis, un kairos. Uso ancora un’opera d’arte come riferimento: Doris Salcedo creò nella Tate di Londra un’opera “Shibboleth” ricreò uno squarcio nel pavimento, una faglia come fosse prodotta da un terremoto. Lo spettatore osservava quel punto di fuga dell’opera dentro il mondo. Ecco, fuggire dentro, quel che Leopardi cercava oltre la siepe, noi dobbiamo vederlo dentro lo squarcio della terra. Non possiamo più non vedere, non possiamo più forse alzare lo sguardo oltre. Seppur in un moto di “fuga” direi in senso bachiano, artistico, di proliferazione di segni e domande.”

 
Nella sezione “Dopo la fine” gli occhi si fanno più larghi entrando in una realtà che si trova al confine del mondo, là dove sembra scriversi la parola “fine”. E allora, cosa c’è dopo la fine?

“Se vuole, riprendendo quel che dicevo prima, questa è una poesia “temporary-leopardian” mi perdoni l’ironia. Esprimo La dimensione del desiderio di poter vivere “spaesato” in un mondo che in parte dice qualcosa anche a noi (per la parte di eredità araba) ma è anche alterità è spazio di una possibilità di ritrovare ciò che al nostro occidente sembra esaurito. Un vedere oltre, un infinito esistenziale. Ma questo era il sogno della generazione di artisti del primo 900 e poi in parte degli anni 60 con gli americani che non hanno fatto che replicare i francesi degli anni 30 e che su questo ha fondato un mito che per noi è invece solo pausa turistica. quindi c’è una nostalgia indiretta ma anche la consapevolezza che questo spaesamento sarà il miracolo di un’ora, non di più. Un miracolo però indotto da mitologie finzionali, non da realtà. Poi si ritorna. Dopo la fine, dipo quella finisterre, c’è un biglietto di ritorno, c’è il risveglio, la prosa.”

“Last minut” è il titolo dell’ultima sezione. L’ultima poesia è dedicata a Emanuele Trevi autore di “L’onda del porto” un libro che attraversa lo tsunami che il 26 dicembre del 2004 investì il sud est asiatico. Il movimento dell’acqua nel recipiente qui si fa forza centripeta, caduta. La vita sta tutta negli occhi di quel bambino chiuso in un destino di miseria?

“Si, credo di si. Ancora riprendendo, ho usato come vede un titolo “turistico”. Perchè spesso i luoghi di storia e catastrofe per noi sono solo un posto di vacanza. Ma al netto di questo limite, Se in quegli occhi di esistenza futura, di chi avrà venti anni nel 2020, vedremo i nostri di un tempo io credo daremo spazio ad una chance della vita. Quel bambino sarà dentro un mutamento antropologico, storico, difficile da prevedere, ma sappiamo che qualcosa accadrà, viste le premesse di questo scorcio d’avvio del secolo. Dunque se in quegli occhi di umanità futura riconosciamo i nostri occhi di umanità del Novecento, c’è possibilità di vita.
Se volessi provare ad immaginare una chiusura circolare del nostro discorso, direi che vorrei immaginare un ponte, un filo sottile, un filo di aquilone, tra il non-sèguito della genealogia biologica interrotta di Celan, il mancare il futuro nostro e la nuda vita di questo ragazzino sopravvissuto al suo disastro. Ecco, Questa è l’unica cosa che da poeta e da essere umano ‘nel pensier mi fingo’ “.

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Mario De Santis è nato a Roma nel 1964 dove si è laureato con Biancamaria Frabotta in Letteratura italiana contemporanea con una tesi su Cesare Viviani. Dalla fine degli anni Ottanta è collaboratore del mensile “Poesia” (Crocetti editore). Giornalista e poeta, vive a Milano e lavora a Radio Capital, emittente del Gruppo Espresso. E’ ideatore e conduttore di programmi culturali tra i quali il settimanale di arti e narrazioni “Soul Food”, ed è responsabile dei Libri. Ha pubblicato due raccolte di versi, Le ore impossibili (Empiria 2007) e La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012).

2 pensieri su “Intervista a Mario De Santis

  1. Caro Mario,
    una clessidra puo’ essere riempita solo con sabbia fine, fine,…allora si misura il tempo e lo si puo’ misurare all’infinito capovolgendo la clessidra. Se si riempie di polvere il tempo si ferma perche’ la polvere ostruisce il passaggio e la seconda meta’ della clessidra rimane vuota ed “Il time out” dura ad aeternum.
    La polvere a contatto con l’acqua, si comporta diversamente che col vetro o con un’altra materia. Poi la polvere ha la capacita’ di ammassarsi e di rimanere immobile…pensi alle bottiglie del nostro Morandi… conosce qualcu’un altro che abbia dipinto anche la polvere degli oggetti che ci sono cari?
    Adriana

  2. Polvere e acqua sono state soggetto anche di questa poesia di Tonino Guerra…
    Il movimento tra desiderio che asseta e la sua soluzione che ristora assomiglia a un pendolo che disegna nel suo arco lo stesso istante declinato in linee infinite, per raccogliersi in un cerchio finale. Tutto si ripete, inizia e finisce solo per iniziare di nuovo, è lo sguardo di ogni uomo ad essere sempre diverso, o la bocca che accoglie la pioggia, se preferiamo…

    L’AQUA IN BOCCA

    La tèra l’èva una saida ch’la n u n putèva piò,
    s’un’aria sòta ch’la fasèva tremè i èlbar e i palaz
    e u n’la respirèva gnènca e’ Signòur.
    E’ nascèva i fugh cumè se u i foss benzina
    E u s’è brusè grèn e furmantoun.
    Datonda totta la campagna sfarinèda
    fina a mèza gamba
    l’era dvènt un mond ad porbia
    ch’l’ariveva mal muntagni.
    I bosch l’era candlòt ad zendra ch’i s quaièva.
    I gazot e i animeli i è scap da e’ zil
    e da la tera,mo i bagaròz
    al lumèghi e i sorgh i è mort a boca verta.
    Dop u s’è alzè e’ vent ch’l’à tirat pr’aria
    Un znòc ad pianèura e al novvli niri
    Agli à impurbiè fina a’ Bulogna stredi
    Còpp e òman.
    L’à tac a piov al dò dla nòta di queng d’utobar
    Dop a quatar mois e un dè.
    La zenta la s’è svegia ch’la n i credèva.
    I a ciap caplèti urz cadòin e bicìr
    E i s’è bott tla streda.
    U i è stè ènca di pataca ch’i balèva.
    Mè, che aloura avèva òt an
    Sla faza còuntra e’ zil a m fasèva piòv ad bòca.

    L’acqua in bocca :
    La terra aveva una sete che non ne poteva più/ con un’aria secca che faceva tremare gli alberi e i palazzi/ e non la respirava neanche il Padreterno.
    Nascevano fuochi come se ci fosse benzina /e s’è bruciato il grano e il granoturco.
    Attorno la campagna sfarinata/ fino a mezza gamba/ era diventata un mondo di polvere /
    Che arrivava alle montagne.
    I boschi erano candelotti di cenere che crollavano .
    Gli uccelli e gli animali sono scappati dal cielo / e dalla terra ,ma gli scarabei /
    Le lumache e i topi sono morti a bocca aperta.
    Dopo si è alzato un vento che ha tirato in aria / un ginocchio di pianura e le nuvole nere/
    Hanno impolverato fino a Bologna strade ,/coppi e uomini.
    Ha cominciato a piovere alle due di notte il quindici di ottobre / dopo quattro mesi e un giorno/. La gente si è svegliata che non ci credeva.
    Hanno preso secchi, orci e bicchieri / e si sono buttati sulla strada/,
    E ci sono stati dei cretini che ballavano./
    Io ,che allora avevo otto anni/con la faccia contro il cielo mi sono fatto piovere in bocca.

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