“Olimpia”, di Luigia Sorrentino

di Fabrizio Fantoni
Roma, 10 febbraio 2013

Milo De Angelis nella prefazione di “Olimpia” (Interlinea 2013), afferma: “Scrivendo Olimpia, Luigia Sorrentino scrive il libro della sua vita. Olimpia punta all’essenza, tocca in profondità le grandi questioni dell’origine e della morte, dell’umano e del sacro, del nostro incontro con i millenni. Ha uno sguardo lungimirante: sguardo ampio, prospettico, a volo d’aquila. Ma ha anche improvvisi affondi nella fiamma del verso.”[…] E aggiunge: […] “I tempi s’intrecciano, entrano in un’epopea dove tutto è così nostro da diventare remoto, tutto è così perduto da diventare presente. Olimpia riesce a esprimere questo tempo assoluto, e lo fa in modo mirabile, con architetture possenti ma anche con i guizzi fulminei della vera poesia. Tempo assoluto che contiene ogni tempo.” Un’opera della maturità, sottintende il poeta scrivendo: “Olimpia punta all’essenza, tocca in profondità le grandi origini della vita e della morte.”
Chi è per te Olimpia?

 

Olimpia” è l’incontro con un luogo, con un’essenza femminile, con una città, con una condizione, la condizione umana. Nel libro non vi è più nulla della città, forse non c’è più nemmeno l’umano, ma soltanto il riverbero di una voce che arriva da lontano. Tutto è irrimediabilmente sparito, raso al suolo, forse proprio per questo De Angelis scrive che “Olimpia” esprime un tempo assoluto, cioè un tempo che contiene ogni tempo. Tutto è già accaduto, è dietro di noi, ma anche davanti a noi, racchiuso in uno spazio circolare. La poesia è lì, in un’essenza viva, nitida, pulsante, è una voce che chiama a sé i suoi figli e li accresce, “in tutto ciò che siamo stati” e facendo questo percorso a ritroso nel tempo, tocca le grandi origini della vita e della morte.
“Olimpia” – raccontavo a Maurizio Cucchi e a te, nel 2011, mentre stavo scrivendo il libro – non è un libro sul sacro. Tuttavia, è come se un elemento sacro, fosse lievemente sfiorato in tutto il percorso del libro. “Olimpia” non è un libro sul mito, come ti ho più volte detto, è un libro che incontra del tutto casualmente il mito, ne è come attraversato. Evidentemente la nostra cultura, la nostra formazione, si intreccia con il mito, sfiora l’elemento sacro ed entra nel luogo della poesia, nello spazio psichico in una sostanza emotiva che preserva e cura. “Olimpia” ci dice che siamo noi il luogo della vita e della morte.

Mario Benedetti nella postazione definisce Olimpia soprattutto “un viaggio nel morire”, un viaggio compiuto attraversando una città mossa, in una visione al limite della coscienza. E in realtà sembra davvero che sia così. La lingua di “Olimpia” conduce il lettore, su un territorio di confine, tra l’essere e il non essere più.

Il territorio di confine in Olimpia, è proprio il linguaggio. Da un lato la lingua che parla Olimpia ha fatto proprio un’irruzione nella mia vita, dall’altro c’è in me la consapevolezza che non avrei potuto reggere emotivamente un’altra lingua, una lingua diversa da quella che è venuta fuori nello scrivere questo libro. Olimpia non poteva parlare la lingua di tutti i giorni, quella del mercato, del centro commerciale, dell’Ikea o la lingua che adoperiamo sul lavoro. Lo spiega bene Mario Benedetti nella postfazione quando scrive che lo spazio dentro il quale si muove questa poesia è “un ultimo stadio della coscienza”. E’ proprio un tempo ultimo a parlare, e quindi anche la lingua sembra porsi a una certa distanza dal presente. In questo stadio ultimo si raggruma l’intensità della vita, e lì la condizione esistenziale raggiunge la condizione estrema, come in punto di morte. Olimpia esprime un ultimo tempo, in una lingua che conserva l’eco della tragedia. Sulla scena non accade quasi nulla, tutto è rimesso all’emotività di colui\colei che narra, al contegno e alla misura del narrare. In questo senso Olimpia parla la lingua dei padri, e lo fa da partendo da un limite e per porre un limite. Prende le distanze dal presente, ma rimarca in questa distanza, anche la necessità di distaccarsi da un tempo avido e senza scrupoli, il nostro tempo. Tutto il Novecento parla di un tradimento, e Olimpia cerca di riparare al torto subito. Olimpia richiama nella nozione di tradimento certamente uno degli eventi più drammatici del Novecento: la Shoah, la Catastrofe, la più grande tragedia perpetrata in Occidente, ma anche la nascita della tragedia raccontata da Eschilo ad esempio, ne “I sette contro Tebe”. C’è un momento nel libro, in cui viene detto che Olimpia si mette la bocca del dio e chiede: “Perché hai fatto questo”? In questo senso Olimpia parla l’unica lingua che potrebbe parlare, riflette sulla condizione umana, sulla colpa, il tradimento, e chiede il silenzio, la riflessione. Olimpia chiede una ricostituzione dell’essere, intorno al sé sacro. Olimpia accetta la morte – la fine del tempo – e riconosce che la condizione umana è chiusa nella brevità. La riflessione su questo tema arriva da una donna, vecchia e giovane, al tempo stesso. Una donna invecchiata accanto alla roccia, ma che vede la giovane a lei rivolta, ed è grata a questa ragazza che l’abbraccia sul limite della vita. Olimpia rinuncia a tutto, al potere, alla ricchezza, al benessere… è consapevole che l’essere umano è soltanto un’apparizione nella dimensione del tempo… Olimpia pone una continua contrapposizione… e c’è sempre qualcosa che contrasta la verità che vuole essere affermata.

Con Olimpia ci porti, come hai fatto con La nascita, solo la nascita (Manni 2003), su una frontiera, in un territorio di confine, tra l’essere e il non essere più. E’ questo il significato della simbologia più volte ricorrente della soglia, del transito verso una porta aperta sull’ignoto?

Sì, c’è continuità di discorso tra le due opere, ma con La Nascita, solo la nascita il discorso poetico era ancora nel tempo della vita. In Olimpia c’è proprio il morire, come condizione ineluttabile dell’umano. Tutto il libro è attraversato dal contrasto, da opposti che si contrappongono sulla soglia di un confine tra finito e infinito. In Olimpia quindi, siamo, in un altro spazio, in un altro tempo, o addirittura, siamo usciti dal tempo, siamo in uno spazio assoluto, nella continua demarcazione tra l’essere e il non essere più. Olimpia pone continuamente la problematicità e il contrasto tra l’essere mobile e immobile, tra l’essere umano-transitorio e la perpetuità del divino. Nella sezione La permanenza, la distanza dal limite il permanere è rappresentato da una femminilità immobile come avviene nella statuaria greca. Quella fissità è l’essenza stessa del divino: eterno e immobile. C’è però, via via, un movimento che si compie, e lì è il dio che va verso l’uomo o l’uomo che va verso il dio. Forse si incontrano, ma su di un confine estremo. Olimpia quindi, sfiora la sfera del sacro nella perenne contrapposizione tra ciò che l’essere umano è – ciò che è stato – e ciò che non potrà mai essere – immortale – se non in una dimensione poetica, religiosa e spirituale.
La simbologia della soglia poi, ha diverse connotazioni, come anche la domanda che ricorre nel poemetto Il contrasto tra il divino e il tempo: “E’ quella la porta?”. La porta è un’uscita dalla vita e dal tempo, oppure è un ingresso nel tempo? Nel poemetto la domanda viene posta quasi ossessivamente, e forse per questo motivo assume un carattere enigmatico e misterioso… quindi, alla fine, non si sa dove conduce quella porta. Probabilmente conduce a una nuova dimensione. Certamente anch’essa rappresenta un limite, una soglia, un passaggio. La porta è comunque un elemento di transito, l’attraversamento o i superamento del limite, dalla vita alla morte all’ignoto del “dopo”. In alcune altre parti del libro la soglia indica, invece, una condizione di attesa, o di preparazione a un movimento, un passaggio. Stare sulla soglia, o percorrerla, può voler dire andare verso l’ignoto o l’infinito. Affacciarsi sulla soglia e superare il limite, significa entrare in una nuova dimensione, andare a vedere cosa c’è dall’altra parte. Ma a volte l’essere umano sta fermo sulla soglia battuta dal vento, e oscilla, incapace di proseguire, di lasciarsi andare in un altro luogo innominato, appunto. La soglia sulla quale si ferma la divinità mercuriale che “sfoglia con indifferenza gli alberi”, segna il confine tra ciò che è umano e ciò che umano non è, quindi sempre la dimensione della soglia spalanca l’ignoto, la vita, la morte, l’uscita di scena, ma anche l’ingresso in scena. La soglia è comunque il luogo-limite, è un confine e la soglia, il confine, il limite, sono tutte facce della stessa realtà.

Il percorso che compie Olimpia comincia dentro un luogo denominato antro. Perché si parte proprio da una caverna, da una montagna spaccata?

L’antro – luogo cosmico per eccellenza – si trova in uno spazio sacro. Delimita la nostra origine, ma è anche l’origine della poesia. E’ il grembo della terra, della madre. Da quel grembo tutti siamo usciti. Ne esce Iperione, che prova a liberarsi da una condizione di privazione, di non luce, ingaggiando una lotta con gli dei. Ma non ce la fa, perde, soccombe, cade, collocandosi in una zona di lontananza dalla luce. Olimpia è la poesia che se ne sta nel fondo oscuro di un antro. E’ roccia, radice, cicala, voce, e poi vento… Olimpia parla attraverso il vento. Ma la sua consistenza è umana, non è divina, ecco perché quando chiede la vita eterna, diventa un soffio. La sua essenza rimarrà nella dimensione della poesia che è eterna.

Ne Il sonno il percorso compiuto all’interno della città assume una forma circolare. Alla fine del libro si ritorna, come all’inizio, in una grotta, in una montagna spaccata. Nella dimensione che conduce il lettore verso il limite dell’esistenza terrena, il cerchio si chiude, si ritorna all’origine. Qual è il senso più profondo di questo percorso?

 Il sonno è l’accettazione del morire, dell’essere transeunti, in un certo senso, è il luogo ideale dove morire, quando è finito il proprio tempo… Il carattere circolare e unitario di Olimpia raggiunge la sua massima espansione proprio in questa sezione. Qui infatti si ritorna arcaici, al luogo di partenza : l’antro è il luogo della nascita, ma è anche il luogo nella morte. Il momento della morte – l’uscita di scena – è un momento di verità assoluta perché libera il mistero di tutta la nostra essenza umana. Una delle opere che mi ha più contaminata è l’ Edipo a Colono di Sofocle. In quella tragedia Edipo prima di morire si fa interamente carico della sua colpa: ha sposato sua madre, ucciso suo padre e messo al mondo una stirpe ammalata, i Labdacidi. Quando Edipo scopre tutto questo inizia a morire e si mette alla ricerca di un luogo – la città delle benevole – dove morire “in pace” per liberarsi dalla sua terribile colpa. Questa sezione mi è stata ispirata anche da un fatto di cronaca, avvenuto nel febbraio del 2011. Daniel Bisutti, il ragazzo di vent’anni, fuggito e scomparso subito dopo aver causato un terribile incidente stradale a Martinengo in provincia di Bergamo. Daniel pensava di aver causato una strage, ma non era così. Il suo senso di colpa lo aveva accecato al punto tale da non riuscire a vedere nient’altro… da perdere totalmente in contatto con la realtà… Qualcuno forse ricorderà che il suo corpo senza vita fu trovato dopo dieci giorni di incessanti ricerche, nascosto in un anfratto (antro) vicino a un torrente, raggomitolato in posizione fetale, come se avesse voluto ripararsi dal freddo o dalla colpa. Ho sempre pensato che Daniel non aveva superato l’enorme senso di colpa che aveva iniziato ad affliggerlo dal momento dell’incidente. Daniel è uno di noi, un contemporaneo, ma è anche come Edipo: assorbito dalla colpa e da essa accecato, ha cercato un luogo dove rifugiarsi dal freddo, una cavità naturale, circolare e materna, vicino a un ruscello, per non sentire più quel dolore. Ecco, in un certo senso il poemetto Il sonno chiude il cerchio della vita con un ritorno alla madre, nell’incavo uterino e caldo della terra, che porta con sé un segreto inconfessabile: l’abbandono della vita, ma anche della colpa.

In Giovane monte in mezzo all’ignoto si avverte un forte slancio vitale proiettato verso il futuro. Qui per la prima volta il tempo è coniugato al futuro. Tale slancio tuttavia viene smorzato dalla frase che si legge nella prosa la città nuova: Olimpia gioia di esseri non esperti di gioia. Come può esserci un futuro in una comunità che ignora fino in fondo la gioia nella sua pienezza?

In Giovane monte in mezzo all’ignoto c’è l’avvicinarsi a una nuova realtà, “l’ignoto” del giovane monte è infatti una realtà numinosa, piena di luce, giovane, appena nata, e che ancora non ha nome, per questo è ignota.
Questa nuova realtà è l’immagine di una nuova condizione: di nuovo, umana e divina. Il giovane monte è in se stesso sacro, sta in un luogo sacro, e attorno a lui tutto si è placato. Questo nuovo luogo è riempito dallo spazio religioso della poesia. L’attesa si è colmata nel ritorno, il ritorno a un nuovo tempo. Nel tempo finito si condensa l’infinito ritorno, è un tempo nel quale si chiude, come in un cerchio, l’esistenza terrena – eravamo tutti insieme – in un luogo dove ci sono vivi e morti -. Questo nuovo luogo è proprio lo spirito del futuro, dove si tace di gioia. “Tace su tutto chi possiede quello spirito del futuro sopra le rovine” dico in un verso. Questo verso ci dice anche che cercare questa natura numinosa, è proprio una condizione dell’essere umano. Stare insieme a questa divinità che è in noi, vicino a noi, è stare muti, ma intrisi di gioia, perché qui la gioia è proprio espressione dell’interiorità e della consapevolezza dell’essere umano, che riesce finalmente a stare dentro se stesso, dentro la propria natura, nello spirito del futuro, in un nuovo mondo che potrà nascere da una nuova capacità di essere, in una nuova misura: “tesse il suo divino l’umano.”
Germoglia dall’umano, dal sonno della morte, un nuovo mondo, un nuovo uomo, una donna nuova. C’è dunque una speranza nel futuro: “Tu sarai un uomo nuovo, una donna nuova, sarai fratello e sorella”. Qui c’è l’incontro tra esseri umani che si riconoscono nella propria individualità, che si riconoscono in uno spazio solitario del monte, ma possente, come l’amore. Il vero essere insieme deve scaturire dal raccoglimento “così trascorri il tempo che ti parla” dice un altro verso, parlando di questo giovane uomo che sta con l’orecchio alla terra. In questo ringiovanimento dei popoli c’è il futuro, il tempo che verrà, che ci cambierà. Il giovane monte è proprio come un Titano, anche lui, come Iperione, come la donna della Permanenza, è ancorato alla terra, sta nell’immobilità più assoluta, in una forma irremovibile e pertanto sacra. E’ una realtà originaria, ciò che si muove attorno a lui, è il tempo. E’ alto, duraturo ed è parte della dimensione sulla quale si determina l’esistenza terrena. Il giovane monte è temporalità (movimento) è solido e duraturo, è l’ispirazione dei celesti. L’immagine si fonde alla madre terra. Il giovane monte è anche una nuova patria. Emerge dalla terra, dalle profondità della terra, proprio come fa la poesia che talvolta emerge dal sogno, dalla veglia.
Il poemetto si chiude poi con una lode, la lode della rosa. La lode alla poesia, che sorregge il lontano… Ci vuole una grande forza per sorreggere il lontano, per poterlo guardare senza commuoversi più, in una visione solidale, di grande consapevolezza, e quindi di gioia.

 

1 pensiero su ““Olimpia”, di Luigia Sorrentino

  1. Una lettura molto stimolante di Olimpia fatta dalla poeta, e chiarificatrice della sostanza dell’opera, certo non di facile lettura nelle sue molte e complesse tematiche. L’interpretazione offerta dall’autrice guida verso una più “facile” lettura anche da parte di chi non ha la confidenza richiesta per un “fai da te”. D’altra parte, la chiara riduzione in prosa dell’opera poetica sta a indicare la veridicità della ispirazione poetica. Sono spinto a rileggere l’opera avendo come guida il prezioso apporto della poeta.

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