Pamuk “Scrivo libri per essere felice”

Orhan Pamuk

 

Pamuk, il sentimento politico
di Luigia Sorrentino

 

L’evento forse più atteso inserito all’ultimo momento nel programma dell’undicesima edizione del Festivaletteratura di Mantova è stato quello con il Premio Nobel per la Letteratura 2006, Orhan Pamuk.

Lo scrittore turco, autore di romanzi come “Neve”, “Il mio nome è rosso” e “Istanbul”, perseguitato in patria per le sue prese di posizione sui massacri degli armeni e dei curdi, è intervenuto sabato 8 settembre 2007 per parlare dei suoi romanzi e della difficile situazione politica della Turchia.

Il dibattito condotto da Marino Sinibaldi è culminato nella differenza tra i valori dell’Occidente europeo e la cultura islamica.

C’era molta tensione prima dell’inizio dell’incontro nella Piazza del Castello. In molti ci auguravamo che alla fine dell’incontro venisse concessa l’opportunità di rivolgere a Pamuk delle domande, cosa che normalmente accade a Mantova dopo gli incontri con gli scrittori.

Quando Pamuk alle 21:00 in punto è arrivato e il pubblico lo ha salutato con un lungo applauso che poi si è spento nel silenzio più assoluto. In quel momento ho sentito che dopo l’incontro con Pamuk a nessuno sarebbe stata concessa l’ opportunità di porre delle domande per interloquire direttamente con lo scrittore turco.

Perché, secondo me, Pamuk dopo il Nobel, paradossalmente, si può esporre meno, è cioè meno libero di esprimersi pubblicamente.

Perché quando si parla con Pamuk inevitabilmente il discorso inizia dalla Letteratura e si orienta verso temi cari a tutti i suoi lettori, temi che entrano, uno per uno, nell’opera di Pamuk: la diversità di culture, le religioni, la libertà di espressione, i diritti umani…

Io credo che tutto ciò che fin qui ha scritto Pamuk, è intriso di un fortissimo “sentimento politico e civile” che conduce inevitabilmente, lo scrittore e i suoi lettori, dalla parte dei “diversi”, dell’ “altro da sé”, non importa se migliore o peggiore. E questo “sentimento” per Pamuk è alla base del romanzo e del suo essere scrittore.

Per capire questo mio ragionamento, basta leggere un piccolo libro di Pamuk, “La valigia di mio padre”, (Einaudi, 2007), dove sono contenute le tre conferenze più importanti pronunciate dallo scrittore turco nell’arco di un anno.

“La valigia di mio padre”, è il discorso tenuto a Stoccolma da Pamuk il 7 dicembre 2006 in occasione del conferimento del premio Nobel per la Letteratura.

“Autore implicito”, è il discorso tenuto dall’autore turco alla University of Oklahoma il 21 aprile 2006 nell’ambito della Puterbaugh Conference.

Il “Discorso di Francoforte”, è la relazione di Pamuk del 23 ottobre 2006, conferenza che lo scrittore turco ha tenuto in occasione del conferimento del Friedenspreis.

In questo piccolo libro, Pamuk spiega, in sostanza, perché scrive e qual è, secondo lui, il senso della letteratura e del romanzo. Pamuk spiega, cioè, il gesto dello scrittore: un gesto che nasce dal rinchiudersi in una stanza nell’isolamento più totale per dare voce ai suoi personaggi e alla scrittura.

Un isolamento che nasconde, in realtà, un’apertura e una riflessione sul proprio centro, sul proprio posto nel mondo.

Se ne avessi avuto l’opportunità, avrei voluto rivolgere a Pamuk almeno una di queste domande:

“Pamuk, il destino del suo paese, come ha cambiato il suo carattere e la sua scrittura?”

“Che traccia ha lasciato sulla sua anima l’uccisione del suo amico armeno, il giornalista e scrittore Hrant Dink ?”

E ancora, avrei voluto chiedergli: “Come immagina il suo destino, di uomo e di scrittore, dopo il conferimento del premio Nobel?”

“Si sente più libero oggi di esprimere le sue opinioni, oppure è preoccupato?”

“Che cosa la preoccupa maggiormente?”

Naturalmente, non ho potuto rivolgere nemmeno una delle mie domande a Pamuk.

Ma dal punto di osservazione in cui mi trovavo, tra il pubblico della piazza, ho potuto ascoltare e fare tesoro di quest’ascolto, ho potuto esaminare Pamuk molto “da vicino”… ho potuto “misurare” il tono della sua voce e della sua emozione, ad ogni risposta.

Il resoconto del dibattito tra Orhan Pamuk e Marino Sinibaldi forse aiuterà anche voi lettori che non eravate a Mantova a capire meglio chi è Orhan Pamuk.

“Devo confessare un certo imbarazzo…” Così ha esordito Sinibaldi al dibattito con Pamuk. “Molto si è scritto del problema che per uno scrittore costituisce vincere un premio Nobel… Anche Wole Soyinka qui a Mantova ha raccontato qualcosa su questo tema… Soyinka ha spiegato come per uno scrittore che ha vinto il Nobel alcune cose diventano più complicate, altre più semplici…” Poi, Sinibaldi con la sua inconfondibile verve ironica ha aggiunto: “Nessuno però ha parlato della difficoltà che un premio Nobel dà a chi deve intervistarlo!…. E allora, facciamo finta che Orhan Pamuk non abbia vinto il premio Nobel! – ha proposto Sinibaldi al pubblico… e poi ha aggiunto: “Questo forse impoverisce il dibattito o impoverisce Pamuk…

E ancora, rivolto al pubblico ha detto: “Il problema è che con Pamuk la difficoltà non si può rimuovere. Intorno alla sua scrittura e alla sua persona, si addensano una serie di domande, di attese, di pretese, che sono molto particolari… che hanno a che fare con il suo posto nel mondo, col suo posto nella Letteratura… Io ho notato che in tutte le interviste – ma non solo nelle interviste – Pamuk è trascinato a parlare del Velo e dell’ Islam… della Turchia in Europa e degli Ottomani… e noi tutti da lui ci attendiamo dei messaggi, dei segnali, e anche delle allusioni, delle impressioni, che poi risuoneranno di qua e di là dal confine che sembra separare in due oggi il mondo, e persino quel posto strano, quel ponte piccolo, fragile, su cui Pamuk sembra trovarsi…”

Poi Sinibaldi chiede a Pamuk: “Lei riesce, qualche volta, a essere o a sentirsi, uno scrittore normale?”

“Si… mi sento sempre uno scrittore normale!” ha risposto Pamuk. Ed ha fatto un esempio per meglio descrivere la sua “normalità” raccontando che quaranta giorni prima si trovava in vacanza su un’isola con la sua ex moglie e con sua figlia, e, nonostante ciò, scriveva dieci ore al giorno. “E infatti”, ha detto Pamuk, “ho finito un nuovo romanzo”.

Poi Pamuk ha affermato: “Il premio Nobel non ha cambiato le mie abitudini di lavoro, non ha cambiato la mia devozione nei confronti della Letteratura…“, con una precisazione: “Quando scrivo, sono da solo: c’è la mia carta, la mia penna stilografica, il tavolo, magari il caffè, il tè… ma sono da solo”.

Fin qui, davvero niente di strano… Pamuk , ci dice che nonostante il Nobel continua a condurre la vita di sempre. Scrive, come sempre. Uno stile divita, per Pamuk, “più che normale…”

Pamuk ha poi detto di ritenersi molto fortunato di essere stato insignito del premio Nobel così presto nella sua vita, ed ha aggiunto che nonostante il premio fosse arrivato così presto, lui non si sente assolutamente alla fine della sua carriera.

“Ci sono molte cose che voglio ancora fare… – ha detto Pamuk – tanti romanzi che voglio ancora scrivere. Se, anzi, lo posso confessare – ha detto – questo premio mi ha reso ancora più determinato. Ha accresciuto la mia dedizione nei confronti della Letteratura. Credo di trovarmi a metà della mia vita di scrittore, non alla fine. E non ho nessuna intenzione di andare in pensione. ”

Poi, Sinibaldi rivolto a Pamuk: “Lei ha più volte detto che si scrive per diventare felici, per sfuggire all’infelicità.” Poi, rivolto al pubblico, ha detto che in vari testi Pamuk ha inserito due parole: Letteratura e Felicità anche nel discorso che ha pronunciato ricevendo il premio Nobel. “Eppure – ha aggiunto Sinibaldi – chi ha letto Istanbul credo non possa dimenticare quello straordinario incontro – non so come definirlo – che il piccolo, giovane Pamuk, poco più di un bambino, molto felice, ebbe con quattro scrittori… penso che siano i quattro scrittori più importanti e più vicini a lui nella Istanbul nella quale era cresciuto… e che non so se proprio ‘ufficialmente’ si chiamassero ‘i quattro scrittori tristi’… Cioè se fosse il nome di una corrente… e uno di questi era soprannominato Kirkpil, cioè l’Infelice come ‘nome d’arte’…”

Poi, rivolto a Pamuk Sinibaldi ha chiesto: “Per lei, ma anche per un lettore, che tipo di rapporto c’è tra Felicità e Lettura e tra Felicità e Letteratura ?

La risposta di Pamuk: “Diciamo che scrivo per essere felice. Il mio obiettivo è quello di essere felice. E’ il mio spirito che lo chiede. Per raggiungere la felicità ho bisogno di scrivere da solo, di trovarmi solo in una stanza. E’ così che ho scritto Istanbul. Non importa dove mi trovi, a Istanbul o in qualsiasi altro luogo…. Quando scrivo devo essere solo. Almeno per un certo tempo della mia giornata … Altre persone, magari, hanno bisogno di prendersi una pillola, di farsi una dose di droga… Per me, invece, la Letteratura è come una medicina: ogni giorno ho bisogno della Letteratura e ho bisogno sia di scrivere sia di leggere in un angolo pacifico del mondo.

Leggo e scrivo non solo per raggiungere il successo – certo anche questo fa parte del tutto – ma il mio primo impulso, quello che mi spinge verso la scrittura, è proprio di stare da solo in una stanza, con la carta e con la penna, e sentire la responsabilità di questa libertà che a volte può essere pericolosa, altre volte, molto attraente.

La felicità, inoltre, è uno dei temi dei miei romanzi . La letteratura, infatti, non si è mai posta il problema del valore della felicità… non lo ha mai messo in discussione… Lo ha dato per scontato.

Ma perché perseguire la strada della felicità? La vita è legittimata dalla felicità? E la felicità può essere l’obiettivo della nostra vita? E’ per esplorare questi temi che io scrivo. Come vi dicevo prima, ho appena finito di scrivere un romanzo che mi ha tenuto occupato negli ultimi cinque anni. E’ un romanzo di 500 pagine, in cui faccio il resoconto di un amore ossessivo di un uomo ricco nei confronti di una ragazza povera.

La frase di apertura del romanzo contiene la parola Felicità: ‘E’ un momento felice.’ Il romanzo stesso si conclude con la parola Felicità: ‘Ho condotto una vita felice.’ Immerso, schiacciato, tra questi due poli di felicità, c’è il racconto di quest’uomo che è ossessionato da questa donna, ma non sa bene dove collocare la felicità in tutto questo.”

Poi Sinibaldi comunica a Pamuk che gli farà due domande politiche e due letterarie… e comincia da quelle letterarie.

“Anche l’accenno che fa al suo nuovo libro che rinvia a un tema universale come l’innamoramento, aiuta a capire quella che è la vera, grande, qualità di Pamuk scrittore che non scopro io per la ragione che dicevamo all’inizio, è quella di affrontare grandi temi universali mi verrebbe da dire, a partire da un punto di vista nemmeno particolare, cioè di una cultura particolare, ma da un punto di osservazione che ha attraversato diverse culture, porta la ricchezza di diverse culture. I suoi libri sono riconoscibili, anzi, non sono riconoscibili, perché sono libri perfetti da questo punto di vista, stratificazioni culturali diverse.

Però, dal punto di vista proprio narrativo e dal punto di vista del piacere, della passione del lettore, Pamuk ha due qualità, anch’esse tradizionalmente letterarie che possiede in maniera particolarmente ricca e che sono l’Immaginazione e l’Immedesimazione.

La capacità di inventare e la capacità di mettersi, o costringere noi a metterci, nei panni degli altri. E vorrei sapere, se Pamuk e d’accordo, e soprattutto… come definirebbe queste due qualità narrative, immaginazione e immedesimazione?


E Pamuk ha risposto: “Si tratta di due concetti correlati l’uno all’altro.

Il cuore del romanzo è, infatti, la capacità umana di identificarsi con il prossimo. Noi esseri umani siamo diversi dalle altre creature proprio perchè siamo in grado di provare compassione.”

Poi Pamuk ha aggiunto: “Nella vita quotidiana ci mettiamo costantemente nei panni degli altri, ci immedesimiamo continuamente… ma per fare questo ci serve l’immaginazione. Noi dobbiamo allargare la nostra mente, ampliare la nostra esperienza, inventare… al fine di comprendere come si sentono gli altri.

Questa “comprensione” è proprio l’inizio, l’albore del romanzo: il romanzo, quindi, inizia nel momento in cui il narratore pensa alle motivazioni che muovono le altre persone, il prossimo, e questo si basa sull’immaginazione e in questo punto esatto il romanzo diventa politico, non tanto perché sta dalla parte di un partito o dall’altra, bensì perché ci identifichiamo con qualcuno che è diverso da noi.”

Sinibaldi ha poi chiesto a Pamuk quale fosse il rapporto tra lui e i suoi personaggi… se Pamuk scrittore fosse più vicino a Forster, che si fa sopraffare dai suoi personaggi, o se invece è più vicino a Nabokov, che schiavizza i suoi personaggi.

E Pamuk ha risposto: “Secondo me la verità sta in mezzo. Da una parte abbiamo la versione di Nabokov, secondo il quale lo scrittore deve controllare pienamente la sua opera e questa è un’affermazione che contrasta con quello che sostiene Forster secondo il quale i personaggi finiscono con il sopraffare l’autore…

A volte questi temi, questi personaggi diventano così ossessionanti, che si crea un meccanismo di identificazione così forte che finisce con l’assorbire l’autore. Quando accade questo – ha continuato Pamuk – il tema che viene trattato dall’autore è così interessante che finisce con il sopraffare la struttura del romanzo stesso.

Vi è poi un’ argomentazione che risale a qualche decennio fa, secondo la quale vi sono autori che addirittura distruggerebbero il personaggio…

Ripeto – ha aggiunto Pamuk – La verità secondo me è in mezzo. A volte ci sono dei personaggi che sopraffanno l’autore e quindi l’autore è costretto a cambiare la trama del romanzo attorno a questo nuovo personaggio, altre volte accade il contrario.”

Poi Sinibaldi ha proposto a Pamuk due domande politiche: “Cosa guadagnerebbe la Turchia dall’essere in Europa e cosa guadagnerebbe l’Europa dall’avere la Turchia nel suo interno?”

Pamuk ha risposto così: “Circa cinque anni fa, sono iniziati i negoziati per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea.

All’inizio i negoziati non erano caratterizzati da un’atmosfera così aspra, così conflittuale com’è oggi.

A quei tempi io ero solito andare in giro per convegni e per conferenze a promuovere il mio paese come paese candidato all’adesione all’Unione Europea.

Spesso mi veniva rivolta questa domanda: ma l’Islam non sarà un problema nel caso di adesione all’Unione Europea?

E io non posso che fare questo esempio che riguarda il rapporto tra Islam e Cristianesimo: se l’economia della Turchia fosse tale da consentire di avere un reddito procapite così elevato, più elevato di quello dell’Europa, l’Islam sarebbe un problema?”

Pamuk ha continuato: “Lei poi mi ha chiesto quali potrebbero essere i vantaggi per la Turchia se la Turchia entrasse a fare parte dell’Unione Europea…

E’ abbastanza chiaro: se ci fosse questa adesione ci sarebbe un’economia più forte, un’economia migliore, una democrazia solida, lo stato di diritto, il rispetto dei diritti umani e la libertà di parola.

Tutti fattori che la Turchia non può riuscire ad ottenere da sola così come accade per altri paesi europei, che da soli non sono riusciti a raggiungere  questi obiettivi, ma con l’aiuto dell’Unione Europea si. Basti pensare che proprio grazie a questa prospettiva dell’Unione Europea la Grecia e la Turchia hanno già iniziato a parlare di pace.”

E infine, Pamuk ha detto: “Per quel che riguarda il posto che potrebbe occupare la Turchia in seno all’Unione Europea…

Non voglio parlare di questioni economiche che sono di pertinenza degli uomini d’affari, né tanto meno di questioni militari che sono di pertinenza dei soldati…

Queste sono cose che secondo me non hanno niente a che vedere con l’aspetto morale. Il posto della Turchia in Europa dovrebbe caratterizzarsi da una questione e da un’argomentazione di carattere morale e quindi: qual è questa argomentazione?

Ve la illustro subito: se l’Europa si basa sulla religione e la storia, noi definiamo l’Europa come un continente basato sulla religione e la storia? E se non è così… l’Europa è basata, forse, su altro? E che cos’è quest’altro?

Potrebbe essere la definizione dei francesi: libertà, uguaglianza e fratellanza e quindi sono definizioni che derivano direttamente dal Rinascimento italiano, dall’Illuminismo, dalla modernità…

E quindi, se l’Europa si basa proprio su queste premesse, la Turchia ha sicuramente un posto nell’Unione Europea, se soddisfa questi criteri. In questo caso, con l’adesione della Turchia, l’Europa diventerebbe più tollerante e veramente basata su solidarietà, libertà e uguaglianza.”

La seconda domanda politica che Sinibaldi ha rivolto a Pamuk riguarda un tema fortemente politicizzato, ovunque, anche in Italia: quello della Memoria. E Sinibaldi dice: “Io non voglio tornare sulle vicende del processo e della condanna che Orhan Pamuk ha rischiato per aver violato un articolo del codice turco, per aver parlato e ammesso e citato le cifre dello sterminio degli armeni e anche dei curdi, sulle quale voi sapete c’è una grande discussione… un milione due milioni, poi le cifre non sono così stabili quando le tragedie sono così enormi… di armeni uccisi. Il peccato originale che sta all’origine della Turchia moderna, contemporanea…”

Poi Sinibaldi, rivolto a Pamuk ha chiesto: “Che prezzo paga un paese che non vuole riconoscere la propria storia? Che non vuole fare i conti con la storia del popolo turco?”

(Alla fine di questa domanda Sinibaldi viene contestato da una donna che è tra il pubblico, che si avvicina al tavolo del dibattito e accusa Sinibaldi di rivolgere a Pamuk solo domande politiche… In platea si è avverte una certa tensione.)

Ma Pamuk, risponde alla domanda di Sinibaldi: “La prima conseguenza da pagare che subisce un paese che non vuole riconoscere la propria storia è la violazione della libertà di parola. E questo è il prezzo più alto che un paese moderno possa pagare.

Se non si ha la possibilità di parlare liberamente della Storia, si finisce col sopprimere questa libertà fondamentale, la libertà di parola.”

“Nel momento in cui viene a mancare la libertà di parola, viene anche a mancare la dignità umana. Questo è un peccato ancora più grave in quanto ci si sente colpevoli improvvisamente perché la dignità e la fiducia dello Stato viene meno, viene a mancare. Quindi noi dovremmo sicuramente basare la difesa della libertà di parola non su questioni economiche, ma sulla difesa della dignità umana.”

Poi Sinibaldi ha detto: “Noi non ci rendiamo conto delle difficoltà di parlare, dal punto di vista di Pamuk.” Poi, rivolto a Pamuk: “Lei ha detto una frase, forse solo una frase che mi piacerebbe capire e spiegare… in che modo Pamuk vede questo rapporto che non è solo sul fatto che due mondi si esprimono e si confrontano… questa frase l’ho trovata riassunta così: “Borges mi ha insegnato a fare i conti con la tradizione classica islamica” questa frase mi sembra formidabile…”.

E Pamuk ha voluto spiegare: “Nel 1985 sono andato a New York con mia moglie che stava seguendo un dottorato di ricerca alla Columbia University.

A quei tempi avevo già pubblicato tre libri in Turchia ed ero intenzionato pubblicare il quarto libro e mi stavo preparando psicologicamente a un nuovo libro, più lungo, più complesso”.

“Per la prima volta iniziai ad esplorare, a fare esperienza, della ricchezza che mi veniva regalata dalle biblioteche, dai musei, dall’industria del cinema… In una parola: mi accostai alla ricchezza della cultura occidentale. Fino a quel momento io ero stato un occidentale autodidatta. Avevo infatti studiato da autodidatta la cultura occidentale… Improvvisamente, potevo confrontarmi con la complessità . In quel mondo culturale occidentale così affollato, ho iniziato a pormi delle domande riguardo alla mia “turchità”.

Mi sono posto delle domande sul mio essere turco. Ho iniziato a chiedermi come potevo non perdermi in quella ricchezza, in quella cultura, in quella folla ricchissima di cultura… Quindi, ho iniziato a rivolgermi ai classici turchi, ai classici arabi, persiani e alla letteratura sufi. E in quel momento Borges e Calvino mi hanno aiutato moltissimo … Sono stati estremamente utili, proprio per il tipo di prospettiva, per lo sguardo che loro rivolgevano alla Letteratura e grazie al loro interesse per la metafisica.

Essi guardavano, per esempio, alla Letteratura medievale, non tanto per il contenuto religioso, ma per il contenuto allegorico e letterario. Fino a quel momento la letteratura classica, allegorica, islamica e sufi, dalla mia generazione era sempre stata considerata reazionaria, medioevale e quindi sicuramente non adatta ad un autore che voleva promuovere il modernismo e l’occidentalizzazione.

Ma negli Stati Uniti proprio grazie all’aiuto di Borges ho iniziato al leggere queste opere, a rileggerle con un occhio diverso, se così si può dire, ho iniziato a scavare nelle ossa dell’allegoria e quindi l’ho spogliata del suo aspetto religioso e l’ho vestita di una nuova identità, la metafora, la metafora della condizione umana. E proprio grazie a questa illuminante lettura ho iniziato a riscrivere e a raccontare la mia storia, ne ‘Il libro nero’.”

Poi Sinibaldi ha fatto a Pamuk, una domanda ironica e trasversale: “Ieri sera ero a cena con degli amici di Mantova. Erano delle persone molto gentili, amiche fra loro da tempo, molto vicine, democratiche… A un certo punto è cominciata una discussione su un campo nomadi che si trova alla periferia di Mantova, con una vicenda di irruzione poliziesca-giudiziaria che c’è stata di recente… Mi hanno raccontato questa cosa, c’era un’avvocatessa pure molto utile all’inizio… poi, come accade spesso in queste discussioni, si è cominciato a parlare d’altro… il tema della sicurezza occupa tutte le discussioni italiane in questo periodo, l’accoglienza, la differenza tra le culture… Alla fine questi amici si sono divisi, anche molto appassionatamente, su un nodo: se, come e quanto la cultura occidentale con i suoi valori, di accoglienza e democratici, sia superiore… Io ho detto che non avevo nulla da dire. Capita abbastanza raramente. Stavo zitto. Io vorrei sapere se Pamuk ha qualcosa da dire su questo. Se, per solidarietà, non ha nulla da dire, passiamo alla domanda successiva…”


E Pamuk ha risposto così: “Nel momento in cui andiamo a esplorare la questione della gerarchia dei valori possiamo cadere in una trappola molto pericolosa … c’è un’associazione di idee molto pericolosa che possiamo fare in quanto chi discute, chi parla di determinati valori, implica il fatto di credere a questi specifici valori. Io sono contrario a creare la gerarchia tra le diverse persone e i diversi popoli in quanto tutti gli uomini sono uguali. Se noi accettiamo come base, come fondamento, il fatto che c’è un’eguaglianza tra tutti gli esseri umani, allora possiamo discutere della gerarchia dei valori.

Attenzione: perché se non ci muoviamo seguendo questo percorso, rischiamo di cadere nel razzismo, rischiamo di pensare che alcune civiltà siano meglio di altre o che chi appartiene a una civiltà superiore sia un essere superiore. Ecco perché va benissimo parlare di una gerarchia di valori, ma non in relazione ad una gerarchia delle civiltà. Quindi noi dobbiamo dire che tutti gli uomini sono uguali, dimostrare questo assunto nella nostra vita quotidiana e poi vivere di conseguenza.

Ma la maggior parte delle volte, le discussioni sui valori rappresentano un modo ‘gentile’ di insultare altri popoli che appartengono ad altre civiltà.”

“Per dirla in modo semplice… Io credo nella civiltà occidentale nei valori occidentali ma non penso che cinque o dieci soldati occidentali che siano americani, occidentali o britannici abbiano meno valore di centomila duecentomila soldati iracheni.”

“E quindi questa discussione sui valori non deve assolutamente trascendere questa questione che vi ho appena posto altrimenti rischiamo di cadere nell’errore.”

Poi Sinibaldi ha chiesto a Pamuk: “C’è una domanda che non ho fatto e che si dovrebbe fare sempre mascherata per capire le ragioni per cui uno scrive… Nel discorso per il premio Nobel Pamuk risponde molto ampiamente e si pone ampiamente questa domanda: ‘Perché scrivo?’ Di fronte ai giurati del premio Nobel ha proprio ‘sciorinato’, esposto, i tanti motivi per cui lui scrive. E devo dire che è un elenco molto interessante perché Pamuk è uno scrittore anche complesso e forse la complessità della scrittura dei romanzi di Pamuk si capisce a partire da tutte le ragioni, in qualche modo le richieste, che lui fa alla sua scrittura…

E’ un elenco molto lungo, che contiene cose molto diverse ed è anche un elenco molto ironico, soprattutto perché rivolto a un pubblico come quello della giuria del premio Nobel. Non sarà all’altezza di piazza castello… però anche quello è un pubblico che va trattato bene…

No, lo dico perché accanto a motivi ‘scrivo per essere felice’ che per Pamuk, come avete ascoltato, è un’ aspirazione, ‘scrivo perché posso trasformare la realtà’, ‘scrivo per abitudine e per passione, perché ho paura di essere dimenticato, da solo, per chiudermi in una stanza…’ che sono tutti temi di questo testo, molto significativi: stare solo, chiudersi, questa dimensione quasi introvertita che Pamuk esprime nella sua scrittura pure così aperta al mondo… però dice anche due cose… pensatele rivolte al pubblico di Stoccolma, ma che io devo rivolgere a voi: “Scrivo perché ce l’ho con voi… Con tutti”, dice… Forse è la traduzione… “scrivo perché spero di capire il motivo di perché ce l’ho con voi e con tutti.” E allora, Pamuk, in questo luogo così affettuoso e ben disposto nei suoi confronti, forse può spiegarci….”

Pamuk risponde a Sinibaldi: “Grazie della domanda… veramente una bella domanda… vi dico subito che voglio essere sincero… cosiì come ho voluto subito essere sincero nel momento in cui ho pronunciato quel discorso. Ci sono due aspetti che convivono dentro di me… da una parte io sono una persona sociale… quindi mi piace a volte pero’ con riluttanza, far parte della pubblica e partecipata vita sociale… però mi hanno chiesto in quell’occasione perché scrivi?

E quindi, quando ho scritto il discorso da presentare al momento dell’accettazione del premio Nobel, ho voluto sottolineare anche l’altro aspetto che convive in me… cioè l’aspetto dell’irrazionalità. Io sono una persona arrabbiata, non so neanche perché, però mi rendo conto di essere una persona arrabbiata, e io nella mia scrittura solitaria seguo questa rabbia, io sono sempre stato fedele per tutta la mia vita a questa rabbia questa è una motivazione che è dentro di me e che rimane. Io sono arrabbiato con tutto e con tutti. Lo accetto, fa parte della mia natura.”

Sinibaldi rivolto al pubblico: “Mi sembra, a giudicare da tutte le cose che ha scritto Pamuk, che a lui piace un po’ giocare con le categorie… per esempio, mi ricordo una volta a chi diceva questa cosa ‘la Turchia, l’Oriente, l’Asia,’ io ho detto ‘ma guardate che io quando vado dal dentista dall’altra parte del Bosforo mica dico io vado in Asia…!’

L’ultima domanda vuole dissipare questa cosa… (Sempre un po’ di tensione attorno a Pamuk)... e riguarda il suo libro “Neve”.

Pamuk oggi non ha piacere quando si fanno gerarchie tra i suoi libri, né io ho intenzione di farlo… ma “Neve” è un libro perfetto dal punto di vista di Pamuk…”


Sinibaldi al pubblico: “Forse se avessi detto un altro titolo “Istanbul”, è un libro perfetto!  vorrei vedere se ci avrebbe applaudito… (applauso) “Il mio nome e rosso”? (applauso) Adesso cito un titolo non suo, voglio vedere se applaudite…

In “Neve”, questo mirabile capolavoro anche sul Velo irriducibile alle categorie schematiche della discussione politica, un grande libro anche su quella questione… Mi sembra che è come se ci fosse in questo personaggio che torna dall’esilio in Germania, torna e non và nella grande città, ma in questa città ai confini… và a Kars, e c’è questa stratificazione, appunto, la politica, però più in alto c’è la nazionalità, la religione, la tradizione, e l’amopre e la neve… Mi sembra che in quel libro Pamuk illustrasse, se c’è, la sua gerarchia, non è uno scrittore gerarchico, però lì mi sembra che la politica sepolta dall’amore e poi dalla neve passa su tutto…

Ma non volevo fare una domanda seria…. Volevo dire che in questo libro accade una cosa un po’ scioccante, per noi italiani… almeno quattro o cinque volte compare una canzone italiana questa canzone è Roberta di Peppino di Capri… e adesso potreste cantare per salutare Pamuk…”
Pamuk risponde a Sinibaldi con altrettanta simpatia e ironia: “Devo ricordarvi che Peppino di Capri sette anni fa è venuto a Istanbul proprio nel momento in cui stavo scrivendo “Neve”. Io sono un grande ammiratore, un grande fan di Peppino di Capri… e quindi sono andato al concerto… e mi è piaciuta molto quest’atmosfera malinconica che si respirava quando si sentivano determinate canzoni e quindi era inevitabile che io questa canzone la mettessi anche nel mio romanzo. E quindi ho voluto inserire questi due temi nel mio romanzo… la malinconia e Roberta che appunto faceva parte di questa cultura popolare che era comunque molto in auge …. tra noi, giovani della borghesia, tristi…”

L’ultima provocazione di Sinibaldi: “Il problema è quando Roberta appare: il personaggio, Ka, in testa aveva Roberta e s’immaginava come triste e romantico protagonista di un romanzo di Turgenev mentre va incontro alla donna sognata per anni… e allora l’ultima domanda che vorrei fare a Pamuk, ma che non faccio, è che c’entra Peppino di Capri con Turgenev … questa cosa non l’ho capita, quindi non risponde così noi rimaniamo con il dubbio…” Pamuk: “No, voglio rispondere… A Turgenev piace la tristezza e in qualche modo i romanzi di Turgenev e le canzoni di Peppino di Capri sono legate alla tristezza.”  Mantova, sabato 8 settembre 2007

 

Marino Sinibaldi è nato a Roma, dove vive e lavora come vicedirettore dei programmi radiofonici di Rai Radio3. Tra i fondatori della rivista “Linea d’ombra”, ha pubblicato saggi di sociologia e critica letteraria, tra i quali “Pulp. La letteratura nell’era della simultaneità”. Collabora con giornali e riviste ed è autore e conduttore di trasmissioni radiofoniche e televisive (“Fine secolo”, “Lampi”, “Senza Rete”, “Supergiovani”, “Tema”, “La storia siamo noi”). Nel 1999 ha ideato “Fahrenheit”, programma culturale del pomeriggio in onda su Rai Radio3. Dal 2010 collabora anche con “Il Post”, la rivista online fondata da Luca Sofri.

Bibliografia

“Pulp. La Letteratura nell’era della simultaneità”, Donzelli, 1997
Natalia Ginzburg, “È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi”, a cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg, Einaudi, 1999

 

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