Salman Rushdie presenta la sua autobiografia a Berlino

La libertà di espressione sopra tutto, ma un conto sono gli attacchi verbali e un altro alle persone: a sottolinearlo è lo scrittore Sulman Rushdie, prima vittima, con la Fatwa emessa contro di lui dal regime iraniano nel 1989 per il romanzo I Versetti Satanici, di una lunga dinastia di ‘eretici’ occidentali messi all’indice dall’Islam, e pretesto per una scia di attentati, omicidi e violenze come quelle scatenate ora dal film su Maometto The innocence of Muslims.

“Anche il Papa viene preso in giro tutti i giorni ma non si vedono cattolici fare attentati per il mondo”, dice. In un incontro a Berlino dall’Editore Berteslmann per l’uscita del suo ultimo libro – presente il gotha dell’editoria tedesca incluso il direttore per la cultura della Frankfurter Allgemeine Zeitung, Frank Schirrmacher (nella foto sotto) – Rushdie, rispondendo ai giornalisti, respinge il termine islamofobia: “non amo questa parola, tutto è legittimo”, la critica, la satira ma non la violenza. “Bisogna distinguere gli attacchi alle idee dagli attacchi alle persone”.

Poi, continua dicendo: “La risposta alle parole deve venire sempre da parole”. Per quanto uno possa essere “nauseato e disgustato” dalle parole di qualcuno, il dissenso deve essere manifestato con lo stesso mezzo, dice facendo l’esempio di Guenter Grass, bandito di recente da Israele per una poesia in favore dell’Iran, ma da lui difeso pur non condividendo la sua posizione. “La gente usa la scusa dell’offesa per vendicarsi: ma non esiste un diritto a non essere offesi, è assurdo”.

Rushdie dice di non voler essere un’icona, “di non essere la Statua della libertà”: invece sì, ribatte Schirrmacher. Questo libro è un monumento, un capolavoro, “un libro incredibilmente onesto, avvincente, accolto in tutto il mondo con entusiasmo, e’ il racconto, in terza persona, della sua vita e della Fatwa”.  Era il 14 febbraio 1989 quando l’Ayatollah Khomeini lo condannò a morte: “il primo caso di guerra dichiarata a un individuo”.

Uscito a metà settembre in tutta Europa (in Italia con Mondadori), l’autobiografia di Rushdie è intitolata ‘Joseph Anton’ – 700 pagine – il nome che lui si scelse quando la polizia inglese gli chiese di trovarsi uno pseudonimo: un’identità, come racconta Rushdie, composta dai nomi dei suoi autori più amati: Joseph Conrad e Anton Chekov.

Lo scrittore – 65 anni, nato a Bombay, figlio di un uomo d’affari musulmano, trapiantato in Inghilterra (scrive in inglese) e ateo -racconta cosa significò per lui la Fatwa. Fu una giornalista della Bbc che lo quel giorno di San Valentino lo informò: “ma chi aveva mai sentito parlare della Fatwa? La mia generazione si batteva per i diritti umani, “mai avremmo pensato che la religione, il totalitarismo fanatico, sarebbe balzata al centro:parole come eresia,apostasia, blasfemia erano nuove”.

All’inizio non la prese molto sul serio (un corrispondente americano gli disse non ti preoccupare il nostro presidente viene minacciato ogni venerdì di morte dall’ Ayatollah) ma ben presto si capì che la cosa era molto seria. Nuova identità, scorta di sicurezza, cambio di case, rischi per sé e la famiglia. Il primo figlio aveva nove anni e 21 quando tutto è finito, a 20 sua madre è morta di cancro al seno, difficile essere un buon padre così, ma per fortuna lui è un tipo calmo e sereno, molto più di me”. Quando è nato il secondo figlio “ero molto preoccupato, fu un atto di ottimismo averlo: ora ha 15 anni e non si ricorda nulla di quel periodo”.

Oggi “non è ancora finita” aggiunge Rushdie ma si sente più sicuro: “negli ultimi dieci anni non c’e’ stata nessuna reale minaccia”. Lo scrittore poi racconta di chi fu solidale e chi no (John Le Carre), e chi fu “ostile o riluttante perché non voleva essere coinvolto”. Gli stati più impegnati furono Norvegia, Danimarca e Canada. La sua vita cambiò ma si è sforzato di non lasciarsi condizionare nella scrittura: “non penso che sia cambiata, ma non credo ci sia una cesura nei miei libri, mi sono sforzato”. Altrimenti farsi spaventare, o scrivere per vendetta “sarebbe stato come una morte, come distruggere un artista”.

Se Teheran abbia mai cercato di contattarlo? “No, mai – risponde con humor tutto british – hanno solo cercato di uccidermi”.

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