La terra remota di Umberto Piersanti

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

DI FABRIZIO FANTONI

 

 

“A quale terra antica
mi riporti,
a quale ora
fuori dei millenni,
acceso ciclamino
d’un giorno
d’acqua?”.

In questi versi, tratti dall’ultimo libro di Umberto Piersanti intitolato Campi d’ostinato amore (La nave di Teseo, 2020), è racchiusa la domanda che l’autore pone alla Poesia: di condurlo in quella terra remota che è il passato. E la poesia risponde a questo invito, oltrepassa il muro che separa l’uomo dalle sue memorie e rievoca con progressive ed improvvise illuminazioni volti, odori, situazioni di una fanciullezza vissuta nella pienezza del corpo, a contatto con la natura incontaminata delle Cesane – terra di origine dell’autore – in una continua ed irrimediabile spensieratezza.

“Terra di memorie
l’età che s’inoltra,
di volti che s’affollano
e vicende
d’innanzi agli occhi
e tremano nel sangue,
l’infanzia è la stagione
più tenace
e ogni altra
offusca
e quasi oscura”.

L’incanto della poesia di Umberto Piersanti risiede nella sua capacità di rendere viva quella intimità mentale che l’essere umano sperimenta nei primi anni di vita, quando tutto ciò che lo circonda sembra a portata di mano, creato per lui, e si pensa che rimarrà lì per sempre, che nulla e nessuno potrà toglierci la spensieratezza di ogni giorno.

L’esperienza della guerra attraversa la poesia dell’autore, ma nemmeno tali orrori riescono ad incrinare quel sentimento di vaghezza che il bambino prova nel suo crescere a contatto con le forze vitali della natura: vita e morte, bene e male si intrecciano ed acquistano, nei ricordi dell’autore, la dimensione di una fiaba, come nella bellissima poesia “La fonte dei due gelsi”, dove viene evocata una leggendaria fonte sulla quale crescono due gelsi, uno che fa le more bianche, l’altro che le fa nere che, a contatto con il sangue di un ragazzo ucciso durante la guerra, si dissolve e mai più ricompare.

“… Quando c’era la guerra
tra i ragazzi,
quelli con la camicia nera
quelli col fazzoletto rosso,
uno col fazzoletto
l’hanno ammazzato,
seduto presso l’acqua
mangiava le more
un colpo nella tempia
lo ha stroncato,
cascato dentro l’acqua
l’ha insanguinata,
la fonte s’è dissolta
e la radura
e lì crescono i cespi
più spinosi
e tronchi bassi e storti
e attorcigliati”.

I versi di Umberto Piersanti entrano in dialogo con il pensiero leopardiano. Leggendo la raccolta poetica Campi d’ostinato amore salgono alla mente le parole del Discorso di un italiano sopra la poesia romantica: “Quello che furono gli antichi siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le piante e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare; quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la maraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci maravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo o disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro l’abbellivamo; quando le lagrime erano giornaliere, e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e instancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto […]”

L’affresco psicologico, tracciato da Giacomo Leopardi, costituisce una traccia fondamentale per comprendere il mondo culturale che anima la poesia di Umberto Piersanti, che in questa raccolta si fa più che mai “ritratto”: ritratto di una civiltà contadina – quella delle Cesane – sull’orlo di scomparire e, ritratto soprattutto dell’uomo Piersanti. La sua vitalità, la sua irruenza, il suo senso del bello, il suo sentimento per la storia, tutto in Piersanti trova la sua origine in questo profilo culturale del poeta fanciullo che i versi ci restituiscono.

“Ah! Quest’infanzia
che negli anni s’inoltra
e ti pervade,
ossessiona i tuoi giorni
e un poco,
almeno un poco,
li consola”.

Splendide e commosse sono infine le poesie della sezione Jacopo, dedicate al figlio dell’autore, colpito da una grave forma di autismo. Costretto tra le pareti della malattia, Jacopo non può godere del vigore e della ricchezza della giovinezza. Ma accade, che un giorno Jacopo sale sul palco del piccolo teatro di una canonica e la sua irrequietezza si ferma. Jacopo è lì, solo, svettante come i favagelli (gli alberi tanto amati da Piersanti) che, tiepidi contro il gelo di febbraio, sbucano fuori e, per un attimo, il suo male sembra abbandonarlo. Ed è nel ricordo di quest’istante, di questa sospensione della vita, che il poeta concentra il suo ostinato e disperato amore per la vita.

Jacopo sul palco

Jacopo, tu non conosci
palchi,
non conosci
balconi o luoghi
che sopra gli altri
per la gioia s’alzano
o la rabbia
di chi ascolta,
tutto per te si svolge
a raso terra,
neppure sai
che ogni corpo
vive nei suoi confini,
che sfiorarlo
o urtarlo
non è permesso,
è solo nella terra
il tuo cammino,
ha cerchi e svolte
che tregua
non danno

Nella vecchia canonica
gelata
un giorno sopra il palco
sei salito,
aperto e sconfinato
più della Scala,
tu dei compagni
il più alto e luminoso,
quell’istante bocconi
sopra il legno
per un istante spezza
il sortilegio
che il tuo giorno assedia
e ossessiona

Ora sei tu
nel palco,
io di sotto,
tra gli altri,
che ti guardo.

____

Poesie scelte da: Campi d’ostinato amore di Umberto Piersanti, La Nave di Teseo, 2020

Altrove

no, non in una foresta di simboli
questa casa
che non sai dove sia
ma fuori, fuori
da ogni plaga della memoria
anche la più remota,
da ogni storia e vicenda,
ma vera, vera
più d’ogni altro giorno,
d’ogni altra ora
che sia la più chiara
o la più cupa

qui le erbe sono le più verdi
e alte,
ondulate e morbide
dai colli scendono
alle case

il cerbiatto è lì,
poco distante,
dove l’acqua è più limpida,
alla fonte,
e tu lo guardi bere
e sei felice

dietro la casa
c’è una scala lunga
il solaio raggiunge
luminoso,
la paglia lo rischiara
fin’oltre i vetri,
no, non ci sono gli angeli
ed i cori,
ma le sorbe odorose
dentro i canestri

un canto ti raggiunge
nella luce,
tra i legni del solaio
trapela lieve,
non sai chi è la donna
che li intona
e t’entra dentro il sangue
e ti rallegra

e guardi lo scoiattolo
che sale
rapido per il tronco
e giunge al cielo

Giugno 2016

Nota: La foresta di simboli è un chiaro rimando a Baudelaire così come gli angeli a Rilke

*

Distanze

ho conosciuto gente
dei secoli lontani,
s’è persa dentro l’aria
nei campi i più remoti,
passano le palombe
scendono giù al mare,
non le raggiunge il piombo
in altri evi entrate,
appena tu le scorgi
oltre la terra e il tempo
distanti scomparire

anche tu eri distante,
distante assoluto
e non ti sfiora il tempo
che passa tra sentieri
di rovi e spini colmi,
serrano l’erba verde
in nodi folti e stretti,
meglio che non li guardi,
tu fissa le palombe
entra negli altri evi

Agosto 2016

*

Ancora un giorno tra i vigneti

come moneta che cade
e mostra l’altra faccia,
così la vita prese
altro cammino,
dalle radure dove
il sole batte
scese giù nella macchia
impervia e scura

ma una sosta c’è stata
tra i vigneti,
la madre che ora coglie
con te l’uva
come nel fosso
il più remoto e perso
dove il mondo ha inizio
in un’alba chiara

e quegli acini enormi,
le mani intrise,
un cenno della mano
è sufficiente
per te madre,
giovane per sempre,
ad arrestare il tempo,
a farci tornare
alla casa tra i campi,
la più lieta,
ora rotta e dissolta,
lì un sambuco
si torce
tra le pietre

Agosto 2017

*

L’antica casa

da tempo, madre,
vivo in terra straniera,
sì, un tempo c’è stato
di giochi e amori
nelle selve,
e prima, ancora prima,
la casa della madre
di tua madre
giù nel fosso,
dell’Antico che s’aggira
tra i noci lì davanti,
lì il tempo è eterno
come l’orizzonte,
sconfinato lo intravedi
dietro ai greppi

ora lo sai,
lo stradino che risale
fino alla Torre,
lì non s’arresta,
in altre, infinite strade
s’addentra e dilegua,
in ignote contrade
t’abbandona

sì, c’è stata anche
la radura di narcisi
e fanciulle luminose,
una sosta breve,
sempre insidiata

ora, sei sotto
un nuovo tetto
e un nuovo cielo,
Jacopo delicato
figlio che non cresce
e gli stai accanto,
ma tu hai nostalgia
per la prima casa,
per chi ti accompagnava
nello stradino

Luglio 2018

*

Il confine

ci sono luoghi
dove finisce il mondo,
dietro una rupe
o un greppo
il più lungo e fondo,
l’aria non solo sale
ma scende in basso
e se ci metti il piede
ti sprofondi

le capre non salgono la rupe,
le pecore non scendono nel greppo,
stanno lì ferme
accovacciate nell’erba spagna

e s’arresta il pastore,
dalla sacca tira fuori
il formaggio
e mangia piano,
vola alto il falco,
passa il confine

Maggio 2019

*

La radura

eri con la sorella
o eri solo
nella radura chiara
e luminosa?
nessun’altra hai mai visto
così chiara,
il vento ch’ha trascinato
i cardi nei greppi fondi,
insanguinato l’acqua
dei fossi attorno,
lì, dinnanzi alle querce
s’è quetato,
lì, tra i ceppi
delle rose
lievi, dei campi,
il varco s’apre

e l’aria,
com’era l’aria,
no, non lo sai dire
e l’erba la più verde
e la più lieta,
e cielo e terra
mai così felici

tu non ricordi
come o con chi
sei entrato,
e non ricordi
quanto ci sei stato

nella Cesana immensa
vive il più antico,
racconta storie strane
attorno al fuoco

forse hai succhiato
l’erba dal fiore giallo,
quella che fa scordare
il giorno e l’ora

remota più d’ogni altra
storia,
più pallida d’un sogno
che s’è sciolto,
questa vicenda intravedi
oltre il velame
fitto, dei sogni

e una spina ti punge,
fitta duole,
tu lo sai,
quella radura
quell’ora
mai ritorna

Ottobre 2019

_______

Umberto Piersanti è nato a Urbino nel 1941, dove tuttora vive e insegna. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche (“I luoghi persi”, Einaudi 1994; “Nel tempo che precede”, Einaudi 2002; “L’albero delle nebbie”, Einaudi 2008; “Nel folto dei sentieri”, Marcos y Marcos 2015), saggi e opere di narrativa (“L’uomo delle Cesane”, Camunia 1994; “L’estate dell’altro millennio”, Marsilio 2001; “Olimpo”, Avagliano 2006; “Cupo tempo gentile”, Marcos y Marcos 2012 ); è anche autore di film (“L’età breve, 1969-1970”; “Sulle Cesane”, 1982; “Ritorno d’autunno” e “Un’altra estate”, 1988 ). Tutte le raccolte precedenti le tre sillogi edite dalla Einaudi sono uscite in un unico volume dal titolo “Tra alberi e vicende”, Archinto 2009. Nel 2018 esce il libro di racconti: “Anime perse”, Marcos y Marcos. La sua ultima opera di poesia è “Campi d’ostinato amore”, La nave di Teseo, 2020.

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