Il poeta Umberto Piersanti incontra la poesia di Luigia Sorrentino (con un intervento critico di Sauro Damiani)

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

poesiafestival 13.Lezione magistrale Umberto Piersanti
photo © Serena Campanini-Elisabetta Baracchi

Il 22 gennaio 2017  si terrà il terzo appuntamento alla Biblioteca “S. Zavatti” di Civitanova Marche alle 16.45:  Umberto Piersanti, uno dei poeti più importanti nel panorama nazionale, incontra Luigia Sorrentino che parlerà delle sue ultime opere di poesia, Olimpia (Interlinea, 2013; Recours au Poéme Editeur, 2015, (traduzione in francese di Angèle Paoli)  Inizio e Fine (Edizioni de La collana Stampa 2009, 2016) collezione di poesia diretta da Maurizio Cucchi e Figure de l’eau/Figura dell’acqua, su inchiostri e acquerelli di Caroline François-Rubino, traduzione in francese di Angèle Paoli. Il libro uscirà in primavera con le edizioni Al-Manar di Alain Gorius (Paris, 2017) e sarà presentato alla 35 esima Marché de la Poésie che si terrà da mercoledì 7 a domenica 11 giugno (place Saint-Sulpice – Paris 6e).

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Luigia Sorrentino e il gatto Ciccio (Photo Credits/Fabrizio Fantoni)

Gli incontri, organizzati dalla Scuola di cultura e scrittura poetica “SibillA” e patrocinati dal Comune di Civitanova Marche, dall’Assessore alla Cultura, in collaborazione con la Biblioteca Zavatti e i Teatri di Civitanova, alla Biblioteca comunale “S. Zavatti” di Civitanova  si propongono di allargare la conoscenza della poesia con la pratica diretta dei testi e il dialogo e la frequentazione con poeti e critici. Nelle due serate precedenti, il 27 novembre e il 18 dicembre 2016 Umberto Piersanti ha incontrato il poeta e critico Alessandro Moscè e il poeta Francesco Scarabicchi

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Recensione su Olimpia di Luigia Sorrentino
di Sauro Damiani

Con Olimpia Luigia Sorrentino ha scritto un’opera singolare, anomala nel panorama dell’odierna poesia italiana, sostanzialmente, salvo rare e felici eccezioni, laica e immanentista; opera che comporta la scelta di uno stile che, pur rifuggendo da stravolgimenti sintattici modernisti, ignora il linguaggio della comunicazione e si affida a evocazioni, allusioni, simboli, visioni, enigmi, cioè agli elementi che risvegliano le zone più profonde e segrete dell’anima, irriducibili alla razionalità scientifica. Il lettore viene così coinvolto in un percorso, dai tratti misterici, di morte e di rinascita, di integrazione fra cielo e terra, luce e tenebra, tempo e oltretempo. La verità di Olimpia non è quella del logos ma del mythos. Con la precisazione che il mito è l’origine del logos, permette al logos di esprimersi; e quindi il logos è tanto più significativo quanto più affonda nel mito e dal mito riceve nutrimento.

Olimpia è un poemetto in nove parti, costituito da brevi liriche prive di maiuscola e di punteggiatura, salvo la virgola, quasi a voler indicare che nulla sia mai cominciato e nulla finisca, ma tutto sia preso in un eterno fluire. Il punto è presente solo nelle otto brevi prose poetiche che contrappuntano le poesie, a indicare la presenza di discontinuità, se non di fratture, nel flusso di cui dicevo. Ho inteso metter subito in luce la forma di Olimpia in quanto essa è strettamente legata al suo significato. La forma del poema testimonia infatti la volontà di inserire le singole parti in tutto compiuto e significativo, in una circolare totalità in cui il risultato è superiore alla somma delle parti. Olimpia infatti è il libro della ricostruzione di un ordine nuovo e di una nuova città, in una realtà frammentata e in cui il frammento – va subito detto – non è un fatto accidentale e transeunte della storia, ma è inscritto nel destino stesso dell’uomo, nella sua incompiutezza, nella sua mortalità (“è il morire che vedo”, 72). “abbiamo perso tutto/caduti in un eterno/frammento”, scrive la poetessa a p. 62: versi in cui sono da notare sia l’“eterno”, segno della radice atemporale del frammento, sia il “caduti”, come di un metastorico peccato originale (e infatti una sezione del poemetto è intitolata, significativamente, Iperione, la caduta, allusione al noto capolavoro di Hölderlin , Iperione o l’eremita in Grecia). Malgrado questo, al termine di Olimpia l’autrice parla di “spirito del futuro/sopra le rovine” (p. 94) e nella poesia seguente scrive: “ciò che crediamo perduto possiamo/riaverlo” (sebbene con la limitazione di “spopolato”, aggettivo utilizzato dalla poetessa per definire la condizione umana); e, nel verso successivo, “non scompare la fonte”. Non a caso la prosa finale del poemetto termina con l’immagine mistica di “una sorgente d’acqua che da qualche parte si ricongiunge al mare”. È l’uomo che, oltrepassata la “soglia” che delimita e congiunge umano e divino, superata la “porta” (“soglia” e “porta” sono parole-chiave del libro) ha ritrovato la sua essenza vera, si è ricongiunto a sé stesso, abbracciando Olimpia ed essendone a sua volta abbracciato (pp. 20 e 21): Olimpia, l’antica città greca; Olimpia, la Madre che ci partorisce e senza la quale la nostra opera non ha significato; Olimpia, la radice dell’albero della vita. La prima lirica del poemetto termina proprio con la fondamentale parola “radice”. Parola di denso significato culturale, che indica un mutamento di prospettiva rispetto alla poesia dell’ultimo secolo e mezzo.

Da Rimbaud in poi, infatti, l’uomo occidentale, di cui la poesia si è fatta acuta interprete, era alla ricerca di un luogo fuori della storia, di un mitico “paese innocente”. Oggi sappiamo bene che quel paese non è mai esistito né mai esisterà. Disincanto? Anche, e salutare. Ma il disincanto non basta, pena l’inaridimento della nostra anima. Nasce la necessità di un nuovo incantamento. Ecco dunque un altro viaggio, ma non verso l’al di là della storia (e infatti, ripeto, qui si parla di “soglia” e di “porta”, come di un unico edificio), bensì alla sua radice, nella sua profondità. Per questo una delle parole fondamentali di Olimpia è “profondo”, da cui anche il verbo “sprofondare” col doppio significato di “andare nelle profondità” e di “cadere in una voragine”: il viaggio, infatti, è anche un sentirsi mancare il terreno sotto i piedi, uno scendere nel regno dei morti, nel cuore della città sfigurata, della sua bellezza deturpata, delle sue informi rovine. “c’è una notte arcaica in ognuno di noi/una notte dalla quale veniamo”, scrive l’autrice (p. 57). Si noti l’aggettivo “arcaico”, che rimanda all’arché della filosofia ionica, ossia “principio”, nel senso sia di origine che di fondamento. Olimpia è il viaggio all’arché della forma, della poesia. E insieme all’arché di un’esistenza rinnovata e di una rinnovata convivenza civile.

olimpiaViaggio, dunque. Ma perché? La ragione è che Olimpia (la città-madre) non è morta, ha una voce (altra parola decisiva del poemetto), e una voce che chiama i sui figli e che si fa sentire attraverso i secoli anche se, come scrive la Sorrentino, “veniamo da troppa lontananza” (p. 25). “la bellezza che ci fu tolta” (p. 35) continua a parlarci, la sua voce ci chiama a dare un nuovo volto alla nostra vita individuale e sociale (il binomio voce-volto è strettissimo nel libro). Il viaggio è proprio la risposta all’appello della voce. Viaggio. E viaggio in Grecia, sulle orme di Iperione. Il libro della Sorrentino sembra situarsi al di fuori della tradizione ebraico-cristiana (ma non in conflitto con essa); il senso della nostra vita va cercato piuttosto in Grecia, ma non tanto in quella di Pericle e di Aristotele, quanto in quella della filosofia presocratica e dei misteri orfici ed eleusini. Ne è spia anche il titolo della prima sezione, L’antro, che, diversamente da “grotta” (la grotta di Betlemme) è connotato in senso greco, e indica una profonda cavità nelle viscere della terra, luogo di morte e di rinascita, di ascolto di voci oracolari (ad esempio l’antro di Trofonio) in grado di illuminare e dare una direzione alla nostra vita. Nel libro della Sorrentino la parola ha un carattere performativo, non meramente estetico. È la parola indicante che c’è una “terribile lotta” da intraprendere (p.93), che il cammino in cui “il sottosuolo unisce al cielo” (p. 69) è arduo e gravido di pericoli, che il rischio di smarrimento e di perdita è sempre incombente. Non a caso in Olimpia si assiste a un continuo cambiamento di soggetti e di tempi verbali, come di una realtà metamorfica in cui ogni elemento si intreccia e si confonde con l’altro, in cui la maschera è il volto e il volto la maschera, e nulla è mai assicurato, tutto è aperto e il viaggio continua, incessante. Il viaggio a cui ognuno di noi è chiamato se intende ritrovare la sua unità perduta e farsi così portatore di una speranza per tutti, di una Olimpia di bellezza che accolga la duplicità della condizione umana, la sua mortalità e la sua apertura all’infinito.

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