Il luogo della poesia di Mario Benedetti

Mario Benedetti, nella foto di Dino Ignani

Mario Benedetti. Il poeta che ha trasformato la morte nel morire

di Luigia Sorrentino

“E’ stato un grande sogno vivere / e vero sempre, doloroso e di gioia”, scrive Mario Benedetti in Umana gloria (Mondadori, 2004). Il verso sembra una confessione fatta in punto di morte. La voce arriva come un soffio. Imprime, in chi ascolta, coraggio, perché fa comprendere che la vita di ogni essere umano è – o dovrebbe essere – nella totalità, coscienza ispirata. Questa è la prima riflessione che i versi trasferiscono. La voce-soffio fa penetrare in chi ascolta, come una gioia.

Eppure il poeta sta dicendo che dal grande sogno della vita ci si risveglia morendo. E’ in quell’istante che il sogno scompare e lascia in chi ha sognato di vivere, una verità dolorosa e di gioia. E questa è una delle molteplici dimensioni nella quale si muove la poesia di Mario Benedetti: in Umana gloria,  in Pitture nere su carta, Materiali di un’identità, Tersa morte. Siamo sempre nell’estensione del lasciarsi, del dirsi addio.
Così si legge nella prima poesia contenuta in Umana gloria:

Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono

Non abbiamo creduto che fosse così:

ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.

Ma questo dissolversi no, e lascia dolore
su ogni cosa guardata, toccata.

Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.

Siamo di fronte a una poesia che s’identifica con un’entità immaginaria, una persona del suo tempo, che sostiene una verità senza alcuna retorica. Il parlante ascolta, intuisce se stesso come interiorità e rivela un’ autenticità che non sempre siamo disposti ad accettare. Il lettore è quindi invitato a liberarsi dalla sua dimensione esistenziale e a entrare in un essere di carta che parla di un io che s’identifica con il suo tempo, con uno stratagemma letterario.

Sempre la poesia porta in una dimensione del vero, dalla quale possiamo lasciarci invadere per poi ritornare a noi stessi, per calzare la maschera che nasconde il nostro volto nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni.

“E stato un grande sogno vivere/ e vero sempre, doloroso e di gioia”.

Ripetendo i due versi, seduti accanto alla persona che li pronuncia in punto di morte, tenendogli stretta la mano, avvertiamo la vibrazione, la risonanza che percuote la cassa armonica del nostro torace e si congiunge al sentimentodel morente. Siamo nella ragione poetica che è coscienza e al tempo stesso coscienza ispirata.

Aumenta l’intensità della vibrazione.

Il suono della parola pronunciata mette al riparo dalla paura, dall’angoscia, dalla menzogna, dall’isolamento, dalla solitudine.

Chi assiste trova in questi pochi versi, in solo due versi, l’adempimento della propria esistenza.

Il grande sogno del quale ci parla Benedetti, il sogno della vita che se ne va, è come una rosa ardente. Sereno, umile, il canto della voce che annuncia indefinitamente la profondità del lasciarsi. Chi ascolta è sostenuto dallo sguardo del poeta. Il filo di voce si trova su un territorio di confine: “E’ stato un grande sogno vivere/ e vero sempre, doloroso e di gioia.”

Il verbo coniugato al passato prossimo, circola dal limite della coscienza.

L’architettura del verso si protende e chiude il secondo verso sulla parola “gioia”. Lì, nel grande sogno, si accumula ogni spazio della vita, anche i momenti dolorosi, tutto.

Il poeta italiano, Mario Benedetti, un io lirico strutturale, sistematico e potente, affonda se stesso nell’esperienza scomparendo o estinguendosi proprio come fanno i sogni, in una coscienza ispirata. A essa si sovrappone la nostra storia individuale.

La scelta che possiamo fare noi come lettori e amanti della poesia?

Restare o lasciare queste parole.

 

È stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.

Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.

Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,

il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.

Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

Da: Umana gloria, di Mario Benedetti (Tutte le poesie, Garzanti, 2017)

Gianluca Fùrnari, la rivelazione poetica del 2016

gianluca

Gianluca Fùrnari, Premio Poesia Città di Fiumicino per l’Opera Prima 2016

di Luigia Sorrentino

Carmina vel caelo possunt deducere lunamI canti possono trarre giù dal cielo la luna. – E’ il verso tratto da Le Bucoliche di Virgilio e posto in epigrafe a Vangelo Elementare di Gianluca Fùrnari (Raffaelli Editore, 2015): ciò che non è concesso all’uomo può farlo la poesia. Il canto del poeta è capace di generare un’energia fenomenica superiore, e, con quella forza attiva, compiere la realtà, trasformarla, per poi trovare in essa piena corrispondenza. I Carmina ai quali fa riferimento Fùrnari, conservano nell’etimo l’antico significato di incantesimi, sorgenti di illusioni, rituali, capaci di riunire, mettere insieme, una forza reale, tangibile, che supera l’immaginabile. I Carmina sono un’azione collettiva molto più forte di quella compiuta da un uomo solo: “Eravamo invincibili nel canto/ come rivolta, noi dominavamo/ la forza formidabile dei nomi”. Continua a leggere