Alberto Russo Previtali, l’ultimo Zanzotto

ANTEPRIMA EDITORIALE 

 

Il centenario della nascita di Andrea Zanzotto si pone come un tempo propizio per capire la sua presenza nella contemporaneità. Da qui il progetto di una raccolta di saggi, Le estreme tracce del sublime, Studi sull’ultimo Zanzotto a cura di Alberto Russo Previtali, (Mimesis, 2021) offre una descrizione e un’interpretazione degli aspetti più rilevanti degli ultimi libri, nel tentativo di cogliere la preziosa eredità poetica ed etica di cui sono portatori.

Studi sull’ultimo Zanzotto
Giorgia Bongiorno, Matteo Giancotti, Massimo Natale, Jean Nimis, Giuliana Nuvoli, Alberto Russo Previtali, Luca Stefanelli, Luigi Tassoni.

 

INTRODUZIONE
di Alberto Russo Previtali

Nella sua ultima produzione poetica, iniziata con la pubblicazione di Meteo nel 1996, e sviluppatasi compiutamente con Sovrimpressioni nel 2001 e Conglomerati nel 2009 (senza dimenticare gli Haiku for a season del 2012), Andrea Zanzotto ha confermato e approfondito le conquiste stilistiche e conoscitive più mature della sua poesia, quelle che gli hanno assegnato una centralità indiscussa nella letteratura italiana ed europea del Novecento. Ma in quest’ultima fase del suo percorso Zanzotto è andato oltre quelle conquiste, spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, il lettore “versato nel duemila” (Zanzotto) sente tutta la prossimità di questa seconda pseudo-trilogia, in cui pulsa un senso prezioso e veritiero sulla condizione dell’uomo contemporaneo, immerso in una realtà sempre più pletorica, attraversata dall’insensatezza e dalla minaccia di forze autodistruttive fuori controllo.

Negli ultimi anni sono fioriti numerosi studi importanti e approfonditi su quest’ultima parte del percorso zanzottiano, ma il sapere critico prodotto su di essa non è ancora comparabile a quello che interessa le fasi precedenti. Inoltre, l’edizione delle Poesie e prose scelte nella collana “I Meridiani” di Mondadori ha fissato in anticipo l’opera di Zanzotto, escludendo dalla sistemazione organica e dal commento capillare gli ultimi libri. Ciò ha reso a posteriori parziale la collocazione di Meteo, la cui lettura critica può dispiegarsi in modo fecondo soltanto in seno alla prospettiva unitaria della pseudo-trilogia. La pubblicazione dell’edizione Tutte le poesie negli Oscar ha colmato solo in parte queste lacune, offrendo una ricostruzione soltanto introduttiva dell’ultima produzione, della quale molto resta da esplorare, comprendere, analizzare, interpretare. Ecco perché il presentarsi all’orizzonte del centenario della nascita di Zanzotto, che coincide con il decennale della sua scomparsa, è stato sentito da alcuni studiosi come un tempo propizio per uno studio approfondito della fase finale del suo itinerario. Da questo comune sentire, da questa condivisa passione critica, è nato il progetto di questa monografia collettiva, in cui delle voci riconosciute della critica zanzottiana si misurano con la vivissima densità e con la profonda attualità degli ultimi libri del poeta.

Dire “centenario della nascita”, “decennale della morte”, insistere su questi ritorni di date, non significa, non deve significare, scadere nell’ufficialità delle celebrazioni, farsi aspirare dalla logica burocratica delle rimemorazioni retoriche, quelle di cui Zanzotto si è fatto beffe in modo insuperabile ne Il Galateo in Bosco. Farsi coinvolgere nel circolo delle date è un modo di entrare nello spazio più proprio della poesia, la quale è sempre impegnata nella scrittura impossibile di ciò che accade una sola volta. È la data che Paul Celan fa risuonare ne Il Meridiano, quel “20 gennaio” ripreso dall’incipit del Lenz di Büchner (“Il 20 gennaio Lenz attraversò la montagna”) e portato nella singolarità di ogni testo poetico: “Forse si può dire che in ogni testo poetico rimane inscritto il suo 20 gennaio?”[1]. La data del “20 gennaio” è per Celan un nome del trauma, della sua innominabilità, poiché fu il 20 gennaio del 1942 che Hitler e i suoi collaboratori, nella conferenza di Wannsee, programmarono definitivamente “la soluzione finale della questione ebraica”, in cui persero la vita i genitori del poeta. Di questo modo di ritornare della data, Jacques Derrida, come lettore di Celan, ha messo in luce il carattere ambivalente, singolare e universale, legato alla sua doppiezza strutturale e inconciliabile: da un lato l’unicità dell’evento, la sua insostituibilità, e dall’altro l’anello della ripetizione che la minaccia[2].

L’accoglienza di questo ritorno della data come traccia di un’unicità traumatica emerge in diversi punti dell’itinerario di Zanzotto, e nel modo più intenso in quel testo-ómphalos che è Microfilm, in cui le cifre del dieci ottobre, 10 10, compleanno del poeta e giorno in cui, nel 1963, egli venne a conoscenza dei tragici fatti della strage del Vajont, si trasfigurano negli elementi elementari della scrittura (I O), combinandosi in significanti in cui la tensione tra particolarità del trauma e spinta alla comunicatività universale raggiunge la sua massima apertura. Particolarmente significativi e istruttivi sono anche i componimenti che esplorano poeticamente la ricorrenza del 25 aprile, Verso il 25 aprile in Idioma e Altro 25 aprile in Conglomerati. Nella loro diversità essi mostrano un modo poetico comune di confrontarsi con un anniversario: porsi in ascolto delle istanze sepolte che giacciono in esso, far rivivere il desiderio di uomini scomparsi che si è cristallizzato nell’unicità della data, e che in essa continua a pulsare come segreto, parola muta e sacra, alla quale solo un lettore, ovvero colui che raccoglie, può ancora dare voce.

È dunque a partire dall’insegnamento stesso del poeta, dal suo modo di abitare l’anniversario, che gli interpreti qui riuniti hanno voluto onorare il centenario della sua nascita, cercando di raccogliere nel modo più consono e fecondo la parola dei suoi ultimi libri. Il primo effetto di questo posizionamento è l’emersione del carattere estremo, in tutti i sensi del termine, dell’esperienza dell’ultimo Zanzotto rispetto alle fasi precedenti del suo percorso esistenziale e poetico. Gli aspetti apocalittici e testamentari di questa produzione, sempre sospesi tra l’esperienza privatissima e la spinta insopprimibile della passione civile, non possono che far pensare all’intero percorso poetico-biografico del poeta, al quale, per “privilegio d’anagrafe” – come suggerisce il Benandante Pasolini[3] – è toccato di assistere alla fine di un tempo storico, alla distruzione del paesaggio, alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime.

Sono proprio le dimensioni incrociate e correlate dell’instabilità percettiva e della catastrofe ad essere al centro dei primi due saggi del volume, che offrono una panoramica critica su degli aspetti cruciali della pseudo-trilogia. Nel testo di Jean Nimis la poetica di Zanzotto viene indagata attraverso il concetto-figura di “orizzonte”, assunto come elemento di una dimensione fenomenologica della percezione e dell’esperienza del soggetto. Dal “cerchio d’orizzonte” di Dietro il paesaggio, si giunge con IX Ecloghe e La Beltà all’“orizzonte di mondo”, in cui trovano riflesso i disordini e gli squilibri percepiti poeticamente. L’orizzonte diviene quindi il nome stesso dell’irraggiungibilità dell’oggetto, dei mancamenti e dei vuoti della parola che esso determina. Si tratta di una tendenza crescente, che si manifesta nell’ultima pseudo-trilogia nella frammentarietà dilagante che caratterizza le raccolte, nella quale però è possibile rinvenire delle figurazioni d’orizzonti che creano aperture e legami tra i gruppi di testi. L’orizzonte è dunque leggibile come una soglia mobile, per la quale si passa dalla verticalità celeste di Meteo all’orizzontalità terrestre e minerale di Conglomerati, attraversando l’orizzonte di transito e di resistenza di Sovrimpressioni. Nimis descrive con acume una struttura dinamica, che permette negli ultimi libri di dare luogo a una serie di figure che non solo oggettivano la percezione caotica e frammentaria del soggetto, ma cercano al tempo stesso di dare ad essa una consistenza di senso, un mondo.

Questo movimento congiunto di restituzione del caos e di resistenza ad esso è al centro della riflessione di Luigi Tassoni, che cerca di penetrare nell’arcipelago dell’ultimo Zanzotto a partire dal concetto di catastrofe, pensato soprattutto attraverso l’elaborazione di Derrida e di Leopardi. La percezione del non senso che abita il mondo degli enti, lo smarrimento soggettivo di fronte all’instabilità dei referenti della realtà effettuale, trovano l’unica enunciazione possibile a livello della scrittura poetica, che rimette in discussione la conoscenza materiale delle cose. Così, paradossalmente, il testo poetico informale, oltre ad essere l’unica forma possibile di enunciazione degli sconvolgimenti ontologici ed epistemologici in cui è preso il soggetto, diviene al tempo stesso uno spazio di sopravvivenza, altrettanto unico, di fronte alla catastrofe. La catastrofe che si dice nel testo poetico, e solo in esso, viene contestata dal testo stesso che l’accoglie, il quale si dà come spazio simbolico di resistenza di fronte “all’autodistruzione del mondo, all’autoannullamento del senso”.

L’intensa riflessione di Tassoni ricostruisce con precisione analitica e densità concettuale un fenomeno che caratterizza in modo crescente gran parte dell’itinerario zanzottiano e che diviene decisivo negli ultimi libri. Si tratta di un aspetto che viene toccato, con vesti lessicali e concettuali diverse, anche negli altri saggi del volume. Matteo Giancotti ad esempio, nelle sue preziose Questioni preliminari agli haiku che costellano l’ultima produzione di Zanzotto, sottolinea la portata mimetica, l’espressione immediata dei referenti naturali che sembra realizzarsi in questa forma di scrittura. In questa lettura, di grande importanza è l’attenzione prestata alla neutralità e all’asoggettualità della parola, che confermano come la poetica dello haiku influenzi in profondità l’intera pseudo-trilogia. Soffermandosi soprattutto sull’esperienza degli Haiku for a season, Giancotti interpreta il ricorso alla lingua inglese come un tentativo di redenzione. Identificata da Zanzotto come lingua onnipervasiva, associata alle violenze imperialistiche angloamericane, nello haiku essa viene fusa con la più nota forma della poesia giapponese, creando un cortocircuito simbolico attorno all’evento traumatico irreparabile del bombardamento atomico di Hiroshima. Scrivere haiku nella lingua globalizzante del distruttore è un modo di provare a dare scrittura del trauma storico del bombardamento, ma è anche un modo di attestare la resistenza della poesia e della natura di fronte a qualsiasi distruttività umana. Questo secondo movimento emerge con forza negli haiku di Meteo, che celebrano la “vitalità sacra e indifferente della natura” in un paesaggio devastato ormai impensabile al di fuori dello scenario post-atomico di Hiroshima, assunto come paradigma storico.

Anche l’intervento di Giuliana Nuvoli, l’ultimo dei quattro saggi che trattano aspetti comuni alle raccolte della pseudo-trilogia, si concentra sull’idea di trauma, in un confronto serrato con il libro Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora la natura, una delle importanti conversazioni in volume che accompagnano l’ultima produzione in versi di Zanzotto. Nuvoli sceglie di leggere il testo a partire dai passi in cui viene citato Hans Urs von Balthasar, autore spesso evocato dal poeta ma poco considerato dalla critica. La prospettiva del teologo viene fatta dialogare con quella poetica propria di Zanzotto, cercando delle prospettive interpretative convergenti: dalla critica alla visione oggettivistica del mondo tipica della scienza, alla concezione apofatica della conoscenza; dal legame tra amore e verità, alla dimensione del silenzio e della morte come luogo in cui si radicano le ragioni della resistenza, della speranza contro ogni speranza (spes contra spem). Ancora dunque l’ambivalenza: scrittura della catastrofe e resistenza alla catastrofe, trauma e affermazione della vita, perdita di ogni speranza, e speranza nonostante tutto.

“Ambivalenza”: è riprendendo questo concetto freudiano che nel mio intervento cerco di connotare i due movimenti della scrittura zanzottiana, che si attestano in Meteo a un livello di intensità superiore rispetto alle opere precedenti. Nel momento in cui il libro di poesia si frantuma e diventa omologo strutturale del paesaggio in brandelli, la scrittura riesce ad esporsi in modo ancora più estremo alle forze fondanti della realtà, cercando nelle residuali tracce del sublime una verità poetica ancora più altra e inimmaginabile. Alla frantumazione è dunque correlata una forza vitale irriducibile che Zanzotto, giocando con il concetto freudiano di principio di piacere, ha chiamato “piacere del principio”: piacere di autoaffermazione proprio di ogni elemento della realtà, piacere che l’essere ha di essere. Nel saggio, ho cercato di seguire e ricostruire i diversi modi in cui questo Eros della terra si manifesta a livello della scrittura: superfetazioni, sovrapposizioni, nascondimenti, nientificazioni, unicità residuali, eccessi cromatici, riduzioni, trionfo della minimalità etc. Tutte queste dinamiche si danno all’interno di una più ampia prospettiva di devianza generalizzata, di mutazione centrifuga rispetto a una norma che, diversamente dalle opere di più profonda esplorazione del rapporto tra regola e trasgressione, si presenta senza più consistenza, al di là di ogni pensabile centralità. La norma stessa è aspirata dal movimento della mutazione, e si diffrange in una proliferazione deviante di nuove norme-lampo provvisorie ed eccentriche, che si rivelano in tutta la loro conflittualità: come manifestazione della catastrofe ecologica e al tempo stesso come attestazione della forza erotica della terra, delle tracce del sublime ancora rinvenibili in essa.

La logica deviante di Meteo si approfondisce nei libri successivi, manifestandosi a tutti i livelli. I saggi di Massimo Natale e Luca Stefanelli mostrano l’incidenza di questa logica in due dimensioni testuali peculiari di Sovrimpressioni: quella intertestuale e quella variantistica e avantestuale. Nella sua lettura della sezione Sere del dì festa, Natale mostra come il dialogo con il modello leopardiano avvenga secondo le due linee eccentriche e ambivalenti della variazione e del deterioramento. La ripresa straniata del canto dell’idillio leopardiano permette un’espressione stratificata, sovrimpressiva appunto, dell’alterazione dell’equilibrio tra uomo e natura. La stessa dinamica è rinvenibile nella deformazione dei motivi leopardiani del sollazzo, della notte e del femminile, che vengono calati nel contesto degradato della cultura del divertimento sfrenato (il “bar Hopper”, la discoteca). Queste dinamiche di straniamento investono lo stesso io lirico: dall’io dell’idillio leopardiano, garante della coerenza percettiva, si passa nel testo zanzottiano a un io disarticolato e liquefatto, che ha ormai perduto ogni possibilità fondativa. Ma, come si è detto, lo spaesamento soggettivo è anche lo scenario enunciativo che permette un diverso, più essenziale e meno antropocentrico confronto con la dimensione della verità.

La densità di questa estrema linea di ricerca emerge nel saggio di Stefanelli attraverso una fine lettura delle differenze tra la versione definitiva della poesia L’altra stagione e le due stesure precedenti reperibili nei materiali genetici di Sovrimpressioni (nel Fondo manoscritti dell’Università di Pavia). L’indagine si concentra sulla scomparsa del tema della “Pasqua”, presente nella stesura autografa nella forma paradossale di una dichiarata “inesistenza” poi realizzata a livello testuale nel testo pubblicato. L’idea di una Pasqua divenuta finalmente “vera nel suo sparire” si realizza nell’influenza che la sua sparizione esercita su altre parti del testo, come la modifica della ripresa del detto di Luca “Non est hic, sed ressurrexit”, che nel testo definitivo fa riferimento a un “puro essere qui”, il quale, attraverso la concezione paolina del kairós, si rivela come un “non esserci”, come momento capace di sconvolgere la linearità del tempo. Vengono così esplorate diverse prospettive heideggeriane per interpretare il nascondimento della Pasqua, percorribili anche per penetrare in una seconda sparizione, quella del “cespuglio unico di rose canine”, registrata su un invito aggiunto al foglio di appunti XIV, 3. A partire da alcuni di questi appunti, Stefanelli rinviene il legame tra le due sparizioni nella percezione zanzottiana della sovrabbondanza inesauribile della natura, che si manifesta come generatività infinita e invisibile, al di là della presa della rappresentazione.

Queste sparizioni contribuiscono all’estrema complessità della pagina dell’ultimo Zanzotto, che Giorgia Bongiorno conferma in una direzione opposta, mettendo cioè in evidenza il carattere “esposto” di questa poesia, che in Conglomerativiene da lei situato nella destrutturazione della raccolta, nella scrittura stratificata e frammentaria. Data l’impossibilità del ripristino di un principio formale (nemmeno nella forma trasgressiva del manierismo), lo scivolamento continuo del dire e l’iterazione destabilizzante diventano, paradossalmente, le uniche leggi riconoscibili di un’opera che non è più pensabile ormai all’interno di un’idea condivisa di libro di poesia. La figurazione è sempre quella di un crollo, di un equilibrio instabile che si manifesta nella visione dall’alto, nella separazione insanabile rispetto ai referenti, e poi nelle cadute improvvise del tono lirico, nell’onnipresenza tematica della morte e del disfacimento. Tuttavia, in questo scenario post-apocalittico, anche Bongiorno ritrova le istanze di un’“inversione di marcia”, di un “impulso di risalita”, rese possibili da una prospettiva non antropocentrica del tempo e dalla dismemoria alzheimeriana, che permettono la proiezione della memoria sul futuro e dell’eternità sul presente. Si ripresenta dunque, in un orizzonte estremo e finale, il principio della spes contra spem di Ernst Bloch, filosofo che rappresenta ne La Beltà un punto di riferimento intertestuale importantissimo. Questo principio permette di cogliere al meglio la tensione testamentaria dell’ultimo Zanzotto, la sua forte proiezione verso il futuro a partire da uno sprofondamento della scrittura nelle forze più maligne del presente.

Pensare questa dinamica peculiare di Conglomerati in relazione alla fitta rete intertestuale che lega il libro alla Commedia, non può che ricordarci che questo 2021 è anche il settecentesimo anniversario della morte di Dante. Le celebrazioni di questa ricorrenza hanno innanzitutto il merito di mostrare qual è il tempo di un classico, il bachtiniano “tempo grande” in cui le opere si muovono controcorrente rispetto al tempo lineare, nell’inesauribile attesa dell’interpretazione. Al di là del computo degli anni, l’anniversario è dunque un’occasione per tornare ai testi con un nuovo sguardo, con nuove domande e con nuove esigenze. È così che oggi si può e si deve interrogare l’opera di Zanzotto, dialogare con essa, cercando di darne conoscenza critica: calandosi nei nodi più stretti del presente, ed esponendosi, nella contingenza dell’atto critico, alla confluenza dei tempi, alle sovrapposizioni reciproche e inesauribili tra passato e futuro, fra tradizione e utopia.

Bourgoin-Jallieu, maggio 2021

 

Note

[1] P. Celan, Il meridiano (1960), in Id., La verità della poesía. Il meridiano e altre prose, trad. it. a c. di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 13.

[2] “malgrado la data, a dispetto della sua memoria radicata nella singolarità di un evento, il testo poetico parla: a tutti e in generale, in primo luogo all’altro”; Cfr. J. Derrida, Schibboleth. Per Paul Celan, trad. it. a c. di G. Scibilia, Gallio, Ferrara 1999, p. 15.

[3] P.P. Pasolini, Poesie mondane, in Id., Poesia in forma di rosa, in Id., Tutte le poesie, 2 voll., a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003, I, p. 1099.

 

Alberto Russo Previtali è critico letterario, membro associato del Centro di ricerche LIS “Littératures, Imaginaire, Sociétés” dell’Université de Lorraine e docente a contratto in Italianistica all’Université “Savoie Mont Blanc”. Tra le sue pubblicazioni: Pasolini e Zanzotto: due poeti per il terzo millennio (Cesati, 2021), Zanzotto/Lacan. L’impossibile e il dire (Mimesis, 2019), Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di Andrea Zanzotto (Cesati 2018), L’avventura della permanenza. La poesia di Milo De Angelis (a cura di, con J. Nimis, Mimesis 2020).

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