Ruggero Cappuccio mette in scena “il giovane Rossini”

Dal 18 aprile 2012 è in scena al Teatro dell’Opera di Roma la più amata delle opere di Gioachino Rossini, Il barbiere di Siviglia. Il nuovo allestimento, in coproduzione con il Teatro Giuseppe Verdi di Trieste, del capolavoro rossiniano è firmato per la direzione d’orchestra da Bruno Campanella e per la regia da Ruggero Cappuccio; le scene sono di Carlo Savi, i costumi di Carlo Poggioli. Maestro del Coro Gea Garatti Ansini.

“Nell’allestimento del Barbiere di Siviglia – ha detto il regista Ruggero Cappuccio – metterò in scena Gioachino Rossini. La regia si concentra sulle notti febbrili del grande compositore che a soli ventiquattro anni scrisse un capolavoro destinato ad attraversare i secoli con travolgente vitalità. Un giovane attore, infatti, impersonerà Rossini alle prese con il suo tumulto creativo, mentre lo spettacolo diventa una soggettiva giocosa e malinconica sviluppata dall’angolazione del musicista. Nel Settecento sospeso, creato dallo scenografo Carlo Savi e dal costumista Carlo Poggioli, Rossini determina le azioni dei suoi interpreti, come posseduto dagli spiriti che animano il suo melodramma buffo e geniale”.


La poetica rivoluzionaria del sogno di una nuova società, alle radici della commedia del francese Beaumarchais, nell’opera buffa rossiniana coinvolge i protagonisti in un intreccio musicale e drammaturgico perfetto, dal gioco degli equivoci abilmente costruito dall’irriverente barbiere-factotum fino allo scioglimento finale. Il giovane conte di Almaviva – con la voce e il volto del tenore argentino Juan Francisco Gatell che si alternerà con Alessandro Luciano il 19 e 21 aprile – e la sua innamorata Rosina, il mezzosoprano Annalisa Stroppa (Marina Comparato il 19, 21 e 24 aprile), riusciranno a coronare il loro sogno d’amore grazie alle astuzie di Figaro, interpretato da Alessandro Luongo e da Vincenzo Taormina il 19 e 21 aprile; nel ruolo di Bartolo, Paolo Bordogna si alternerà con Marco Taormina (19 e 21 aprile).


Il barbiere di Siviglia, dopo la prima del 18 aprile, sarà in scena giovedì 19 (20.30), venerdì 20 (20.30), sabato 21 (18.00), domenica 22 (17.00), martedì 24 (20.30) e giovedì 26 aprile (20.30). Info: www.operaroma.it

“UN CORTO CIRCUITO TRA EPOCHE”
Conversazione con Ruggero Cappuccio
di Marco Vallora

Proviamo a fare un gioco psicoanalitico. Se le dico a bruciapelo ‘Barbiere’, che cosa le viene in mente subito, senza riflettere?

La prima parola che mi viene in mente parlando di questo Barbiere, il mio intendo, è sogno. Un dato biografico ci dice che Rossini ha composto questo capolavoro, quando aveva soltanto ventiquattro anni, e questo è per noi incredibile, anche in senso storico. È vero che i ventiquattro anni di quell’epoca, in pieno Ottocento, non sono quelli della nostra epoca.

Certo, basta pensare a quello che Mozart e Leopardi bambini, per dirne solo due, riuscivano a fare…
Appunto, io pongo la mia regia sotto questo segno, o sogno. Quello che metto in scena è fondamentalmente un/il Barbiere di Siviglia, che il giovane Rossini, giovanissimo genio, sta componendo. L’opera, durante la sinfonia iniziale, si apre con Rossini, disteso sopra il suo pianoforte, stremato dalle fatiche della sua composizione, ma pronto a ridar vita alla sua creatura.

Lo vediamo solo all’inizio, o continuerà poi, pirandellianamente, a ‘menare le danze’, animando i fantasmi della sua fantasia?
Abbiamo in scena un attore, giovane e bravo, che vuole il caso abbia anche lui ventiquattro anni, ed assomigli pure al giovane Rossini. Non parla, ma anima, ridà vita alla sua creatura. Lo vediamo nella scena della serenata di Almaviva, sotto la finestra di Rosina. Mentre Rossini dorme sul suo pianoforte, c’è un passaggio musicale in cui tutti coloro che sono in scena, Almaviva, Fiorello, i musici, si bloccano come in un fermo-immagine ed occorre che il nostro Rossini si risvegli, sieda al suo pianoforte e rincominci a comporre, perché l’azione scenica si rimetta in movimento, si rianimi.

La musica che si ferma, la regia che s’intromette…Qualche osservatore più bacchettone potrebbe anche mugugnare che… insomma, lesa maestà. Per fortuna, che c’è l’assicurazione d’un garante ‘storico’ e autorevole come il maestro Campanella….
Anche io non ho voluto apportare nessuna rottura, attenzione! Nessuna ferita musicale, per carità. E poi con il maestro c’è grande complicità, un rapporto consolidato, direi straordinario. Abbiamo già fatto L’elisir d’amore, qui all’Opera. Lui è presente a tutte le mie prove di regia e io alla sue. Così le cose ‘vengono su’ insieme. Un incrocio che oggi pare non avvenga più, ognuno fa il suo mestiere e quando ci si ritrova insieme, spesso è troppo tardi per cambiare le cose. Anche per i cantanti apprendere parte registica e parte musicale è molto importante, proficuo. Acquistano una sicurezza che altrimenti non avrebbero, non devono ‘guardare fisso’ il direttore, tutto diventa più fluido. Non hanno più paura di perdersi in uno spazio che non conoscono…

Ma che cosa succede ai cantanti quando si trovano accanto il loro Compositore, il fantasma di Rossini?
Attenzione, non è che Rossini sia onnipresente ed invasivo, appare all’inizio del primo atto, in un’apertura significativa e in altri tre momenti del secondo atto, basta. Qui sì, noi avvertiamo come una strana sensazione ambivalente, ma non direi straniata, brechtiana, no. Semmai ci domandiamo se sono i cantanti ad avvertire Rossini come fantasma, o è Rossini ad avvertire loro come fantasmi, come creature della sua fantasia.

Prolungamenti animati della sua fantasia, e dunque torniamo a Pirandello, personaggi-larve, in attesa di un creatore che come il Golem ridia loro forza e respiro.
Sì, forse attivano un gioco che qualcuno potrebbe leggere come pirandelliano, ma a me in realtà interessa di più questo aspetto di gioco, appunto giovanile, vitalistico. Non dobbiamo dimenticare che si tratta d’una commedia, un dramma giocoso scritto da un ventiquattrenne, che si divertiva e sapeva divertire. In realtà mai nulla deve fuoriuscire da questa sensazione di leggerezza e di gioco. Il senso di questa figura in concretizza la giovinezza senza tempo di cui quest’opera gode tutt’oggi.

Ma il ‘suo’ Rossini entra dentro il racconto musicale, per essere espliciti: ‘tocca’ le sue creature, le sfiora, si lascia avvertire da loro o passa inavvertito, visibile solo per il pubblico moderno?
Sfiora le sue creature. C’è un momento molto significativo, secondo me, nel primo atto, quando Rosina attraversa la scena, o meglio una sorta di parete di luce, un diaframma e lì, quando anche Rossini si manifesta, per un attimo finiscono come spalla a spalla, il musicista la affianca, ma non la tocca, non sappiamo se lei lo avverta come persona, ma certo sente intorno a sé come un’entità misteriosa, impalpabile che la inquieta. Tutto sta proprio in questo sogno di letizia e di levità, che si sublima in divertimento e nostalgia.
Non ho mai cercato di scindere il legame tra malinconia e divertimento, ma è importante che rimanga comunque uno spettacolo vivo, con una grande energia scenica, e per fortuna ho a disposizione cantanti-attori giovani, prestanti, che sanno interpretare e partecipare a quello che mettono in scena, persino nei recitativi, che spesso molti trascurano come se si trattasse d’una materia obsoleta, una zavorra, che bisogna mantenere, ma gettandola via frettolosamente, su cui è meglio non soffermarsi per arrivare subito alle arie.

Un errore tipico da vociomani, che non capiscono nulla della bellezza delle opere anfibie e non si rendono conto che qui c’è di mezzo anche Beaumarchais.
Va da sé, anche il testo è magnifico e brillante ed ancora moderno ed è ovvio che io provenendo dal teatro di prosa, tenda molto a lavorare attentamente con i miei interpreti proprio anche sulla recitazione e sulla valorizzazione del libretto e della parti parlate. Non possiamo dimenticare che oltre a Rossini anche il librettista Cesare Sterbini aveva creato con lui un tandem lirico affiatatissimo. Era un uomo di teatro vero, squisito…

Di multiforme ingenio, come si diceva una volta…
Sì, tra l’altro i suoi contemporanei e ammiratori lo raccontano come un abilissimo improvvisatore di versi. Era un fantasista della parola intorno a cui ruotavano gran parte delle farse popolaresche romane, attento alle maschere della Commedia dell’Arte e ad una comicità in stile Meo Patacca.

Basta vedere i bozzetti per i costumi di Poggioli per capire che anche questo aspetto Commedia dell’Arte-improvvisazione-citazione visiva è stato calcolato, se non proprio esplicitato.
Commedia dell’arte e improvvisazione, certo, ma teniamo sopratutto conto che all’epoca librettista e compositore creavano un personaggio calibrandolo su un interprete che sapevano già bene chi sarebbe stato.

Ma anche in questo caso c’è spazio se non alle gigionate, almeno all’improvvisazione libera del cantante?
No, non fino a questo punto, non esageriamo. Se in un gioco d’immaginazione mi figuro che Don Bartolo potrebbe essere una sorta di Aldo Fabrizi ottocentesco, e provo ad ipotizzare che Figaro sia in realtà una sorta di idea platonica del prototipo italico-Albertosordi, allora ci rendiamo conto che davanti ad un artista improvvisatore, quando arrivava il momento di imbastire gli inediti recitativi quei lazzi e quelle ironie scatenavano reazioni paurose di comicità e di risate, che oggi non riusciamo più nemmeno ad immaginare. Ed infatti non si trattava di recitativi impostati liricamente, ma proprio recitati. Poi dopo, storicamente, quando tutto il mondo si è orientato belcantisticamente, le cose cambiano, ed anche questo tipo di comicità popolare subisce una virata. I recitativi, alla Cimarosa o alla Mozart per intenderci, assumono un altro aspetto, raggiungendo una sorta di accademismo della perfezione scenica, che perde però un po’ della sua autenticità. Teniamo conto, del resto, che allora le specializzazioni degli artisti non erano ancora altrettanto nette, e durante l’epoca cosmopolita della Scuola Napoletana, capitava che molti cantanti, che tenevano a battesimo opere, che so, di Paisiello o di Cimarosa, la settimana dopo potevano benissimo esser scritturati per interpretare Goldoni o un altro autore di prosa. Ed è inevitabile che, trattandosi di artisti celebri, beniamini del pubblico, portavano con sé ogni volta, per risollevare i recitativi, un bagaglio di sketch, di comicità, che il pubblico si attendeva. Sono cose oggi tutte dimenticate, perdute, sfiorite, se ti senti dire che in Arlecchino servo di due padroni, c’è il cosiddetto “lazzo della mosca”, tutti ti guardano senza capire, eppure se vanno a teatro e c’è Ferruccio Soleri che lo inscena, ecco allora, apriti mondo, dalle risate che vengono giù.

Riusciamo ancora ad immaginare quali mondi Rossini sapeva aprire, con la sua comicità?
No, però proviamo ad immaginarlo mentre sedeva al clavicembalo, al Teatro Argentina, dove il Barbiere fu tenuto a battesimo, ed anche lui è lì che certamente si divertiva a quelle improvvisazioni di struttura.
Oggi è come riproporre una sceneggiatura su testi di Totò, ma senza Totò, certo è un problema, ma bisogna provarci e con energia.

Ecco, Rossini al clavicembalo dell’Argentina, si diceva, atmosfere settecentesche, tinta da opera buffa. Però qui il finto-Rossini, per lo meno a guardare i bozzetti di Carlo Savi, così flou, immateriali, un po’ alla Lila de’ Nobili, compare in scena disteso su un pianoforte romantico, ottocentesco, quasi chopiniano, almeno da schubertiade. Un po’ come in omaggio al film-opera degli anni Cinquanta, Carmine Gallone, Matarazzo, ecc.? Ma in che secolo è ambientato davvero il tutto, in un sogno di Settecento?
Certo, il pianoforte è un segno romantico, Ottocento, inequivocabile, però è come trasognato, tracciato come in uno sfumato pastello, con una cassa armonica a colori nebulosi, che potrebbero anche essere floreali, che vengono appunto dal nostro patrimonio visivo dell’arte liberty, fuori tempo.

Un pastiche sulla carta rischioso. Ma si tratta di ‘aggiornamento’?
Teniamo conto del Settecento comico d’epoca, ma anche del momento di passaggio in cui è stata scritta da Rossini. Però, no, non aggiornamento, non mi piace questa parola. I registi che affrontano la lirica, nel mondo ed in Italia, sono spesso stretti tra due pericoli, due manierismi. Il primo manierismo è quello di mettere in scena l’opera come sempre è stata messa in scena, cioè secondo un richiamo alla tradizione, quale che sia. Però in realtà questa tradizione nessuno lo sa che cosa sia stata, in verità ed oggettivamente. Persino il Settecento di Rossini era già ‘rifatto’, secondo tradizione, ma lui sapeva davvero che cosa era questa tradizione? Se uno si sveglia un giorno e dice: mi piacerebbe mettere in scena Edipo a Colono…

… cosa che lei ha fatto, a teatro, molto…
C’è il rischio che si vada a sbattere contro una parete morta, perché per quante ricerche e analisi e ricognizioni tu abbia fatto, come fai a sapere davvero che cosa accadeva là e come recitavano, carnalmente, gli attori dell’epoca, non lo sapremo mai. Fare un omaggio alla tradizione rischia sempre di essere una finzione, un manierismo.

E il secondo, l’altro pericolo?
È il secondo manierismo, se il primo è oleografico: “facciamo l’opera come è sempre stata fatta” rischia di diventare arbitrario, oltre che morto, presepiale, più che essere tradizione diventa superstizione visiva. Il secondo pericolo, o meglio vero manierismo opposto, è quello di tradire tutto, a tutti i costi, per avere in qualche modo uno shock, una trovata. Ahimé, abbiamo visto quintali di opere, nell’ultimo trentennio, provenienti da tutto il mondo, in cui ad un dato momento compare in scena un personaggio con gli stivaloni e l’impermeabile nero, e non è più possibile sopportarlo, a meno che non si tratti di una regia magnifica. Può capitare, per carità, ma basta opere inscenate dentro i campi di concentramento, ormai si tratta soltanto di stanchissimi cliché, qualcosa di sterile e di usurato.

E allora, qui?
C’è una bella distinzione tra attualizzazione e modernità. Sono due concetti diversi. Per intenderci. L’attualizzazione è quando, in un’opera, trovo un personaggio che ha fame, è allora giù con una regia sull’anoressia o la bulimia. La modernità, invece, significa massima essenzialità, ma massima essenzialità significa classicità, e dunque, che cosa è la vera modernità, un neo-classicismo capace di parlare all’oggi, all’ieri e al domain. È come avere in regalo un bellissimo quadro della scuola toscana del Cinquecento, da mettere in una casa di stile contemporeneo. Che fai? Rifai tutta la casa in stile cinquecento, buttando via il resto, per intonare il dipinto al resto, oppure ci metti intorno una cornice modernissima, e cerchi di trovare per l’opera la parete giusta, di illuminarlo nella maniera acconcia, sposti qualche altro oggetto, in modo che si intoni al nuovo regalo, creando un dialogo tra la contemporaneità e l’antico? Ecco, è quello che deve succedere con una regia, secondo me.

Un Settecento riallestito, rimemorato, riambientato?
Ovviamente non posso avere l’ambizione di rimettere in scena un Settecento come era. Posso tentare di dare una visione mia, contemporanea, di quel Settecento, ed in questo senso Rossini sul palcoscenico mi aiuta a farlo. C’è una grande differenza tra la pretesa di simulare un’epoca che non esiste più e raccontare la tua visione soggettiva di quel mondo.

La forza della parola, così importante per tutto il suo lavoro, di scrittore, di romanziere, e di versificatore per il teatro. La parola come musica.
Io credo nel potere narrativo della musica, e questo è molto importante, sono sì fedele al libretto, ma bisogna anche ascoltare la voce narrativa della musica, la musica che evoca, un racconto in musica è molto più forte e radicale di un racconto con le parole. Nella mia versione di Tieste la proiezione delle sculture di Villa Palagonia ci proiettava in uno spazio senza tempo, che coglieva l’idea del potere mafioso come una cerimonia sacrificale, anni Quaranta, ma come atemporale, che aveva i suoi riti, le sue sceneggiature comportamentali, le sue cerimonie, eppure era difficile non sentire che si era negli anni Quaranta.

Un tempo mitico moderno.
Sì, va bene così, proprio mitico moderno, anche per questo Barbiere. Quel che davvero mi interessa è un corto circuito tra epoche e che spero risulti un’addizione di potenza, rispetto a quello che vediamo e che ci aspettiamo.

Alludi, sottolinei, strizzi l’occhio. Qui invece?
Io non credo che il classico sia un peso che vada levato, ritagliato via, che annoi. Anzi, penso che Rossini sia molto più moderno di mille rockettari di oggi. La modernità non è collegata alla data di nascita, ma all’azione di pensiero. In questo senso il nostro Barbiere mette in scena delle forme settecentesche, con dei riflessi che li rispecchiano e riverberano all’infinito, sino a sfondare il palcoscenico, e creano come una sorta di parete destabilizzata, obliqua, poco verosimile, architettonicamente. Si potrebbe davvero dire che si tratta d’un gioco con le forme settecentesche dell’abitare.

Dai bozzetti si ha come l’impressione che una grande specchiera pneumatica e trasognata, vistosamente dipinta, si sposti continuamente per gli atti, irrequieta, diventando via via sovrapporta, finta quinta, elemento di racconto visivo, sfondando la prospettiva classica, un po’ come in certe scene posticce di Bébé Bérard per Cocteau.
In effetti ogni tanto nello spettacolo la specchiera si sposta e lascia intravvedere il cielo, ma ad un tratto il nuvoloso cielo settecentesco diventa quello di Magritte.

E così i costumi, citati, pittorici, sfumati.
Anche lì siamo in una sorta di senza-tempo, di sospensione degli stili, e molte forme echeggiano la moda di certi grandi stilisti di oggi, che hanno rimesso in voga volages, voiles, jabots, pizzi, redingote, e certi scarpini, che sono assolutamente settecenteschi.

Un po’ da cicisbei, insomma, Galliano che sostituisce Coco Chanel e Schiaparelli.
Appunto, un gioco con la moda sbizzarrita e garrula di oggi, e lo specchio che riflette e cangia, anche se non è di specchio, ma di policarburato riflettente.

1 pensiero su “Ruggero Cappuccio mette in scena “il giovane Rossini”

  1. Dov’e’ scomparso il mio commento? La mia brevissima storiella sul sacrestano della cattedrale Saint Sauveur d’Aix en Provence e Francois Couperin.

    Sarebbe piaciuta molto a Ruggero. Cerchero’ di riscriverla e la inviero’ anche al critico.

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