Pamuk “Scrivo libri per essere felice”

Orhan Pamuk

 

Pamuk, il sentimento politico
di Luigia Sorrentino

 

L’evento forse più atteso inserito all’ultimo momento nel programma dell’undicesima edizione del Festivaletteratura di Mantova è stato quello con il Premio Nobel per la Letteratura 2006, Orhan Pamuk.

Lo scrittore turco, autore di romanzi come “Neve”, “Il mio nome è rosso” e “Istanbul”, perseguitato in patria per le sue prese di posizione sui massacri degli armeni e dei curdi, è intervenuto sabato 8 settembre 2007 per parlare dei suoi romanzi e della difficile situazione politica della Turchia.

Il dibattito condotto da Marino Sinibaldi è culminato nella differenza tra i valori dell’Occidente europeo e la cultura islamica.

C’era molta tensione prima dell’inizio dell’incontro nella Piazza del Castello. In molti ci auguravamo che alla fine dell’incontro venisse concessa l’opportunità di rivolgere a Pamuk delle domande, cosa che normalmente accade a Mantova dopo gli incontri con gli scrittori.

Quando Pamuk alle 21:00 in punto è arrivato e il pubblico lo ha salutato con un lungo applauso che poi si è spento nel silenzio più assoluto. In quel momento ho sentito che dopo l’incontro con Pamuk a nessuno sarebbe stata concessa l’ opportunità di porre delle domande per interloquire direttamente con lo scrittore turco.

Perché, secondo me, Pamuk dopo il Nobel, paradossalmente, si può esporre meno, è cioè meno libero di esprimersi pubblicamente.

Perché quando si parla con Pamuk inevitabilmente il discorso inizia dalla Letteratura e si orienta verso temi cari a tutti i suoi lettori, temi che entrano, uno per uno, nell’opera di Pamuk: la diversità di culture, le religioni, la libertà di espressione, i diritti umani…

Io credo che tutto ciò che fin qui ha scritto Pamuk, è intriso di un fortissimo “sentimento politico e civile” che conduce inevitabilmente, lo scrittore e i suoi lettori, dalla parte dei “diversi”, dell’ “altro da sé”, non importa se migliore o peggiore. E questo “sentimento” per Pamuk è alla base del romanzo e del suo essere scrittore.

Per capire questo mio ragionamento, basta leggere un piccolo libro di Pamuk, “La valigia di mio padre”, (Einaudi, 2007), dove sono contenute le tre conferenze più importanti pronunciate dallo scrittore turco nell’arco di un anno.

“La valigia di mio padre”, è il discorso tenuto a Stoccolma da Pamuk il 7 dicembre 2006 in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura.

“Autore implicito”, è il discorso tenuto dall’autore turco alla University of Oklahoma il 21 aprile 2006 nell’ambito della Puterbaugh Conference.

Il “Discorso di Francoforte”, è la relazione di Pamuk del 23 ottobre 2006, conferenza che lo scrittore turco ha tenuto in occasione del conferimento del Friedenspreis.

In questo piccolo libro, Pamuk spiega, in sostanza, perché scrive e qual è, secondo lui, il senso della letteratura e del romanzo. Pamuk spiega, cioè, il gesto dello scrittore: un gesto che nasce dal rinchiudersi in una stanza nell’isolamento più totale per dare voce ai suoi personaggi e alla scrittura.

Un isolamento che nasconde, in realtà, un’apertura e una riflessione sul proprio centro, sul proprio posto nel mondo.

Se ne avessi avuto l’opportunità, avrei voluto rivolgere a Pamuk almeno una di queste domande:

“Pamuk, il destino del suo paese, come ha cambiato il suo carattere e la sua scrittura?”

“Che traccia ha lasciato sulla sua anima l’uccisione del suo amico armeno, il giornalista e scrittore Hrant Dink ?”

E ancora, avrei voluto chiedergli: “Come immagina il suo destino, di uomo e di scrittore, dopo il conferimento del premio Nobel?”

“Si sente più libero oggi di esprimere le sue opinioni, oppure è preoccupato?”

“Che cosa la preoccupa maggiormente?”

Naturalmente, non ho potuto rivolgere nemmeno una delle mie domande a Pamuk.

Ma dal punto di osservazione in cui mi trovavo, tra il pubblico della piazza, ho potuto ascoltare e fare tesoro di quest’ascolto, ho potuto esaminare Pamuk molto “da vicino”… ho potuto “misurare” il tono della sua voce e della sua emozione, ad ogni risposta.

Il resoconto del dibattito tra Orhan Pamuk e Marino Sinibaldi forse aiuterà anche voi lettori che non eravate a Mantova a capire meglio chi è Orhan Pamuk.

“Devo confessare un certo imbarazzo…” Così ha esordito Sinibaldi al dibattito con Pamuk. “Molto si è scritto del problema che per uno scrittore costituisce vincere un premio Nobel… Anche Wole Soyinka qui a Mantova ha raccontato qualcosa su questo tema… Soyinka ha spiegato come per uno scrittore che ha vinto il Nobel alcune cose diventano più complicate, altre più semplici…” Poi, Sinibaldi con la sua inconfondibile verve ironica ha aggiunto: “Nessuno però ha parlato della difficoltà che un premio Nobel dà a chi deve intervistarlo!…. E allora, facciamo finta che Orhan Pamuk non abbia vinto il premio Nobel! – ha proposto Sinibaldi al pubblico… e poi ha aggiunto: “Questo forse impoverisce il dibattito o impoverisce Pamuk…

E ancora, rivolto al pubblico ha detto: “Il problema è che con Pamuk la difficoltà non si può rimuovere. Intorno alla sua scrittura e alla sua persona, si addensano una serie di domande, di attese, di pretese, che sono molto particolari… che hanno a che fare con il suo posto nel mondo, col suo posto nella Letteratura… Io ho notato che in tutte le interviste – ma non solo nelle interviste – Pamuk è trascinato a parlare del Velo e dell’ Islam… della Turchia in Europa e degli Ottomani… e noi tutti da lui ci attendiamo dei messaggi, dei segnali, e anche delle allusioni, delle impressioni, che poi risuoneranno di qua e di là dal confine che sembra separare in due oggi il mondo, e persino quel posto strano, quel ponte piccolo, fragile, su cui Pamuk sembra trovarsi…”

Poi Sinibaldi chiede a Pamuk: “Lei riesce, qualche volta, a essere o a sentirsi, uno scrittore normale?”

“Si… mi sento sempre uno scrittore normale!” ha risposto Pamuk. Ed ha fatto un esempio per meglio descrivere la sua “normalità” raccontando che quaranta giorni prima si trovava in vacanza su un’isola con la sua ex moglie e con sua figlia, e, nonostante ciò, scriveva dieci ore al giorno. “E infatti”, ha detto Pamuk, “ho finito un nuovo romanzo”.

Poi Pamuk ha affermato: “Il premio Nobel non ha cambiato le mie abitudini di lavoro, non ha cambiato la mia devozione nei confronti della Letteratura…“, con una precisazione: “Quando scrivo, sono da solo: c’è la mia carta, la mia penna stilografica, il tavolo, magari il caffè, il tè… ma sono da solo”. Continua a leggere