Pulitzer per la narrativa: una svolta epocale?
di Nicola D’Ugo
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Pomeriggio grigio a New York il 16 aprile. Seguito dal gelo diradante nella notte buia. Non toccava le case, né le strade della Grande Mela, ma espandeva i suoi fini tentacoli nelle sale dove erano stati appena annunciati i vincitori del Premio Pulitzer, nelle stanze ronzanti delle case editrici sparse qua e là oltre gli Appalachi e le sconfinate radure d’America, dei giornali brulicanti, dei tanti scrittori che speravano di poter vedere il proprio nome o quello del proprio editore tra i finalisti, se non di ambire ad un riconoscimento troppo importante per essere anche solo sperato.
Perché proprio l’atteso premio per la narrativa era il grande assente: nessun romanzo, nessuna raccolta di racconti figurava nella lista dei vincitori. Solo una sedia vuota, un posto vacante e la dicitura No award, «Nessun premio». L’accompagnava una targhetta insolitamente lunga, appesa lì, sul portale del Premio: il nome dei tre finalisti, uno suicidatosi tre anni fa, e due vivi e vegeti, i quali non sapevano quale significato dare al loro essere accomunati in quel luogo col più celebrato morto della letteratura recente, loro e lui, perenni finalisti di un anno infausto.
Erano 35 anni solari che la Commissione del Pulitzer non pronunciava il nome ambito, fosse quello che fosse. Sarebbe stato strano aspettarsi un nuovo vincitore quest’anno? Forse non tutto è dovuto, forse i premi che contano hanno paura di diventare rituali e non c’è nulla che faccia peggio all’arte espressiva, alla comunicazione, della ritualità di gesti previsti, ripetuti. Così, a sorpresa, ecco che ripiombiamo in quegli anni Settanta che avevano caratterizzato un periodo grigio: per ben tre volte in un decennio la giuria del Pulitzer non assegnò il premio per la narrativa, facendo torto a molti (Welty, Bellow, Oates, Pynchon, MacLean), per riscattarsi poi coi primi due (1973 e 1976).
Ma il decennio nero furono gli anni Cinquanta: per due volte il Pulitzer per la narrativa non fu assegnato e per il resto fu un gran pastrocchio. Per non sbagliare puntarono sui bistrattati e a quel punto affermatissimi Hemingway e Faulkner. Fu una mancanza di autori? No, ce n’erano di fin troppo innovativi: scrittori che son diventati maestri per le generazioni future. In quel decennio vennero pubblicate opere di narrativa che han fatto e fanno scuola per stile, linguaggio, descrizione sociale, introspezione psicologica, con grandi rotture espressive rispetto al passato.
Tra questi, alcuni capolavori di J. D. Salinger (Il giovane Holden e Nove racconti), di Flannery O’Connor (La saggezza nel sangue e La vita che salvi può essere la tua), di Bernard Malamud (Il migliore, Il commesso e Il barile magico); di Saul Bellow (Le avventure di Augie March e La resa dei conti), di Eudora Welty (Racconti scelti), di Jack Kerouac (Sulla strada), di Nabokov (Lolita), di Capote (Colazione da Tiffany), ed altri ancora, tra cui la voluminosa raccolta La ballata del caffè triste (1951) di Carson McCullers e La valle dell’Eden (1952) di Steinbeck. Nessuno di questi autori fu preso in considerazione dal Pulitzer.
Ok, quest’anno niente Pulitzer per la narrativa. Meglio. Perché il Premio forse aveva preso un andante da industria culturale. Lo scorso anno Jennifer Egan, per averlo vinto, fu inserita dal settimanale Time tra le 100 persone più influenti del mondo, assieme a Mark Zuckerberg, Angela Merkel, Joseph E. Stiglitz, per intenderci. Il suo è un buon romanzo davvero, con situazioni buffe, grottesche, ed atmosfere che hanno il merito di appiccicarti addosso il loro umore agghiacciante, ma siamo forse lontani (chissà?) dalla qualità di opere narrative che il Pulitzer non l’hanno vinto mai e l’influenza l’hanno esercitata davvero. Non per sminuire Egan – la quale può fare strada, per capacità espressiva e per sforzo innovativo degno d’ammirazione – ma per mettere in risalto la piega che ha preso l’industria culturale, di cui al Pulitzer devono essersi accorti.
La cultura è un rivestimento con cui si abbelliscono imprese votate a far cassa coi libri: avere un Pulitzer in catalogo fa gioco per vendere molta spazzatura. Non assegnarlo fa andare su tutte le furie gli editori, come sta avvenendo in questi giorni in America. Perché la narrativa si screditi da sé quale portatrice di cogenti raffigurazioni mitiche e quale potente mezzo di riflessione basta che gli autori continuino ad associarsi ai grossi editori generalisti, negli stessi cataloghi dei venditori di fumo. Magari cercando di far soldi a palate, e vedere le proprie opere ridotte in soggetti d’intrattenimento televisivo. Non realizzate da Peter Brook, Jean-Luc Godard o Aronofsky, ma da registi che devono accattivarsi il maggior numero di acquirenti.
Quali finalisti hanno indicato i tre giurati per la narrativa, come di prassi, alla Commissione del Premio Pulitzer 2012? Il breve romanzo di Denis Johnson, da quel che mi risulta, era uscito due volte: nel 2002 su The Paris Review e l’anno seguente nell’antologia The O. Henry Prize Stories 2003. È stato rimaneggiato e fatto uscire in nuova edizione, ma era vecchio come il cucco.
Il re pallido di David Foster Wallace era in corso d’opera e, per la fama del suo autore, è stato ripreso in fretta e furia da Michael Pietsch, tagliuzzato, ricorretto, assemblato e dato alle stampe. Wallace ci lavorò dal 2000 al 2008, anno della sua morte, e nel 2007 era ancora ad un terzo della stesura: troppo presto per sapere quanta farina sia del sacco di Wallace e quanta ne sia stata lasciata in overdose, espunta, aggiunta. Di fatto, Il re pallido contiene circa la metà delle pagine del manoscritto di Wallace. Non pago di questa operazione legittima ma indubbiamente affrettata, l’editore americano lo ha anche presentato al Pulitzer. Perché i giurati lo hanno segnalato alla Commissione, tra i tanti romanzi usciti quest’anno?
Rimaneva la terza opzione, Swamplandia! di Karen Russell (un romanzo che ha venduto già 200.000 copie). Data la situazione, era come se i giurati, che per regolamento non possono indicare il vincitore, avessero detto alla Commissione: se i primi due non van bene, è questo che dovreste far vincere. Non è stata una mossa carina. Non si fa. La Commissione è fatta di membri d’eccellenza del mondo accademico, editoriale, artistico, non di ultimi arrivati.
Al Pulitzer devono essersi stancati di vedersi rifilare i ‘prodotti’ dei soliti noti. Non gli scrittori, gli editori intendo. Russell e Wallace sono stati pubblicati da due colossi editoriali: Random House e Hachette; Johnson è stato pubblicato dallo stesso editore del giurato Michael Cunningham (Pulitzer nel 1999 con Le ore, che fece vincere un Oscar a Nicole Kidman): Farrar, Straus and Giroux. Sarà un caso. Ma sembra che ognuno tiri l’acqua al proprio mulino, o scarseggi in fantasia.
Leggere la pluripremiata romanziera Ann Patchett, nel giorno in cui è stata candidata all’Orange Prize, lamentarsi ieri sulle pagine del New York Times del danno che la mancata assegnazione del Pulitzer ha causato all’«industria» editoriale fa venire la pelle d’oca. Un’ingenuità, la sua, che la presenza sul più importante quotidiano d’America non rende meno ingenua. E la letteratura cos’è da sempre, «industria»? Non ho mai amato l’eccessività dell’approccio di Adorno in proposito: si vede che il presente non lo descriveva bene, ma il futuro sì.
Al Pulitzer si sono veramente dimenticati cosa sia la letteratura? L’hanno bistrattata? No, perché i premi artistici dei non-Vip, della letteratura che fa poca cassa, li ha assegnati tutti, ai vivi come ai morti. Per la poesia lo ha assegnato ad una giovane scrittrice afro-americana pubblicata da un editore indipendente non a scopo di lucro: Graywolf Press. In barba ai cataloghi dei grossi editori. E fan tre, perché sono tre le donne afro-americane che nel giro di pochi mesi, tra National Book Award e Premio Pulitzer, si sono aggiudicate tutti i premi per la narrativa e la poesia, tranne lo scranno vuoto in argomento: Jesmyn Ward, Nikky Finney e, ora, Tracy K. Smith, con la sua non così bizzarra raccolta incentrata su David Bowie, semplicissima nel lessico, ben scandita, abile nelle cesure. Non mi sembra un capolavoro, il suo, ma è di certo un buon libro. Un anno nero appunto, ma nel segno della letteratura afro-americana. Ben venga. Purché non diventi anch’essa una moda, un rituale.
Troppa gente parla e scrive di letteratura come opera di intrattenimento ormai. Riferendosi ai ricorsi storici, una volta Karl Marx ebbe a scrivere: «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano per, così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa.» Se gli anni Cinquanta sono stati un decennio tragico per le capacità di giudizio letterario del Pulitzer, questo decennio appare farsesco. S’è aperto bene nel 2000, col Pulitzer per la narrativa al romanzo di un autore esordiente pubblicato da un’oscura rivista letteraria impegnata in campo medico e che per questo non è stato recensito da molti grandi giornali: L’ultimo inverno di Paul Harding. Troppo sconosciuto l’editore, chi ci pensava? «Di tanto in tanto un buon libro ci sfugge», ammisero al New York Times: ma poi, di lì a poco, gli sfuggì anche il romanzo di Jesmyn Ward. E il romanzo di Egan premiato lo scorso anno, con le sue circa 76 pagine di diapositive in PowerPoint, va in direzione d’una modernizzazione che pare non dispiaccia al Pulitzer.
Nel momento in cui è in corso una ridefinizione del ruolo degli editori nell’era digitale; un momento nel quale c’è una lotta senza quartiere per accaparrarsi grosse fette di mercato che ha portato in questi giorni il ministero della giustizia dell’Amministrazione Obama ad un’azione antitrust e a sanzioni nei confronti di Apple e di cinque colossi editoriali, credo che il Pulitzer si sia dimostrato all’altezza della situazione, assegnando quest’anno, per la prima volta nella sua storia, un importante premio ad un giornalista online che posta i suoi articoli sul blog messogli a disposizione dal contestatissimo portale giornalistico The Huffington Post.
E, anziché scegliere un romanzo diverso da quelli indicatigli, com’era facoltà della Commissione, non si è accontentato di lasciar vacante il titolo per la narrativa, ma ha dichiarato apertamente quali finalisti gli erano stati assegnati, in modo che tutti potessero sapere che razza di titoli erano andati a pescare i giurati. Un modo beffardo per dire: «Questi sono i tre? Beh, me ne lavo le mani.» Non male. Servirà a far riflettere molti sulla differenza che esiste tra opera di intrattenimento, necessaria al mercato del momento, e letteratura, necessaria alla crescita spirituale per gli anni a venire.
Non credo che la storia si ripeta. Che siamo di nuovo nel periodo nero che ha caratterizzato il Pulitzer negli anni Cinquanta. Né che la narrativa americana sia in declino. Ma che si stia attraversando una svolta epocale, un modo di ridefinire il rapporto tra media e scrittori e tra scrittori e strumenti espressivi, questo sì.
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LINK:
Lista dei vincitori del Premio Pulitzer (sito ufficiale)
Scheda: I finalisti senza premio (sito ufficiale):
Fiction Blog di David Wood (Pulitzer per la cronaca nazionale 2012) su The Huffington Post
Sulle pagine del New York Times
Bizzarra raccolta incentrata su David Bowie
Azione antitrust
Tracy K. Smith (Pulitzer per la poesia 2012)
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