Poeti da riscoprire, Giovanna Sicari

Giovanna_Sicari

Giovanna Sicari

Progetto editoriale ideato e curato da Fabrizio Fantoni
con la collaborazione di Luigia Sorrentino


Il dono di sé

Corpo e visione nei versi di Giovanna Sicari

di Gabriela Fantato

Il poeta è colui che grazie ad una speciale disciplina dello sguardo pone un’attenzione assoluta al reale, assumendosi il dolore, la fatica e la responsabilità di tale sguardo, scrive Cristina Campo ne Gli Imperdonabili . Il poeta ha «stile», continua la scrittrice, in quanto ha «una virtù polare, grazie alla quale il sentimento della vita sia nello stesso tempo rarefatto e intensificato».

Il vedere, infatti, è per il poeta un percepire il reale con tutto se stesso, scorgendovi senso e ordine. Ecco perché nel leggere l’opera di un poeta come Giovanna Sicari si sta iniziando un’avventura e bisogna accettare il fatto che ogni approccio possibile, ogni lettura critica appartiene totalmente alla propria radicale relatività, a uno spazio di fatalità e smarrimento. La poesia non consente mai «gesti di superiorità», annotava acutamente Cesare Viviani.

Forse l’unico modo perché vi sia « l’incontro con lo straniero” , ossia con l’autore o l’autrice, è porsi in ascolto totale : solo così si potrà tentare una lettura che sia adesione appassionata alla parola poetica. La lettura di un’opera poetica infatti non è mai spiegazione logico-dimostrativa, ma capacità “quasi fisica” di vicinanza alla potenza e nudità della lingua di poesia.

E’con questo atteggiamento che cercherò di avvicinarmi alla scrittura di Giovanna: una poetessa, un’amica che ho avuto il piacere di conoscere e frequentare spesso, ma che ho anche potuto leggere con attenzione appassionata ancor prima di averla incontrata. Oggi lei non c’è più. Se ne è andata nella notte tra il 30 e il 31 dicembre del 2003 dopo una battaglia combattuta per anni contro un male incurabile.

Resta la sua poesia con tutta la forza che da essa emana e dice la grande dedizione che Giovanna ebbe per la poesia: dedizione appassionata e dolorosa, come è quella provata per ciò che occupa totalmente il nostro animo e da cui ci si sente avvolti, travolti, trascinati e chiamati.

Sin da ragazza Giovanna scriveva un diario per trovare la sua voce, attraverso le parole sul foglio, come annotava nel 1999, in un breve ma intenso libro di riflessioni sulla vita e la poesia, La legge e l’estasi : «(credevo fosse quello) il tono vero della mia voce, quello inconfessabile e brulicante sotto il cuoio dell’agenda e la chiave del cassetto: storie anguste di famiglia e di quartiere dove urlavo ciel aperto il dolore e la gioia. Dovette accadere nella mia vita, qualcosa di silenzioso – non so quando, non so cosa – perché osassi chiedere un luogo in cui ospitare dei versi, scrutare leggi e fattezze, la simultaneità di un contenuto con il timbro della sua musica» e sottolinea ancora la poetessa: «nel passaggio dalla biografia al verso vedevo che qualcosa di incomprensibile fluiva nel modo più violento, energia assoluta e dettagliata della materia di fronte a cui soccombeva qualsiasi congegno narrativo.

Era l’impressione di chi impara nuovamente scrivere, di chi scopre in sé, con l’inquieto stupore del pioniere, una facoltà ignota, un diritto naturalmente precluso, un’improvvisa autorizzazioni a procedere, a disporre in forme interamente diverse, non solo nomi, ma corpi-pensiero, imperativi, presagi, déja-vù, occhi odori, persone» . Con uno stato d’animo che non permetteva indulgenza verso se stessa, né un minimo tradimento al proprio sentire, ma richiedeva vigilanza continua, Giovanna scrisse il suo primo libro, Decisioni del 1986: libro compatto e cruciale , seppure d’esordio dopo alcuni testi pubblicati su riviste e in antologie . Un libro determinante, che segna l’apprendistato iniziatico e poetico di questa autrice, dove la lotta con la parola e la forma si fa precisa, tanto che il silenzio e l’ascolto si intrecciano “in maniera esaltante», annota la stessa Giovanna, poiché in quei testi «il verso cadeva nel punto di un misterioso ritmo interno, testimoniava, prediceva, augurava, era sempre più avanti e più esatto della mia indecisione».

Emerge chiaramente già in questa raccolta degli anni ‘80 la sensazione che ha la poetessa di vivere in un’epoca immobile, potremmo dire parafrasando il titolo del suo ultimo libro del 2003: anni chiusi e di conflitto; anni oscuri e ottusi. «Mattino aperto è questo che si vive come in guerra./ Per quanto si udisse dovevo soggiornare/, nel piede imbastito dal correre per puro caso.» e, in un altro testo, leggiamo: «Lodarti, festeggiare un mistero,/ una preferenza infantile di roccia,/ dispersa la traggo,/io nuda senza ritorno,/ in cerca di lava sotto il vulcano, fra le mappe,/ cosmico luogo per camminare in verticale. » (p.15) e ancora: «Gettata nei tombini è l’anima delle prime strade./ Nelle sere ramate./ si distendono rugiada e fango./ A migliaia le stragi, in assenza di facce» .(p.14).

Sono poesie dove si ribadisce che tutte le esistenze sono calpestate, ma si dice anche come la poetessa stessa si senta esposta (con la sua parola poetica e dunque con la sua stessa vita) alla sordità del tempo e, per questo,“senza scampo”: estranea e straniera al suo tempo. In esilio. Forse proprio da questo conflitto interiore nasce la «forza esclamativa»di questi versi che, notava Milo De Angeli nella prefazione critica, non è solo un elemento formale ma il «nucleo etico e stilistico del libro».

Il conflitto, il pòlemos antico che la poetessa ingaggia nei suoi versi con il mondo è caratteristico della ricerca di questa autrice, ma ad esso si intreccia sempre anche un’attenzione particolare, una sorta di amore fraterno, una piètas profonda e vera per gli oppressi e dimenticati, per i bambini, per i detenuti di Rebibbia (dove Giovanna ha lavorato per oltre 12 anni) e per le donne. E’ come se la stessa ostilità e durezza del mondo imponessero alla parola poetica di Sicari di dar voce a tutti gli «umiliati e offesi» incontrati nella vita, poiché è proprio ai «senza lingua», diremmo usando un’espressione cara alla Campo, che la poetessa ha sempre voluto dar voce. A costoro Sicari dedica infatti uno sguardo speciale che, a mio avviso, fonda quella particolare etica di fratellanza che, in parte, avvicina la poesia di Giovanna al francescanesimo medioevale, colmandola di tensioni e slanci.

Un altro elemento chiave, che tornerà in tutte le raccolte, è il dar forma nei versi a una sorta di autoritratto (mai finito) e stilato ogni volta al di fuori dall’autobiografismo in senso stretto: Giovanna si dice con immagini di donne del mito o della letteratura, altre volte lo fa attraverso figure femminili di persone della strada o anche della fantasia. E’ un autoritratto spesso ironico, a volte tragico e spesso ha toni fortemente teatrali: un darsi forma in versi, con cui la poetessa dice e non dice di sé, poiché dà al proprio Io singolo forma collettiva, direi, il che significa un’uscita dall’autobiografismo in nome della teatralità della parola.

Infatti l’identità da questa autrice è realizzata in poesia … a più voci e in più scene, se vediamo per esempio “Stanza di ufficio”,in Decisioni, scopriamo che la poetessa si autodefinisce: «piccola Venere dei proletari» (p. 26) e altrove dice di sé: «io che non so bruciare la terra/ non ho candidature, non ho ricchezze/ a rigore di parità non so neanche/ come si fa a indagare più a fondo» (p. 61), il che sottolinea un uso con modalità privativa di dire l’Io, in una sorta di auto-negazione e auto-annullamento di sé.

In una stanza del poemetto “Notti provvisorie”, titolo della terza sezione della stessa raccolta del 1986, si procede oltre e, con tono ancor più azzardato, Giovanna scrive: «Vorrei essere essenziale/ minuta come un bambino magro/ come un volatile fra le foglie, ed espormi con naturalezza.».Questa poesia raggiunge nel finale un tono quasi mistico, dove la poetessa chiede “purificazione” e una potenza creatrice, capace di dar vita a creature di natura strana, sorta di esseri allegorici (serpi e gigli), tanto che la poesia è ora quasi un’arcaica profezia:«Nell’acquata sera potrei purificarmi/ anche qui senza Nilo/ potrei proliferare/ gigli immensi o serpi/ fra gli sterpi immaginare l’impossibile/ metà tentativo». (p. 49).

In questa raccolta d’esordio compare la tematica religiosa già ora strettamente intrecciata con una visione carnale e terrestre della vita, il che costituisce un’originalissima forma di religiosità propria dell’autrice che, per certi versi, è proto-cristina, con una connotazione specificamente carnale, tanto che direi che la poesia di questa poetessa è prossima alla lingua delle mistiche, segnata dalla convivenze degli opposti, dal conflitto con il mondo, dall’ossimoro, da un senso di pochezza e volontà di annullamento di sé per dar voce alla tensione “unitiva» tra l’io umano e il divino, il che scrive Giovanni Ponzoni in Scrittrici mistiche italiane è modalità propria delle mistiche, dove il balzo in verticale verso Dio si mischia all’orizzontalità terrestre del corpo, unendo dunque sacralità a temi chiaramente erotico-amorosi. Vediamo in questa direzione anche alcuni versi di Giovanna: «Mio passante, questo caos bastava, / passava; dolce compagno, uomo, re, campione/ ci contavo, io ero una stella di terra/, pallida ti stringevo, tonda ti pensavo/ con guanti, mi stordivo, malata negli occhi» (p. 63). Va anche notato, a conferma di questa mia osservazione, che in “Rosso mistico”, un importante poemetto e titolo della prima sezione della raccolta, il tono si fa via via perturbante, intrecciando l’invocazione al Cristo, un’immagine di ex-voto (tipica della religiosità popolare, proiettata però qui all’interno di sé)e la dichiarazione della potenza eversiva del piacere carnale, strettamente connesso all’invocazione di una totalità d’amore: «Gesù prendimi, /nella macchia di questo secolo ottuso, nel rosso mistico di una/ sferzata di marzo» , e nella seconda stanza del testo: «Il mio dentro ex-voto è loculo di un adulto/ in fasce: i canti posseduti dalle primizie/ sono il tuo calore di glicine./ Il fatto nuovo è l’eterno piacere/ della carne.» (p.19). Nel poemetto “Decisioni”, che chiude e dà titolo all’intera raccolta, si legge: «L’amore era la mia stolta credenza./ Ingannarti mi era impossibile./Il sesso, era la solita cosa/ in un angolo/ senza occhi per forza. ». Il corpo cui allude la poesia di Sicari è prossimo (se non coincidente!) con quel corpo glorioso di cui hanno scritto mistiche quali Maddalena de’ Pazzi, Margherita Porete o le più note Teresa d’Avila e Caterina da Siena: donne che sentirono nell’amore carnale il veicolo privilegiato per raggiungere l’unione totale con il Cristo, tensione che diede anche forma anche alla loro “specialissima” lingua mistica. Nei loro diari o nelle loro autobiografie, infatti, il corpo individuale che vive la passione per Cristo è “trasmutato”proprio nell’unione amorosa, dove è annullata l’identità delle donne, proprio come fa Giovanna, che persegue l’annullamento del sé in poesia e, al contempo, attraverso la poesia cerca un potenziamento e una trasmutazione della sua stessa carne in parola. Ancora una coincidenza di opposti alla radice di questa poesia. Va detto che in altri testi si scorge invece una poetessa che, guardando laicamente la realtà, sente l’assenza di Dio e lo invoca senza alcuna certezza di avere una risposta, come in “Musica del tempo che passa”: «Passava, l’innocenza/ dov’eri finito: uomo benedetto della tempesta, non sapeva/ nubifragio delle forze inespresse, non sapeva/ oh bestemmia di mezza stagione/ /ci serve un dio che risponda nel tempo» (p. 31). Dunque sin dal primo libro convivono elementi che saranno proprio della visione del mondo di Giovanna, connotata appunto da una religiosità terrestre e carnale, che si compone di tensione religiosa e sguardo laico sul mondo; passione annichilente sino all’auto-annullamento e amorosa attenzione per i deboli; visionarietà e lucidità ironica tagliente. La raccolta del 1986 è fondamentale, quindi, per cogliere alcuni temi specifici e ricorrenti della ricerca di questa autrice, che affermava «sarei morta se non avessi scritto Decision» – e lo è anche per quanto riguarda la presenza di elementi stilistico-formali, tipici del laboratorio poetico di questa autrice. Compaiono già ora la propensione per le ambiguità sintagmatiche, con una concentrazione vertiginosa del verso, dove è abolito spesso l’articolo e anche le preposizioni, con la creazioni di frasi nominali, ellittiche dove si nota anche l’uso dell’anacoluto, ma soprattutto la forte ricorrenza dell’anafora, che è sempre “in crescendo”, in una tonalità che avvicina la poesia al tono della preghiera. Determinante è l’uso decisamente fonetico della lingua: allitterazioni, assonanze e la frequente ideazione di paronomasie segnano tutta la ricerca di Giovanna, e un bell’esempio di struttura anaforica in connotazione avverbiale è il testo “Soltanto che non eri”, dove l’avverbio ‘soltanto’ dilata la sfera semantica:si va dal tribunale al corpo; dall’ombra al lager, dalla carne al bosco, creando immagini di senso via via più ampio, intuendo così “fili invisibili” tra elementi distanti: «Soltanto che non eri al banco degli imputati, al bianco di nessuna legge fatta nostra./ Soltanto gelidi assassini avrebbero sospettato / e io ti avrei nascosto nella mia ombra/ da campi di sterminio” e, appena oltr
e, nel testo: «Soltanto questo corpo vermiglio a distanza breve/ da occhi come boschi di scogli,/ offuscati dalla nostra lunga voce,/in un quadro di orme feroci e delicate”(p.35) e nel finale: «Soltanto un insolito sentire / oltre le unghie nella carne/ e denti bianchi di un altro sterminio”. Per quanto riguarda l’uso e il senso della paronomasia, vediamo che nel testo “Promemoria” i termini «protervia» e «protesta» sono nello stesso verso e separati solo da una virgola, dunque, “si specchiano”in modo tale che le parole esprimano un legame forte tra il disagio vissuto dall’autrice e il suo voler fare “una protesta” (con la lingua poetica), per cui leggiamo che è necessario, scrive Giovanna, creare «gorgheggi», fare «parole nervose» che vadano oltre … le porte chiuse, oltre la fretta e la logica dominante. Consueto e determinate nella costruzione dei testi di Sicari è anche il balzo analogico non però di tipo ermetico, bensì ottenuto con la costruzione sintattica che, spostando un termine comune in altro campo semantico e ponendolo così entro un’area insolita, non ben circoscrivibile, amplia il senso di tutta la frase che diventa mobile, perturbante e irriducibile a una precisa spiegazione logica. Si noti anche come la costruzione dei versi, a volte, è fatta secondo un periodare ipotetico che però non sorregge un ragionamento di tipo sillogistico-aristotelico – il che porterebbe a un procedere rigoroso e a una conclusione certa – bensì crea un pensare fluttuante e aperto, che dilatando l’immagine, scardina la logica tradizionale e disorienta il lettore, per costringerlo a uno sguardo ‘diverso’ sul reale. Un esempio è ciò che accade nel poemetto “La fine del’estate”: «Se per le piante studiavo la luce/ indiretta per quel tono fragile di stanza/ da letto, se per la cena / al torrente mi cibavo/ se restavo come cagna in amore/ come cigno flessuoso nella villa/ come se io avessi intuito/ e tutti fossi esposto il mio sogno, maldestro/come se il bestiame forse partito/ e le mandrie seguitavano l’attraversata» (p. 55).
Le varie modalità di Giovanna di costruire la scrittura testimoniano il suo modo assoluto di stare dentro la parola poetica (come dentro al mondo!) e, infatti, per lei era necessario abitare la lingua con tutta se stessa: «si scrive per una grazia violenta e si è impossessata di noi. Una norma imponente ci costringe a farlo, ci dirige, ci aziona. E’ un momento atemporale, in cui a ogni cosa si vuol dare nome. S’impara così a distinguere, a munirsi di resistenza e dell’attrito, che è proprio di un moto dell’anima verso l’ignoto» . La lingua poetica di questa poetessa, dunque, è allo stesso tempo mobile e acuminata, imprendibile e scabra, terrestre e mistica nel suo riuscire a dar vita a poesie che ri-creano il mondo in parola: poesie che sono veri corpi viventi. Fare poesia per questa autrice, infatti, non è esito di volontà soggettiva, né mero artificio, ma visione del destino: l’intuizione della legge che appartiene a ogni vivente, il che ci rimanda al pensiero già citato in apertura di Cristina Campo a cui Giovanna è senza dubbio vicina. Potremmo anche dire, come affermava Paul Klee per la sua pittura, che fare poesia per questa poetessa è «rendere visibile» il mondo, ovvero, dar forma alla legge che è nelle cose stesse e le ordina, dando loro telos , senso e ordine. Il poemetto Ponte d’ingresso del 1988 è un bell’esempio del legame tra terra e cielo presente nei versi di Giovanna: l’eros, che ne è fulcro, supera il tema specifico e diventa via di un’interrogazione sull’identità e sul corpo, tanto che il corpo è sentito come energia divina, una forza «mistica» e una «furia d’azzurro», scrive la poetessa, ma anche è sempre prova del nostro umano abitare la terra: «E’ peccato desiderare ma esser qui / è la naturale elegia» e, poco oltre nello stesso testo: «Soltanto i pazzi sanno – pensavo/ non potendo dimostrare i sogni/ che bruciavano la vista. Soltanto/ il corpo presagisce e interpreta/ la quintessenza» . Il corpo è ancora e sempre per Sicari un “ponte” tra l’umano e il divino: l’unione carnale attinge a una purezza sacrale in una religiosità terrestre e carnale che è propria di Giovanna, che coglie nel particolare quotidiano ciò che lo trascendente, intuendo l’unione tra profano e sacro. In questo inesausto lavorìo sulla materia verbale, nel suo tenere insieme gli opposti e scardinare la sintassi, dilatando la logica consueta, la ricerca poetica di Sicari ci richiama alla mente la scrittura di Amelia Rosselli, con la sua capacità di decostruire e ricostruire il linguaggio e anche il pensiero, dando vita a un nuovo modo di sentire e abitare la lingua. D’altra parte è la stessa Giovanna che dichiara in modo netto, in La legge e l’estasi e non solo, il suo forte legame con la scrittura della magistrale Amelia, soprattutto per quel che riguarda Documento: « La poesia di Amelia Rosselli, ricca, centrifuga densa di richiami, mi appassionava con la sua adesione integrale al dicibile. Mi appassionava l’uso di un ‘tu’ che può essere qualunque cosa. Da questo ‘tu’, ampio e trascolorante, nasceva continua a nascere una spinta a raggiungere l’altro, a sentire lo sterminato corpo dell’esistente come un corpo umano: tentacolare e devoto al proprio unico nucleo, sospeso tra la calma notturna del più semplice desiderio e il tacito scatenamento che nessuna tempesta può rappresentare» .
Con la raccolta Sigillo del 1989 tornano alcuni temi e modelli espressivi dei libri predenti, diventati persino topoi della poetica di Giovanna, ma c’è anche uno sviluppo e un approfondimento nella direzione di una maggiore attenzione al mondo e all’Altro. Va notato che il senso di esilio della poetessa, la sua estraneità al tempo, espressi già in Decisioni, tornano qui anche con la ripresa del poemetto d’esordio, “Viaggio clandestino” : ora rivisto e inglobato in più parti separate come poesie singole nel libro, testo dal titolo esplicativo e simbolico, usato ora per un’intera sezione. Un testo emblematico, dunque, in cui si allude a una figura allegorica (l’aquila) e a una sorta di battesimo vissuto dalla poetessa: «L’aquila cadde vicino a me, volle farmi guerriera» e, nel finale, «Non fu femminile vendetta ma innegabile somiglianza/ a un battesimo di sangue virile». Torna anche l’autoritratto con una commistione di maschile e femminile, con innesti di ambito zoomorfo, persino, e in altri testi anche con l’uso di differenti figure femminili, ma torna anche un dire di sé in senso privativo, come di chi vive un’esistenza “altra” rispetto al comune: «Impotente per imparare, per la maturità / del cielo incapace, per il rombo della/ nave inerte, m’imbattevo solo nei fumi/ di un gasdotto che bestemmiava l’accesso/ ad un passaggio invalicabile» (p. 13). L’auto-descrizione è espressa ora anche come collocazione spazio-temporale atipica, come si legge nella sezione “Zona franca”: «Per un lavoro malpagato pretendevano/ la rincorsa, ma io in zona franca/ scherzavo, ero fuori dal turbine della frontiera»(p. 34) o nel testo seguente: «L’eccidio, l’evasione fanno trincea/ io sfuggo e mi accaloro per un altro recapito» (p. 35). Ancora va notato che, in continuità con la ricerca precedente, a epigrafe del volume è posto un frammento de La libellula di Amelia Rosselli, in cui si ribadisce sia la natura terrena della visione poetica, sia un’acuta tensione verso «la luce» , intesa come simbolo e manifestazione di una verità trascendente. Il termine luce (con le sue variazioni) è di fatto ricorrente nei versi di questo libro: «Assomiglia ai puntini la luce nella macchina da scrivere» (p. 14); «Assomiglia alla luce in viaggio il volo del fulmine/ sul marciapiede, il canneto prima di amarsi »(p.15); «Fu la bicicletta, la disputa delle pedalate/ l’ordine mostruoso delle tabelle dei viaggi/ e ancora statiche lingue di luce fra i salici»; «Gran gala per la luce fra gli occhi/ e le corse fra le rassegne e / le giostre e le rampe» (p. 23). Si noti poi il testo “Lumi dei profeti” che culmina nei versi «Date a me i lumi dei profeti/ le loro labbra perfette» (p. 59), dove la parola poetica si fa invocazione di una parola che si avvicini alla profezia e sia potente e visionaria. Se tutto il libro del 1989, dunque, da un lato continua in modo evidente la ricerca specifica della poetessa, dall’altro amplia la gamma tematica e si crea un più netto nucleo etico dentro la poesia. Il titolo stesso del libro ne dichiara l’importanza, la volontà della poetessa di salvaguardarne il contenuto e, inoltre, va notato che il termine “sigillo” allude a un marchio a fuoco nella carne, a una ferita indelebile: sorta di stigmate, il che pare alludere alla poesia stessa, tanto che si può dire che « il volume ha il valore di un testamento, una consegna che il poeta fa di sé al mondo, con quanto di esso ha potuto vedere, intuire, patire» , come è già stato acutamente notato . Emerge nel libro del 1989 anche il legame con un altro maestro, Pier Paolo Pasolini, molto amato da Giovanna e, infatti, a esergo della terza sezione sono poste queste sue parole: «Ma c’è nell’esistenza/ qualcos’altro che amore/ per il proprio destino.// La nostra storia! morsa/ di puro amore, forza/ razionale e divina»: una citazione con cui la poetessa dichiara la comune passione per la gente comune, l’attenzione per il presente e anche per il passato, sia inteso come storia sia come destino. Giovanna trae sempre spunti per la sua personale ricerca dalle sue letture, seppure rivisitando temi e stile di ogni poeta amato per dare forma a una parola che sappia rinominare il mondo, scorgendo ciò eccede il puramente materiale. Parola mai simbolista quella di Sicari, né ermetica. Se c’è un’oscurità nel suo poetare è frutto di uno scatto semantico, nell’intento di attuare un’adesione della lingua al divenire dell’esistenza: Sicari, infatti, non attua mai in poesia slogature formali per mero gioco linguistico. Va detto che la sua ricerca non è mai stata prossima all’operazione sperimentale della Neo-avanguardia, avvertita negli anni Settanta della sua formazione romana come troppo gravata da rigidità ideologica , però Giovanna fu legata da stima e vera amicizia a Elio Pagliarani, forse il poeta del Gruppo ’63 più attento alla vita dei diseredati, e basti qui citare il ben noto poemetto “La ragazza Carla”. Quanto detto viene confermato dalla parole stesse della poetessa: «l’impegno del poeta non ha niente di predeterminato; il suo scartare, separare ombre e luci, pieni e vuoti, richiede una vigilanza che nessuno impone.”. Questo modo “esistenziale” e vitale di abitare la lingua è evidente anche nelle scelte lessicali di Giovanna e notiamo l’uso dei tanti registri linguistici, infatti, la sua lingua poetica è a volte colloquiale, altre colta; talvolta c’è il gergo, e persino l’uso di termini scurrili, ma le parole sono sempre collocate entro un contesto inconsueto e usate dunque anche in forma ironica, tanto da assumere nuovi sensi, oltre il gergo. E’ una lingua calata sempre dentro la vita e da essa trae spunto: l’intento di Sicari è smuovere il linguaggio, aprirlo, rivitalizzare i termini anche più consueti dall’inerzia e rendere così “viva” la lingua , capace di incidere nel reale, per questo vediamo come dalla stessa langue esce la forza della parole di questa poetessa. In tal senso si noti l’uso insolito di luoghi comuni, recuperati nei versi e resi così di nuovo espressivi; ci sono anche certe metafore logore, con variazioni però che hanno valore straniante, tanto che il tono tragico si mescola sovente nei versi con altri scherzosi e imprevisti, persino autoironici. Determinate – come si diceva – è la ricerca fonica nella scrittura di Giovanna, che valorizza sempre le potenzialità sonore della lingua, arrivando a realizzare mediante la sonorità degli stessi termini abusati dall’uso comune balzi analogici, stacchi inconsueti, in un ritmo interno franto ma sempre unitario. Un’ultima osservazione a proposito della raccolta Sigillo riguarda il poemetto conclusivo, intitolato significativamente “La madre”, dove tornano temi già notati: l’attenzione al femminile, l’autoritratto etc… arricchiti ora da un pensiero ancora più netto e da una scrittura di lungo respiro. L’autoritratto è estraneità al mondo, in termini molto duri: «Io mattatrice presa nel mezzo di un falso movimento/ non merito un buon impianto una buona recita,/ sono madre di media grandezza/ come Don Chisciotte contro il vento nemico della tua nevrosi/ malattia di un tempo che non è più infanzia e religione/ io ho oramai sono fottuta da questo tuo stesso tempo che non mi vuole”(p. 64). C’è anche l’attenzione per le donne, come dicevamo, in primis per la figura della madre: madre reale e mitica, ma anche per altre donne (della letteratura e della storia), creature belle e seducenti che, forse per questo, furono e sono ancora o non capite o rimosse dalla storia: «Polvere medioevale dove sei?/ Dove siete Marlene, Gilda, Cleopatra, dov’è il sangue eterno/ delle donne, e delle donne nate uomo e delle dive/ e delle puttane/ e delle pie donne cantatrici di un sinistro rovello?. / Il filo di sangue che corre nel vostro inferno/ è la debolezza di cui gli uomini non sanno nulla/ e come poter essere madri con i seni di Lola/ e l’assenzio negli occhi, e come poter essere/ una donna che non tradisce, che non geme/ che non dona una bocca calda in una via qualsia
si/ come poter essere una donna ingrata di questo tempo/ come poter non essere oltraggiata da voi maschi inferiori/ feriti di una ferita di cui sono innocente!”(p. 69). Versi acuminati, sorta di accusa al mondo dominato dal pensiero patriarcale e dai suoi valori, infatti, a questi versi fanno eco alcuni altri passaggi nel già citato poemetto, per esempio: «La bomba al napalm che è caduta/ aveva un fondo roseo unito a chiazze/ orrende, insapori, aveva la carnalità/ delle madri e l’inferiorità della cronaca” e – nella sezione “Sigillo” – leggiamo: «Con il seno rifiuto il senno/ dissennata madre che crede/ in un continuo contagio”(p. 53), cui fa eco l’immagine di sé come donna-guerriero che afferma «con l’energia dei soldati ascolto il canto sfrenato/ che arriva, che s’ ode dalle crepe dei muri/ respiro che crea un ingorgo”(p. 79). Sono tutti testi dove compare una figura femminile vista come potenza creatrice: donna-madre, che ha proprio nel corpo la sua potenza e, in quanto tale, è fattore perturbante nella storia, essendo non solo madre ma sorta di ‘forza eversiva’ del pensiero e delle logiche dominanti. E’ chiara la centralità che ha il corpo nella poesia di Giovanna, già lo si diceva, ora è chiaro che il corpo per Giovanna è “apertura al mondo”, come direbbe Umberto Galimberti , l’unità del nostro essere al mondo. In tal senso il corpo è origine di quell’etica terrestre che si diceva propria di questa autrice: un’ etica concreta, non precettistica, ma fondata su un amore creaturale per i viventi, per tutta quell’umanità che la Grande Storia cancella, non solo le donne, ma anche i deboli e gli oppressi . In tal senso leggiamo: «il dolore dei tanti mi giunge/ come un passo attutito/ è tanto e dolce, è di pietra/ questo loro terrore, si accostano/ e chiamano, è in bilico la mente”(p. 44). Nel testo seguente: «appoggiata appena allo schienale/ ero là che invocavo tutti i santi/, del paradiso, i divini, i malcapitati/ ammaliatori, ostaggi dell’anno duemila”. In un’intervista la poetessa afferma: «Forse ho nel cuore una sorta di cristianesimo delle origini, perché credo che le persone che sono nel dolore, nel bisogno e nella necessità sono le più vicine a Cristo. In certi spaccati di quotidianità, dura e violenta, è come se cogliessi il palpitare del divino. Per questo provo una predilezione per quello che è il mondo degli offesi, un mondo che mi chiama a scrivere, che sento per istinto presente alla mia poesia” .
Le figure femminili, soprattutto la madre, così come la forza eversiva del corpo, connotano anche il libro successivo, Uno stadio del respiro , insieme con la propensione all’autoritratto fatto attraverso altre figure. Ora è il principe Mijskin: il personaggio dostoevskijano fuori dalle logiche comuni a cui Giovanna si sente vicina per il suo stesso essere “fuori bordo”, diremmo, per il suo usare una lingua ambivalente, selvaggia e combattiva: “Ma io non servo a voi, io vado verso l’infarto/ non ho voglia, non un solo desiderio realizzabile/ solo la rissa di parole che nella macchia/ cercano il cielo”(p. 40). Versi consapevoli e acuminati che si specchiano nel testo seguente, dove la scrittura poetica è detta “poetamare intrepido e animale” (p. 41),con il che pare netta la certezza di Giovanna che la poesia è logos incarnato: una parola che sfugge il comunicare consueto e avvicina all’istinto, all’intuizione, al sentire animale. Nota Roberto Deidier che l ’opera del 1995 è caratterizzata da “una frattura (che) si traduce in una ferita, in una densa corrente metaforica che si trascina intorno a un termine topico : il sangue” e, infatti, la raccolta ruota attorno alla condizioni di cecità (il “non vedere”) che caratterizza ora l’Io della poetessa, aprendo un’interrogazione sul rapporto tra le parole e le cose e dichiarando anche il limite della possibilità espressiva e, al contempo, la necessità conoscitiva propria della poesia, come osserva Luigi Tassoni . Leggiamo alcuni versi: “Fate conto che non abbia occhi/ che sia nel cielo il balsamico odore della cerimonia, che sia nel sole/ il senso, la mistura” (p. 28), cui se ne affiancano altri, dove è chiara l’inesausta necessità di una parola capace di nominare la concretezza del mondo: “ci assolveranno le cose intorno/ sterminate da abrasioni splendenti”(p. 17). Per poter nominare il reale e la sua legge interna viene invocata la forza della visione, detta dalla poetessa sensualmente “il bacio dell’intuizione”(p. 19) e poi Giovanna aggiunge: “Io cerco l’innocenza/ là dove non si manifesta/ domani per il mio bouquet/ là dove i giorni sono lampioni/ e i giochi finestre parallele/ da cui nasce un dio biondo e bambino”(p. 36). In Uno stadio del respiro trova esperssione la difficoltà di comunicare con l’altro, il che prende forma in ardite soluzioni formali, in parte già viste nelle raccolte precedenti, ma ora il trobar clus si fa ancor più arduo, come a voler mettere in scena una dimensione belligerante della lingua, un far poesia sempre più nell’intento di un’adesione della parola al fluire frammentato, sfuggente e ottuso del mondo. Fare poesia è inesausta lotta contro il mondo e le sue logiche perverse, dice Giovanna, in quanto ormai “un ferreo dispositivo allontana/ la grazia che non so dove giace”(p.33). E’ un’ epoca in cui “l’ora è nascosta, si è fatta merce/ svogliata per il cuore”(p. 30), scrive Giovanna, in cui la realtà intera è sgretolata e senza identità e la poetessa esclama: “ Paradiso non sei qui!, Qui c’è il giorno e la notte/ la fame e la sete -: i bisogni e della terra”(p. 37). Tutto questo porta a concludere il libro in versi in cui l’amarezza del sentire, l’acutezza dello sguardo e l’ accusa contro il mondo si intrecciano fortemente: “- /ora ho imparato anch’io a tacere proprio così come sul treno/ aspettando che passi, siamo tra le macerie/ ora così ingannati si sta bene”(p.71). Ma continuamente si ribadisce nei testi di Uno stadio del respiro anche l’amore per la vita e la necessità di trovare parole autentiche e che non mentano: “Nel primo stadio del respiro vi amo,/ unica libertà, unico ascolto”(p. 62).
Quattro anni, dopo esce la placchette Roma della vigilia : il passo dei versi si fa più lungo, lo stile più colloquiale, il ritmo quasi narrato ed è forte la concentrazione dei testi su scene di vita, su persone e luoghi romani … segnati da un mistero. Il parlare di questa imponente e sfuggente città è infatti anche un interrogarsi sul senso della vita e della morte, su una condizione di “vigilia”, di attesa, dunque, di un evento significante che dovrà avvenire: “Roma dell’eterna vigilia spariva/ nella sua foto di festa, spariva per tutto ciò che/ non mi riguardava, per la sua macchina goliardica e oscena/ per quella luce portentosa dell’adolescenza/ per quella luce dei fari e dei piccioni/ per quegli infiniti mesi di maggio, / di tutti i tempi, di tutti i tempi/ con la stessa febbre che solo qui/ da quella brama non per me protesa”(p. 14). Anche a un’altra città Giovanna ha dedicato la sua attenzione: Milano, scoperta attraverso le parole di Franco Loi, poeta da lei amato e che gliela svela nel suo essere una città carica di fascino e sortilegi. Giovanna, dunque, ha scritto il libro Milano nei passi di Franco Loi, che è un’opera in cui, come nota Marco Vitale, è possibile cogliere “una sorta di rispecchiamento segreto. Un trovarsi a rivivere, seguendo i passi di un poeta amato, un itinerario intimo di abbandoni e approdi, di nostalgie e speranze: un intreccio affettivo” . Ma torniamo alla plaquette Roma della vigilia, dove è importante l’attenzione data al destino degli “umiliati e offesi”, qui chiamati per nome e accolti dalla poetessa nella loro fragilità, nel loro esser persino “figure sacrificali”, schiacciate dal ritmo inesorabile del presente: “Lì il bambino cinese, Ahmed/ o Mustafà raccolgono fiori e fortuna/ di derelitti senza ritorno come abbandonati pellegrini/ a cui nessuno chiede veramente se importa morire/ rapiti rapinati immersi in un sonno lieve è straniero”(p. 11). Queste “vittime” della storia non sono mai guardate nei versi con sentimentalismo, né il tono è mai populista ma, al contrario, viene colta la profonda vicinanza tra loro e noi tutti, tra il loro dolore e quello di tutti i comuni viventi: “gli uomini inseguono gli uguali/ nel sonno o relitti alla deriva,/ sono lì in quel quartiere/ : lì ho visto mio padre per sempre: Villa Sciarra 1962, inverno segreto” e nel finale leggiamo: “lì eravamo uniti uguali e mendicanti,/ lì mio padre piangeva già la morte di sua madre, e avevamo meno di nulla/, solo morbose dita umidità/ una pubblica villa una questione privata.”(p. 24). Insieme con la denuncia dell’epoca attuale che, sotto le vesti di opulenza cela l’oppressione e l’abbandono dei veri valori del vivere, nei versi di Giovanna emerge però la certezza del valore di appartenere alla comunità umana: ciascuno è parte di una polis sostiene infatti la poetessa in più occasioni e – in quanto poeta – lei sa anche di essere parte di una tradizione e di partecipare alla stessa con il proprio lavoro poetico: “credo occorra capire che ciascuno da parte di una tradizione, ciascuno quindi deve essere consapevole e responsabile del passaggio, del compito di trasmettere il valore della parola”. Inoltre Giovanna afferma: “non c’è autonomia, nel senso stretto del termine, non possiamo darci legge da soli. C’è una legge che ci precede: una tradizione, appunto, alla quale siamo consegnati e senza la quale non possiamo pretendere salvezza. E’ questo il nostro nuovo rapporto con l’infinito”. E appena oltre si legge: “a differenza del rito cristiano, dove ciascuno è reso responsabile in solitudine della propria condotta, qui si configura una scena politica:in una determinata polizza deve esserci stato qualcun altro a garantire per noi, e a trasmetterci attraverso la cerimonia di sepoltura a possibilità stessa di essere giudicati” . E’ chiaro che il ruolo del poeta è per Sicari anche nell’assunzione della responsabilità di scegliere una parola con la quale non essere solo custode della propria anima, ma anche della condizione umana in quanto tale, potremmo dire. Poeta è chi dà voce alla storia e si fa “tramite tra chi ci precede e chi seguirà : il poeta è un po’ Caronte, come la celebre figura evocata in un titolo , colui che “traghetta”, direbbe Giovanna, e unisce i vivi e i morti, la memoria del passato e la responsabilità dell’agire nell’oggi.
Un forte intreccio di legame terrestre e di tensione al divino fonda non solo l’esistenza, ma tutta la poesia di Giovanna e questo si vede riassunto in una frase della stessa poetessa: “L’estasi è anche la gioia e lo stupore dello stare al mondo” : affermazione fondamentale per capire l’etica terrestre che segna la scrittura di Giovanna nella ricerca di una parola che sappia cogliere con meraviglia e autenticità il mondo. Al fondo della scrittura di Sicari c’è un rapporto complesso (eppure evidente!) tra carnalità e religiosità e, infatti, nel suo “sguardo” si collegano l’attenzione al reale, ai luoghi del vissuto, un’attenzione amorosa per le donne, i bambini, i sofferenti e tutti i dimenticati, dando voce alla piètas che rivela la particolare religiosità terrena di questa autrice che, come si diceva, emerge sin dalla prima raccolta. A confermare quanto osservato, ecco alcune affermazioni da La legge e l’estasi: “Come trasformare l’imperfezione se non attraversando un ogni impervietà, ogni imperfezione? Il linguaggio della poesia consente una libertà smisurata; straordinario è tradurre in poetico l’infinito impoetico” e ancora: “Separare e resistere è la religione della poesia: tenere unito è il nostro ringraziamento e la maledizione del sentire che è semplice e avito di un’altra comunicazione che lungamente, fermamente, vuole l’oggetto più vicino della terra, il punto più lontano del cielo” Il chiasmo tra estasi ed eros; tra responsabilità individuale della scrittura e legame con la tradizione emerge netto, con toni e modi inconfondibili, in Epoca immobile : ultima raccolta di altissimo livello che Giovanna poté vedere stampata solo poche ore prima di lasciarci per sempre. Un libro intenso e decisivo questo, dove è quasi impossibile separare l’invocazione e la preghiera dalla poesia, la memoria di vita dalla profezia, lo sguardo sul presente e la tensione verso un tempo a venire. Persino l’accusa contro il mondo, ottuso e ostile, si modula ora in versi che hanno toni decisi ma, al contempo, pacati nel ritmo e nella lingua che a volte si fa profezia e visione: “contatto” con il domani che ci attende e che solo si intuisce nell’oggi. Il libro si apre con Ora d’aria, un dialogo della perdita, possiamo dire, che ha un riflesso speculare nella sezione finale,Ore d’aria: titoli che alludono al carcere, al senso di prigionia vissuto, tanto che Luigi Tassoni afferma : “la voce che dice “io” è la figura che perde fiato, memoria e cognizione di causa e tempo (“ e perdo il fiato/ / perdo la memoria, ritorno proprio lì/ nell’unico tempo che mi è stato amico,/- dopo cosa è successo quando?)” . L’epoca immobile di cui ci dice Giovanna è un tempo doloroso, in cui la vera tragedia è “la mancanza del senso del tragico”, annota ancora il critico, “la mancanza del senso della storia intesa come progettualità e fantasia che parte dal presente, quindi come fiducia nel linguaggio” . E’ su questo scenario che Giovanna Sicari lancia la sua sfida: dar voce al senso di inappartenenza che vive, poiché per lei “la perdita è irreversibile, dunque il discorso si forma sul tragico, non come recupero ma come apertura di un confine”: se la perdita è “una ferita”, è anche il luogo attraverso cui passa l’inatteso, l’invisibile, il segreto che appartiene a reale, al quale la poesia deve dar voce”, conclude Tassoni. All’interno di questa dualità tra perdita e svelamento si articola la parola di Giovanna in questo libro che possiamo considerare – come nota Gabriella Sica – “la sua “serie ospedaliera”, dopo le tormentate “variazioni belliche”; dopo i suoi combattimenti “ “con la spada della mia bocca”, epilogo e magnifica ouverture musicale: “io che combatto sempre con la morte profeta” ” .
Tutta la poesia di Giovanna è segnata dall’offerta di se stessa intera: offerta della sua voce, del suo corpo, della sua vita e della sua poesia fattasi di carne sulla pagina bianca. La poesia è accettare la vita e appartenervi con gioia e slancio: “partecipare alla vita/ degnamente, chiamare/ andare fieri, con la mano/ tesa, tersi, gentili/ nel vertice di quelle cose che / si fanno senso, fortuna, salute” (p. 82). Per Giovanna l’amore per la vita e per gli umani sono centrali nel far poesia: “Cinque minuti d’amore valgono/ cinque ani d’infelicità perché/ i giorni sono avari di labbra, ruotano congelati/ in un’epoca immobile pieni di sangue” (p.17), poiché ovunque vi è un “dolore terrestre” che rende “aspra la vista” (p. 70), dice la poetessa. I versi di quest’ultimo libro, annota ancora Gabriella Sica, «appaiono come “ variazioni” continue e spossanti di un dolore chiuso, che dice di se stesso in vista dello “scontro” finale, rilancio di battaglie da combattere nell’evidenza umile e dimessa della vita prima del definitivo sconto e abbraccio. Questo è il tragico indicibile di Giovanna Sicari” . Giovanna è ha sempre voluto non solo denunciare la durezza del mondo, ma anche trovare un “rimedio” all’insufficienza, ottusità e inconcludenza dello stesso attraverso la poesia, da qui la sua una fede inesausta nella parola poetica. In questo è certo vicina ad Amelia Rosselli, ma in Sicari c’è anche una diversa tensione e una religiosità terrestre specialissime, a cui si è aggiunta anche – negli ultimi anni – la fede vera e propria in Dio. Quest’ apertura interiore alla religione è testimoniata anche nel bellissimo poemetto “Nudo e misero trionfi l’umano” – testo precedentemente pubblicato in una bella plaquette , arricchita anche alle opere di Vincenzo Scolamiero – ripreso in Epoca immobile e collocato in posizione centrale nella raccolta. Nel poemetto, come ho osservato in un altro saggio , i momenti centrali per cogliere la tensione dell’animo della poetessa sono: la richiesta di perdono (:“Perdonami Gesù per i miei pensieri mortali incisi nella roccia”) e l’invocazione di protezione, rivolta al Cristo:“Gesù proteggimi dalla distrazione/ dagli occhi ormai tracciati col piccone/ dai corpi picconati/ dai corpi scavati nella roccia”. Va sottolineato il tono sacrificale che connota anche questi versi e che è tipico di tutta la ricerca umana e poetica di Giovanna che del dono di sé ha intriso la sua poesia. Notiamo che nello slancio questo poemetto è prossimo alla preghiera: Cristo è protettore e guida per la salvezza nel mondo: il solo che può aiutarci a tenere retta la direzione del percorso e, dunque, può proteggere la parola poetica da tutto ciò che potrebbe oscurarla. Per Giovanna solo immergendo lo sguardo nella concretezza del reale, nel dolore, nell’umiliazione dei deboli si può scorgere la presenza di Dio: un atteggiamento prossimo al francescanesimo medioevale e che si avverte in tutta la produzione poetica di questa autrice che, come il Santo di Assisi, neppure al termine della vita cercava Dio nella solitudine, nel ritiro del mondo, ma voleva incontrarlo vivendo, patendo la vita nel dolore, anche nella sua opacità, avvertendo la caducità e limitatezza di ogni attimo, ma anche nella gioia dell’incontro. Solo immergendosi nel buio e nella sofferenza si può scorgere la “luce”, dice Giovanna, poiché Dio è telos, destino e legge, ma non è una divinità lontana e metafisica ma la forza stessa iscritta nelle cose del mondo. Un Dio, inoltre, sempre invocato, mai pienamente posseduto: “e noi resistiamo muti e miti/ nella su a divina indifferenza” (p. 44), scrive ancora la poetessa. Una parola poetica accorata e lucida, visionaria e concreta segna questo inesausto viaggio poetico di Sicari verso la verità dell’esistenza, sorretto da un’invocazione che pare fondare ogni momento: “Nudo e misero, in un silenzio violento/ trionfi l’umano, dentro questa unità, dentro dentro/ mentre un fuoco esplode un altro, un altro ancora, /ozio, fiamma colta fra corpi indifferenti”(p. 58). Se in tutti i libri di Sicari c’è la potenza dello sguardo del poeta vero che coglie il battito del tempo, in Epoca immobile possiamo dire che il ritmo stesso dei versi ha in sé l’urgenza del destino: c’è la tragicità del dolore umano (anche per la malattia e la fine imminente), ma anche la speranza nel dopo, una tensione che è apertura interiore profonda e, infatti, la poetessa chiude il libro con questi versi ispirati: “Trova il nuovo grande come bara/l’amore folle che guarisce, affonda in una morte / che non ricorda, poi qui sarà tutta nuova la cascina/ ci sarà la nuova vita, il canto buio degli alberi/ il canto disperato degli uccelli, l’ombra degli alberi santi, / né miseria, né carni, né questioni private/ solo nella melodia, qualcuno che infantile/ scova lentamente/ in uno stato d’incendio areremo/ entreranno nella casa tutti insieme/ con i cori dei salmi”.
Al termine di questa lettura di una ricerca poetica durata oltre vent’anni, si scorge come sia impossibile individuare un tema unico, un solo tono dominate nella poesia di Giovanna: la complessità e ricchezza della sua poesia si impongono con le loro sfumature, rifiutando ogni semplificazione, poiché “il senso, quello più autentico, va concentrandosi dietro ogni singolo sintagma, dietro ogni parola, spalancando visioni ” , annota Deidier nella prefazione al l’antologia comprensiva di tutta la produzione di quest’autrice, e sottoscrivo le sue parole. Ciò che resta però è la sensazione di una poetessa che – come pochi altri autori della sua generazione – ha saputo mettere al centro la potenza dell’amore, inteso anche come atto politico, nel senso più alto del termine: amore come comunione e alleanza con gli umani. Un agire verso gli latri e per gli altri che è cura della vita attraverso la parola poetica: è in questo impegno, in questo agone sempre aperto con il mondo e le sue leggi ottuse e violente che consista la “resistenza” di Giovanna, donna e poetessa. Una vita poetica rivolta contro la pochezza e insignificanza del mondo: questa amorevole e tenace battaglia con il mondo si delinea così in un’eredità importante per tutti noi, poeti , donne e uomini di questi anni così travagliati.

Leggi qui Cinque poesie inedite” di Giovanna Sicari pubblicate per la prima volta su questo blog per gentile concessione di Milo De Angelis, il 5 gennaio 2014. Le cinque poesie inedite di Giovanna Sicari, “Vorrei baciarti il sangue”, “Amore del rifugio e dell’acqua”, “Clinica del Sacro Cuore” (21 novembre 2003), “29 novembre 2003” sono state pubblicate in esclusiva assoluta per gentile concessione di Milo De Angelis, sono le ultime poesie scritte da Giovanna Sicari e non sono mai state pubblicate in libro.La poesia dell’aprile del 1996, dal titolo “Dal lago quaggiù”, è anch’essa inedita. E’ stato un ritrovamento di Milo De Angelis concesso in esclusiva al blog “Poesia di Luigia Sorrentino” il 14 gennaio 2014.
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