Benedetti, “un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale”

Mario Benedetti, poeta italiano, Foto di Dino Ignani

di Andrea Gibellini

Mi viene chiesto di scrivere sulla poesia di Mario Benedetti e devo rispondere in tutta sincerità che la sua poesia non è mai stata tra le mie predilette. Altri poeti sono stati per me importanti. Se devo fare qualche nome, se il concetto di generazione poetica serve a definire qualcosa, poeti nati negli anni cinquanta in ordine sparso, sicuramente non esaustivo, come Pagnanelli, D’Elia, De Angelis, Ceni, Scarabicchi, Pusterla, Magrelli, Damiani, Anedda, la poesia dialettale di Villalta, come la poesia di cosciente confronto sperimentale e teorico di Giuliano Mesa, sono stati fertili letture. Ognuno ricerca e riscrive una tradizione poetica affine al proprio sentire, non penso così lontana da un percorso che si stava facendo due decenni ― metà e fine anni ottanta, in particolare ―, prima della fine del secolo scorso. Bertolucci, Luzi e Caproni, Fortini, Zanzotto, Giudici, erano in attività, Montale e Sereni da poco scomparsi (Stella variabile, il primo vero spartiacque del dopo Montale, è del 1982).

Facendo una riflessione generale, la poesia di Mario Benedetti sconta il fatto, ma il discorso è davvero più ampio, di non aver affrontato criticamente ― non per mancanza di accanimento e furore verso la poesia come dimostrano le sue dichiarazioni di poetica, ma per una sua esigenza, direi inevitabile, di stare con la creatività della poesia nel contraccolpo di una sorta di egotismo esistenziale ―, di non aver messo in atto, in sintesi, seppure in modo soggettivo, da poeta, l’urto storico tra poetiche, autori, generazioni. La discussione sulla poesia degli altri mettendo in discussione la propria. Il suo non è stato un atteggiamento arbitrario, è stato il compimento di un modo d’essere in relazione con un determinato modello di poesia.

Umana Gloria è del 2004, preceduto da Borgo con locanda, una breve raccolta, una delle tante plaquettes o libri non corposi (penso a Il parco
del Triglav: il sensibile richiamo dalla forte tensione evocativa delle cose perdute della omonima poesia), che dentro a un lago non tanto immaginario si diramano in una partitura musicale, in un privato canzoniere interiore, in Umana Gloria. Parlo di canzoniere pensando a Saba più che a Petrarca. Perchè Benedetti poteva essere un Saba del nostro tempo ma non lo fu per tante ragioni la prima delle quali per un nostro epigonismo storico riguardo alla poesia che tutti noi ancora oggi scontiamo. Se avevo inteso quella poesia, per come è fatta, per i materiali con cui è costruita, fui disilluso. All’interno di Borgo con locanda il senso del luogo mi parve sfuggente. Volevo vedere la terra del luogo, ciò che attraverso la poesia potevo sentire, non la sua astrazione morale. Eppure percepivo la sua poesia, o mi ero avvicinato ad essa in questo modo sperando di intuirne le premesse, nella dimensione del quotidiano, di una cronaca tra lirica e prosa, in cui cose e persone, in reciproco scambio, potevano parlare. Nella definizione, aggiungo, di un nuovo realismo poetico, visibile fotogramma condizionante però la dinamica flessibile del verso. Figure chiave – quella del padre mi viene in mente – non (è questo il mio ricordo) comunicavano con la natura e la natura, nel suo istintivo riflesso, non comunicava con le persone. E’ una poesia quella di Benedetti fatta di solitudini stilistiche e umane ― ogni oggetto come ogni persona pare realizzarsi in estrema solitudine, il poeta è chino su se stesso.

Il linguaggio di Benedetti nasce dalle persone comuni che esprimono umiltà e saggezza quotidiana. La lingua desidera (ripartendo da Saba) una poesia onesta, nella scrittura come verità Benedetti vuole dire gli umili gesti che fanno una vita. Da qui, non per colpa certo di Benedetti, partirà quella ormai permanente stagione (ne siamo tuttora immersi) in cui la poesia si annuncia come lingua semplificata, canzone uguale a poesia, sintomo della scrittura da comfort, carta assorbente del disagio quotidiano. Essere fedeli alla esperienza della realtà, al suo cosiddetto stupore, non è un lasciapassare che in poesia vale per sempre. Soprattutto e al contrario per chi pensa alla poesia come trasformazione da una cosa ad altra cosa tenendosi con sé il documento di una sollecitazione inevitabile.

Ma, ripeto, in Mario Benedetti è la serietà, l’intenzione del progetto, a esprimersi.

Nel libro che seguì Umana Gloria, Pitture nere su carta, la mia lettura fu che la poetica anticipasse il fatto della poesia, aveva il sopravvento un formalismo dai motivi esteriori non la poesia che l’aveva generata. Anzi, per paradosso ― come avviene per un altro poeta non forse diversissimo da Benedetti, Ferruccio Benzoni ―, una certa maniera del suo fare poesia, il sentimento delle circostanze ricreato da anologie letterarie, trova suggestioni e brillantezze. Succede in alcune poesie scritte sul confine Sloveno come la già citata Il parco del Triglav, oppure impregnate di nostalgico abbandono dalle persone, dagli oggetti situate nel nord della Francia. Questo elemento iper-poetico ravviva e discopre la poesia come di un nuovo vento, la fa essere più libera e comunque possibile dopo una segreta e sofferta autodecompressione poetica.

Ho l’immagine della poesia di Mario Benedetti come quella di un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale, ha combattuto per la poesia: il nemico da affrontare era dentro alle sue viscere dove la propria umanissima verità non poteva essere detta altrimenti.

8 pensieri su “Benedetti, “un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale”

  1. Apprezzo davvero la eterogeneità degli interventi proposti su questo spazio ed è bello che il blog di Poesia della Rai di Luigia Sorrentino abbia instaurato un dialogo così fecondo sulla parola di Mario Benedetti. Ritengo tuttavia che la “trincea esistenziale” di un poeta (di un grande poeta) non sia mai personalissima. A mio sommesso avviso Mario Benedetti aveva il pregio di saper individuare con esattezza il preciso confine che deve esserci tra biografia e slancio universale – se così si può dire – della parola poetica. La sofferenza fu per il poeta la chiave d’accesso all’umano, il solo cifrario possibile. L’arte del resto, comporta sempre una vocazione al sacro e non è mai regressione egotico-narcisistica della soggettività. Sulla scorta di questa premessa voglio citare un brevissimo passaggio dello “Ione” di Platone: “I poeti non sono che gli interpreti degli dei”.

  2. Caro Gibellini,
    Grazie per averci offerto il tuo punto di vista sulla poesia di Benedetti. Quello che mi ha fatto male alle orecchie è questo finale: “Ho l’immagine della poesia di Mario Benedetti come quella di un soldato che visse in una sua personalissima trincea esistenziale, ha combattuto per la poesia: il nemico da affrontare era dentro alle sue viscere dove la propria umanissima verità non poteva essere detta altrimenti.”

    Questo stona un po’ con tutto il resto e risulta anche un po’ offensivo nei confronti di un poeta come Benedetti che purtroppo non può risponderti.

  3. Mi permetterete una domanda, che ha una premessa. Quando Mario Benedetti inizia a scrivere (tra anni 70 e 80), le poetiche dominanti erano: neo-orfismo o cosiddetto, e sperimentalismo da neo-avanguardia. Benedetti (e tutti gli autori della rivista Scarto minimo) erano critici sia verso all’una che verso all’altra. Questo è un primo punto. Il secondo è una riflessione sul fatto che si possa davvero eliminare la soggettività: davvero si può? La domanda, alla luce di questo, è: se ogni autore o autrice è combattente a ‘suo modo’, quale è il margine per dare giudizi di valore su questo ‘suo modo’? A volte io stessa mi perdo. Però credo che il margine vada oltre il discorso sulla soggettivitá. E credo anche che le questioni lanciate nell’articolo possano portarci a riflessioni più ampie ( a prescindere dalla poesia di Mario Benedetti verso la quale penso, indipendentemente dai gusti personali, si debba nutrire rispetto). La domanda è rivolta anche a tutti i lettori del blog. Grazie, Maria

  4. Cara Sorrentino,
    grazie, innanzitutto, per aver ospitato il mio intervento. Ho il massimo rispetto verso Mario Benedetti sia come poeta che come persona. Se le mie posizioni poetiche, certo critiche, di ricerca sulla poesia, sono distanti da quelle di Benedetti non significa avere scarso rispetto per il poeta e la persona. Ognuno ha la sua storia di poesia e questa è la mia. Analizzo, faccio anche un discorso storico, naturalmente opinabile e per lo spazio a disposizione, ma cerco, provo, di stare dentro alle cose che riguardano la poesia, così mi era stato richiesto, di parlare della poesia di Mario Benedetti. Ho atteso molto, mi aspettavo tanto, ecco, nel corso degli anni, dalla poesia di Benedetti, questa è la verità, perché ne sentivo il talento (nomino Saba) e parlo dunque, e lo dico, di una mia disillusione, facendo i dovuti distinguo. Lo sappiamo: non è mai facile. Benedetti è stato un poeta che ha combattuto per la poesia (c’è anche chi finge o non lo fa) e lo ha fatto strenuamente con molto coraggio, cordialmente
    Andrea Gibellini

    • Caro Gibellini,
      Ho rispettato il tuo scritto e la tua analisi Integralmente pubblicata. Quello che tuttavia a me resta incomprensibile è la tua visione della poetica di Benedetti, l’io da te definito “egotico” curvo su sé stesso. È questa tua osservazione che ha provocato una stonatura, che evidentemente a me, ma anche ad altri, ha generato una sensazione molto sgradevole. Ed era su questo punto che ti ho interrogato. L’io di Mario Benedetti incarna l’io del mondo, non la sua personale malattia. Questa stonatura è oltremodo rimarcata dai tempi che stiamo vivendo, di morte, di paura, di isolamento. Quindi forse la poesia di Mario aveva visto una realtà prima ancora che si manifestasse. Insomma, una poetica forte, che va al di là di ciò che è immediatamente visibile. Poi anche Maria Borio, Giovanni Ibello, si sono posti domande alle quali dovresti rispondere, se vuoi.
      Grazie per averci offerto il tuo contributo.
      Luigia Sorrentino

  5. Grazie per tutti gli interventi anche diversi, e acuti. Ma devo dire che questo intervento dichiara la non vicinanza di Gibellini alla poesia di Benedetti, e va bene, posso anche capire, ma non concordo affatto con le argomentazioni! Io credo che tutta la poesia di Benedetti sia stata un ” faccia faccia” con la poesia, una vera ricerca della Parola, un tentare la parola nuda e scarna, ma mai SOLO SOGGETTIVA, infatti, in lui si rispecchia il disorientamento e l’ estraneità che viviamo con noi stessi ed era il mondo a cui lui si sentiva estraneo, pur vivendolo con affetto, nella sua terra, comunque sempre ” altra” dal mero descriverla o sentirsene parte veramente. La sua ” trincea” era la vita, il suo dire era quasi estraniato , direi NON SOGGETTIVO, NON INTIMISTA, non diaristico né minimalista nel senso deteriore. La non vicinanza con un autore, anche la differenza di poetica, implica sempre che chi scrive sia entrato però VERAMENTE dentro quella scrittura. E questo non mi pare si possa dire dall’intervento quasi negativo, quasi sminuente che leggo nelle parole di Gibellini, e questo mi dispiace. Propongo umilmente di rileggere i testi di Mario, senza preconcetti e…ascoltarli!

    • Cara Fantato,
      sono perfettamente d’accordo con la tua ineccepibile posizione.
      Anche a me, al di là del discorso critico, mi sembra di capire che si è andati un po’ oltre. Il discorso della soggettività, appunto, il rimanere su una posizione personale, addirittura egotica… insomma. Non si può dire questo, perché non è vero.
      Leggere e rileggere Mario Benedetti, negli anni, nel tempo avanti.
      Mi viene da scrivere adesso “Tersa morte”, la visione di Mario è stata chiarissima.
      Lui sosteneva molti anni prima che gli eventi storici gli dessero ragione, la crisi della civiltà occidentale. “E piange la parola che riesce a dire” (Mario Benedetti)

  6. La distanza che Mario Benedetti riuscì a tenere nei confronti della natura – quella con cui le sue figure chiave non avrebbero comunicato, secondo Gibellini – è stata fondamentale. Non si tratta di ritrosia, né di abbandono. E faccio riferimento in modo particolare all’ultima fase della sua poetica e a “Tersa morte”, ma anche agli interventi di Borio e di Cortellessa. Non c’è ripiegamento su di sé da parte di Benedetti per una sorta di auto-contemplazione o a causa di un’estrema solitudine, tanto meno una chiusura stilistica, ma negli anni si è rafforzata la sua ricerca di equilibrio nei confronti della realtà, ossia una messa a fuoco condivisibile. Lo dimostra la scelta linguistica. La lingua semplificata, “carta assorbente del disagio quotidiano”, non c’entra alcunché in questo frangente; anzi, l’abbandono di qualsiasi forma di intellettualismo grazie a un corpo organico di componimenti, e non solo grazie a una scelta coerente dei singoli termini, dovrebbe far riflettere sulla cifra di Benedetti e sulla sua temperatura interiore. Oltre la solita aderenza al reale per carpirlo, oltre l’incontro con l’altro in quanto destinatario: lo stupore rimane una componente imprescindibile per mettersi nei panni altrui e dimenticarsi dei propri, senza rinnegarli.

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