Sulla poetica di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni, credits ph. Dino Ignani

NOTA DI GIUSEPPE MARTELLA

Slittamenti è il titolo della prima e fondamentale raccolta di Gabriele Galloni.

Graficamente il testo è molto spaziato: i versi vi nuotano come filamenti di galassie in espansione, o come fotogrammi portati da un vento cosmico, stringhe di codice (verbale, numerico, genetico, tutt’insieme) che hanno perso il loro scopo evolutivo e la password per il ritorno alla Matrice.

Hanno perso l’aggancio con l’origine e col fine, sicché l’eccesso di luce e il candore del dire disegnano scenari per l’elaborazione del lutto e della malinconia.

La sua è una poetica della scansione esatta e pulita che va al di là del metro e della parola, per acquisire direttamente l’immagine e montarla in un discorso editabile e rimediabile.

Il suo sguardo è quello di uno scanner e di un laser, la sua poetica una nanotecnologia della parola-immagine, lo spassionato algido s/montaggio digitale delle fette di vita da parte di un software evoluto in grado di apprendere, ma per ciò stesso fragile ed esposto ai virus dell’ambiente.

Spietatamente egli mette in scena infatti la discrasia sistema/ambiente a vari livelli del vissuto e del testo. Nel suo dire (o mostrare), il silenzio interlineare fa da sfondo, come un tappeto sonoro in negativo.

Il silenzio che accomuna i vivi e i morti, che dilata lo spazio della figura e sospende il tempo dell’evento, preparando il gesto surreale che ci attende, che ci appare in primo piano o in campo lungo, in panoramica o carrellata, dopo lo stacco che fa da legame a diversi livelli del testo, a partire dalla metrica.

Da quella versificazione piana, scontata quasi nel suo tramandare (e tradire) il retaggio della lirica nostrana ed europea, con la più assoluta sprezzatura di ogni “ricercar”, come se questo fosse già avvenuto altrove, in altro luogo e tempo della storia sociale e della propria anima, in una sorta di slittamento fondante dalla psiche individuale allo spirito del tempo (Zeitgeist).

Per quanto la situazione evocata infatti possa spesso essere idiosincratica, perversa, persino oscena, l’atmosfera, la Stimmung, ha sempre in Galloni, una valenza collettiva che attraversa la carne del mondo e la trascende in una prospettiva comunione tra i vivi e i morti.

Certo la fascinazione della morte è una delle costanti della sua poesia, dove thanatos eclissa eros e lo perverte, lo rende obliquo ed elusivo, anfibio e androgino. Diluito e liquidato nel campo semantico dell’amicizia e nella dimensione del ricordo. Ne fa ingrediente e collante di una messa in scena che mira ad altro, al radicalmente Altro, alla comunione coi morti, appunto, con lo spettro di luce del mondo in cui viviamo, con la sua eccessiva trasparenza che brucia lo sguardo, con i limiti del diafano dove si dissolve ogni figura.

In una ridda di echi letterari si consuma qui infatti il rovesciamento, la preclusione di ogni romanzo di formazione, nel tempo reale della rete, nel presente allargato del villaggio globale.

Nel solco scavato dall’ombra lunga dello Stephen Dedalus di James Joyce, l’intransigente artista giovane in cerca di una resa dei conti con l’intera tradizione letteraria dell’occidente: “ineluttabile modalità del visibile: almeno questo se non altro, il pensiero attraverso i miei occhi… limiti del diafano.”
Così Stephen all’inizio del terzo capitolo dell’Ulisse, quando esplora i detriti cangianti della marea e della storia, sulla spiaggia di Dublino, parodiando Aristotele.

Stephen, figura del Figlio, seconda persona della trinità biblica che regge il poema eroicomico in prosa dell’Ulisse (la prima è Leopold Bloom, homme moyen sensuel, la terza Molly Bloom, nuda supina carne del mondo, in attesa di registrare gli eventi di una giornata o di un’epoca).

Artista giovane, colto ed ironico, intransigente specie nei confronti di sé stesso, è anche Gabriele Galloni, con la differenza che per lui non c’è alcun esilio salvifico, nessun altrove dove fuggire, nessuna distanza da guadagnare: è prigioniero della società della trasparenza e della prestazione, dello show business, del Glamorama in cui tutti siamo nel contempo registi e attori coatti, per quanto possiamo esserne consapevoli e prendercene gioco.

Lo “slittamento” è la chiave della sua poetica. Tra continuità e salto, tra metonimia e metafora, c’è una terza via: lo scivolamento continuo delle immagini su una pellicola traslucida, sulla carne del mondo esposto al sole guasto e impietoso dei nostri giorni, come quando in una allucinata vacanza estiva gli adolescenti, “I ragazzi di Focene” scendono in spiaggia o meglio vengono gettati nell’aperto, seminudi e semicoscienti. Nel seducente dondolio di un’onda lunga che promette l’infinità del tempo, l’onnipotenza dei desideri, ma che poi alla fine della giornata si spegne e si asciuga su una parete bianca che non ne conserva traccia: in questa nostra società liquida, di cuspidi e catastrofi, che ospita dimore vacanti e imprevedibili spazi di violenza.

Derive dell’esserci, slittamenti del suo senso nella nuda vita, in piena luce, sotto gli occhi di tutti (come in un social): in uno scialo di luce in cui ogni profilo si sfuoca, come in un quadro di Turner, e non c’è più prospettiva che tenga, non c’è distanza salvifica, eccetto una caustica mortifera ironia che cicatrizza balletti di fantasmi in un Grand Guignol metafisico, in uno stupefatto Après midi d’un Faune scandito sugli scatti di un’Arancia meccanica.

Perché la dimensione dominante qui è quella dell’osceno (anche quando travestito da elegia), dell’eccessiva vicinanza fra lo sguardo e il suo oggetto, della mancanza di una sceneggiatura plausibile per il film della vita, che si risolve pertanto in fotogrammi sparpagliati e in aborti di montaggio (out takes) , in una revisione continua di ciò che già sempre si è e si sa che sarà visto.

Uno sprofondamento vertiginoso del progetto esistenziale in una anamnesi abnorme: precocemente colta, alienata e traumatica, dove l’eccesso di arguzia funge da pharmakon (rimedio-veleno) di una sofferenza psichica che ha un risvolto antropologico in questa società delle reti, dove ogni riflesso della mente e conato di azione si perde nella cattiva infinità delle rifrazioni, e dove lo stesso principio di individuazione appare precluso dalla processione di simulacri che accerchiano il fanciullo divino, portando maschere bianche come la sua e coltelli per il sacrificio.

Del bianco della maschera e della lama del coltello è fatta questa poesia, balletto e incisione, ritaglio e prelievo di vissuti sulla propria pelle, ma senza pathos, quasi per un esperimento biologico condotto su sé stessa da una mente troppo acuta e surriscaldata, esemplare di un mondo e di una specie destinati all’incenerimento (burn out), a meno di un miracolo. Quell’orizzonte del miracolo su cui ogni giovane poeta di talento tenta di gettare uno sguardo per tradurlo in parole.

Galloni lo fa con irrisoria facilità e sfrontatezza fin da questa sua prima fondamentale raccolta, che costituisce fra l’altro il repertorio tematico di tutto ciò che seguirà. Lo fa con uno stile in cui la cadenza sincopata del verso aderisce all’immagine come il suo negativo, come una calzamaglia sottile aderisce al volto dell’assassino, senza grinze né residui, come velo del sacrificio, con la leggerezza ubriaca del volo della falena che va a incenerirsi nel suo punto luce.

[1] Tecnica tematizzata poi in Creatura Breve.

 

Gabriele Galloni, Credits ph Dino Ignani

Gabriele Galloni, Slittamenti, AUGH! Edizioni, 2017.

In quattro tempi, come ci avverte Antonio Veneziani nella sua pregevole prefazione, Gabriele Galloni “prende poeticamente la vita alla gola” (Robert Frost). Scava nel proprio bios e nella condizione umana con un bisturi affilato, con versi “leggeri, aerei, ma sempre incisivi.” Leggerezza e precisione che si accompagnano a una certa nonchalance e a una discreta dose di ironia, un tacito disincanto del mondo che va colto fra le righe, nelle pause, nelle leggere sfasature metriche dei versi parnassiani che formano la superficie translucida, liscia e trasparente, dietro cui si svolge una danza macabra.

Galloni cerca di tracciare una topologia dell’essere al mondo oggi, quando la realtà si è da tempo trasformata in favola. E certo si fa erede della tradizione lirica e della narrazione classica, ma come qualcosa di epocalmente trapassato appunto nella rete di immagini e messaggi dei nuovi media. Il suo stile e il suo racconto sono dunque rimediati, in molti sensi, cioè fenomenologicamente e tecnicamente ridotti nei formati dell’epoca dell’immagine del mondo e dell’interazione in tempo reale, del declinare dell’affetto, nella sfera dei social, dei like, dei selfies e della promozione coatta della propria immagine. Perché lo slittamento di fondo che sottende la poetica di Galloni, sempre fin da questa sua prima raccolta, è quello dall’analogico al digitale, cioè a dire anche la ripresa, il ritaglio e il montaggio di una tradizione letteraria precocemente e selettivamente appresa, filtrata, passata al vaglio di altri media, dal cinema ai videoclips, segnata dai nuovi miti e icone che essi diffondono.

Comprendere la poetica di Galloni significa dunque certo porsi la questione dello stile, ma capire anzitutto che si tratta di uno stile postletterario e transmediale. Che i suoi bozzetti e ritratti, ritocchi e stacchi, ritagli e cuciture sono quelli di un nativo digitale e di un editor, e che il lavoro di lima sui suoi versi ha a che fare col discreto del word processing, del taglia e cuci, del copia e incolla, più che col continuo della scrittura su carta. Processi di cui il suo immaginario è tutto impregnato dalla più tenera età, a prescindere dalle effettive pratiche di riscrittura che il poeta di volta in volta consapevolmente adotta. Per cui nella sua dizione avvertiamo una sorta di nebulizzazione dei classici e dei modelli più recenti che fanno sentire i loro echi, come quelli della cosidetta scuola romana, da Dario Bellezza a Gino Scartaghiande, dove per esempio la coazione e commozione erotica del primo si risolvono in stilizzate movenze di balletto e l’ironia tagliente del secondo in calcolate sfumature di tono e di atmosfera. E dove l’iperrealtà delle immagini, l’incrocio dei profili, la lucentezza e la saturazione dei colori, nel loro complesso sembrano essere un prodotto di Fotoshop o di Instagram, e serbare dentro di sé (come la propria storia cancellata) tutte le maschere di livello usate nel corso del tempo.

Perché la convergenza al digitale dei media, a me sembra la condizione di quella “affabulazione ontobiologica” che Veneziani giustamente rileva nella poesia di Galloni ma che io preferisco chiamare “ontologia cyborg”, in cui il linguaggio verbale è sotteso dal numerico al di qua di ogni scelta metrica che si possa effettivamente operare, e che implica una ciberermeneutica dell’esserci e dell’opera. Sicché la tensione fra verbale e numerico, la reciprocità di testo e territorio, lo scivolamento in loop fra una metrica classica e il suo sostrato digitale o quantistico, costituiscono il fondo di tutti gli slittamenti figurali della poesia di Galloni, di quel grafico dei traumi dell’immaginario che fa tutt’uno con la desertificazione del Reale e la crisi del simbolico nel nostro mondo della illimitata promozione di sé come simulacro della merce. Con quella topologia dell’Antropocene, quell’indagine pacata, quasi catatonica, delle deformazioni degli oggetti e delle figure del nostro mondo ambiente e del nostro discorso, delle loro linee di frattura e punti di catastrofe. Così come viene programmaticamente enunciato fin dall’inizio di questa sua prima raccolta: “È giù negli interstizi di/ tempo tra i minimi/ e i massimi che accade/ l’irreparabile.” (9) E subito dopo si aprono e chiudono le porte, le stanze della memoria, i corridoi di una storia fantasmatica ed elusiva che sfociano infine sul deserto del Reale che tutti ci riguarda: “Chiudi la porta; luglio/ è un corridoio in ombra;/ i Suoi deserti a ognuno.” (10)

Ci sono grandi spazi e silenzi, corridoi e passaggi nella luce neutra, come in una matrice dello spazio/tempo, il deuterocosmo di Matrix come scenario cangiante di questa postumana reverie, dove pare che ad ogni angolo si possa aprire una porta o prendere un treno per l’altro mondo e incontrare le molteplici facce del veggente o dell’assassino. In un surreale vagabondaggio o pellegrinaggio in una Andalusia della mente che ha l’ambigua valenza di un rito di passaggio dall’immaginario al reale e di un luogo di iniziazione al sapere dei corpi. (14) Un ubriacante itinerario di esplorazione di plausibili isotopie dell’esserci, una lucida e febbricitante ricerca di senso al di qua di logica e linguaggio, fino alle radici del sangue e della linfa (15). In cui una serie di fotogrammi sovraesposti segna una precoce resa dei conti con la vita, “il conto/ di questa estate e di quelle trascorse” (16), la fine di una abbagliante adolescenza, la perdita dell’innocenza di questo Pierrot Lunaire, ultimo orfano di una stirpe di dandies, di narcisi, di flaneurs (immortalati da Baudelaire a Wilde, da Laforgue a Benjamin) e di buffoni divini che hanno popolato il carnevale della letteratura e le cui gesta e voci echeggiano nella polifonia del linguaggio. (17, 26) La divina, squisita, impagabile nonchalance (18) di uno capace di scorgere lo scheletro del mondo dietro il fantasma domestico (19), e di scavare fra le tracce biopsichiche della copula per trovare qualche scintilla dell’eros estinto. (20) Una scena che segna la fine di questa ouverture surreale, che è la prima parte dell’opera.

La II, Remix, più breve mette a confronto aforismi e battute di intellettuali famosi: Borges, Wittgenstein, Jung, evocati quasi come numi tutelari nel viaggio periglioso e risibile nello spazio dei flussi, nel fiume vitreo dell’informazione densa e gelida (metafora della trasparenza nella sua fase invernale). Dove mancano la prospettiva e la distanza per comporre i vissuti frammentari in una storia coerente, (23, 25) tranne forse che nel momento del trauma o con l’istantanea di una perdita fissata “in una eternità di controluce.” (24) La sagoma di un ragazzo steso per terra sotto gli occhi della madre, alla luce intermittente del neon di una vetrina, esposto allo sguardo come estremo simulacro della merce, ultima declinazione dei Passages parigini, cantati da Baudelaire e da Walter Benjamin, in un taglio che coniuga due dei temi fondamentali della poesia di Galloni, trasparenza e sovraesposizione, in una sorta di scena primaria individuale e collettiva, un trauma edipico nel fotogramma espressionistico. Una impeccabile dissolvenza che riassume la poetica dell’immagine-movimento del nostro, (24) dul confine del deserto (27) o in “una sala ristorante/ affacciata sul mare” dove si cerca di fare l’inventario provvisorio e inutile di una esperienza condivisa, in un gioco d’ombre e di immagini sfuocate. (28).

La terza parte, Sakim, è composta, come recita il titolo, di cinque movimenti a malapena percettibili. E’ una sezione breve, densa e decisiva per comprendere la poetica del ritaglio e del montaggio che presiede a questa composizione, nonché il senso multiplo del suo stesso titolo: “Slittamenti”: un manuale di questa instagrammatica dell’incisione e della “scansione ininterrotta”, a colpo d’occhio e mano ferma, prelievi per il montaggio, ritocchi leggeri ed esperti, in una incisione bio/grafica in cui i limiti del ritaglio decidono del respiro dell’io poetico. Dove ne va dell’integrità del corpo-teatro e della carne del mondo, perché “Se durante il lavoro la trachea/ o l’esofago laceri per sbaglio,/ la carne è da buttare tutta intera.” (34) Un io poetico affatto consapevole della propria dannazione narcisistica e dell’esaurimento che lo attende, nell’eterna ripetizione dell’identico: “uccide negli altri /se stesso;/lo stesso” di prima.” (38)

L’ultima sezione, Dialoghi dell’estate annuncia poi l’impianto, tematico e figurale, di quella che sarà la sua raccolta ultima e più matura, L’estate del mondo, ma di cui molti spunti, come si sarà notato, sono già presenti in questa prima silloge, che funge da repertorio e da telaio di tutta la futura poesia di Galloni, e la cui importanza pertanto non può in alcun modo essere sottovalutata. Un’estate come simbolo di una stagione della vita e come condensazione icastica della carne del mondo, dove una ferita è un “tratto di pennarello” e un “pomeriggio da provincia estiva” si specchia in una pozzanghera che manda “in frantumi il cielo” (44) e dove tutta l’eredità surrealista si risolve nella tecnica di Instagram, nei suoi nei discreti, occulti, ritocchi. Una tecnica con cui è già qui composto lo story board dell’Estate del Mondo, quel muro calcinato che farà da schermo, da confine e da leitmotif, di quell’ultima squisita reverie: “Le case bianche a perdita/ d’occhio, le cancellate/ arrugginite. A sfondo/ di cartone, sfrondate/ chiome di nubi simulano/ l’estate del mondo.” (45) Dove, come da una voce fuoricampo, arriva infine l’irresistibile richiamo dei morti, che invitano “al silenzio da un oltretomba a caso.” (50) E così, nella penultima lirica, che precede il ritornello dei “Ragazzi di Focene”, che sarà posto anche a conclusione de L’estate del mondo, si riassume con perfetta contezza questa poetique de la surface, del controcanto alla tradizione elegiaca, del suo sfregio leggero (tecno-logicamente discreto) che fa tutta la differenza: “Cosa resta di questa superficie/ da dire che non sia già stato detto?/ Che si scivola, certo, nonostante/ la ruvidezza. Passa il dito e senti”. (51) Alla poetica postmoderna della iscrizione e della traccia verbale, pare che sia già subentrata in questo esponente dei millennials una poetica della trascrizione e del sottotraccia digitale.

Da Slittamenti, di Gabriele Galloni, AUGH! Edizioni, 2017

 

Dialoghi dell’estate

I

Uguale all’albero l’acqua ha radici
profonde: quando sarà buio andremo
lungo il fiume a cercarle – fino al mare
ché la distanza è poca e queste notti
lunghissime.
“Ricorda le candele”.

II

Una ferita che a vederla quasi
non si direbbe ferita ma un tratto
di pennarello, uno scherzo. I faretti
del giardino si accendono automatici
dopo le ventidue.
“Stanno bussando”.

III

I canneti, le dune. Una pozzanghera
enorme. Pomeriggio da provincia
estiva. L’eco rarefatta d’una

canzone. A piedi uniti: la pozzanghera
mandò in frantumi il cielo. E tra la guazza
ti cadeva qualcosa; in tutta fretta

lo raccoglievi dicevi non è niente.

***

Le case bianche a perdita
d’occhio, le cancellate
arrugginite. A sfondo
di cartone, sfrondate
chiome di nubi simulano
l’estate del mondo.

***

Allora. È come, ti dico, tornare
alla terra. Tornare un po’ alla volta,
pezzo per pezzo, mai più tutto insieme.

Prendine una manciata. Non è molta
questa sabbia – ma è buona. A nuovo seme,
a nuova cosa. Fai una giravolta

e di’ che è presto per entrare a Zeboim.

***

Sia pure per breve
tempo la vena,

è un segreto,

si è rifatta marea, vena
di fiume: anni

a stare lì.

***

(…) quasi ogni Messico
cerca una nuvola.

***

È stato dopo
aver mancato gli ultimi
appuntamenti: fra
i tanti, pochi; i tanti
così stanno le cose
quelli sì ripetuti
su sfondi di stazione per inerzia.

***

Guardammo a lungo in mezzo al crepitare
del falò i tuoi quaderni che bruciavano,
la carta farsi fumo, farsi aria

irrespirabile: più della storia
tra quelle pagine. Sentimmo urlare
il tuo nome, poi il mio. Ci richiamavano

al silenzio da un oltretomba a caso.

***

“Cosa resta di questa superficie
da dire che non sia già stato detto?
Che si scivola, certo, nonostante
la ruvidezza. Passa il dito e senti”.

***

I ragazzi alla spiaggia di Focene
insieme incontro all’onda sonnolenta
che ritornando bagna loro il fianco
adolescente. È questa vita, lenta,

la sua illusione qui della durata
eterna. Quando ciò che resta è il bianco
della parete a fine di giornata,
il mese placido, tempo che viene,

i ragazzi alla spiaggia di Focene.

***

Dei nostri giorni calcolammo il peso,
la grazia successiva ed eventuale.

______

Gabriele Galloni, (Roma 1995-2020). Ha pubblicato le raccolte poetiche “Slittamenti” (Augh!, 2017), “In che luce cadranno” (RP, 2018), “Creatura breve” (Ensemble, 2018) e “L’estate del mondo” (Marco Saya, 2019). Ha pubblicato, inoltre, la raccolta di racconti “Sonno giapponese” (Italic Pequod, 2019). È stato co-direttore di «Inverso – Giornale di poesia» e autore e ideatore, per la rivista «Pangea», della rubrica “Cronache dalla Fine: dodici conversazioni con altrettanti malati terminali.”

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