Il cane del nulla

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto di proprietà dell’autore

di Andrea Cortellessa

«Scusatemi tutti.»

 

Due foto, alla fine della storia. La prima l’hanno vista tutti; è quella del Mario Benedetti “sbagliato” messa in pagina da «Repubblica». L’altra l’ha scattata Viviana Nicodemo e l’ha pubblicata qui Milo De Angelis. Due immagini che, come si dice, dicono più di mille parole. La prima dice della trasandatezza criminale del nostro tempo (dove a fare più rabbia è la coazione burocratica di dover “coprire” – nel minor tempo possibile, con la minore cura possibile – un “fatto” di cui non frega nulla; perché nulla, in verità, frega di nulla; e allora meglio, tanto meglio, sarebbe stato il silenzio – cioè il nulla, appunto). La seconda, semplicemente, continuerà a guardarci a lungo. (Ma tutte e due si riguardano; l’una non si capisce senza l’altra: e per questo, insieme, ci riguardano.)

E poi il video. Esequie in remoto: come tutto, ormai (ma come tutto, al di là delle apparenze, già era diventato da un pezzo). È stato detto che ricordano quelle di Mozart nella fossa comune. Già; ma quella che ci ricordiamo è la scena di Amadeus, dove lo squallore aveva un suo accattivante package hollywoodiano; era uno squallore glamour. Qui invece lo squallore ha la brutalità, la letteralità della plastica e del cemento, del vento freddo nel microfono; delle parole al vento di un prete impaurito, che va di fretta. Lo squallore osceno di chi, a futura memoria, comunque registra; e di chi, come me in questo momento, comunque propala.

Tutto, in effetti, così didascalicamente benedettiano. Esequie «senza estreme unzioni», ha scritto Franco Buffoni. Senza le «nozze, tribunali, are», cioè, in cui I sepolcri compendiavano la pellicola di civilizzazione, così sottile, che ci fa credere umani. È bastato, a rimuoverla, così poco tempo. «Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi». La poesia di Benedetti, quando è apparso quel libro implacabile che è Pitture nere su carta, si è rivelata ai miei occhi – tutta, dall’inizio alla fine – in quell’attacco che suona «Cane, gioca con le carni, / I bastoni di ossa», e in quel finale che sarcastico menziona la triade foscoliana di cui sopra (quella che nei Sepolcri, appunto, «diero alle umane belve esser pietose / di se stesse e d’altrui»). Introducendo a Materiali di un’identità Antonella Anedda evocava la macelleria del Carpaccio a San Giorgio agli Schiavoni: e davvero la frammentazione delle materie si presenta nelle Pitture nere lancinante; nonché, considerando l’allegoria persistente del corpo malato, non meno che crudele.

Quel cane, così amputato e sperduto sulla pagina, è il cane del Prado:

Non posso pensare a Goya – non posso pensare a Benedetti – senza pensare a questo cane. Ho detto «crudele». Ma chi è più crudele? il cane, il mistero in cui si trova, il pittore, il poeta che lo ha così rappresentato? O noi che lo contempliamo? Che non riusciamo a distogliere lo sguardo, voltare pagina, tornare alla cosa che ci mentiamo essere “la vita”? O piuttosto sempre noi che alla fine, malgrado tutto, lo facciamo? Lasciando lì il poeta, il pittore, il cane?

La stessa incertezza, esattamente la stessa, vale per la poesia di Benedetti. Per la vita in proroga – «che è stata la vita essere vivi così» – in cui questa poesia si è inscritta (non solo dal momento in cui, come scherzando – riferisce Claudia Crocco – ricordava lui stesso, aveva cominciato a sopravvivere alla morte del «poeta Mario Benedetti»: l’altro, ovvio). Ma anche per la vita che, leggendola, ci impone di condividere. (Virtualmente, certo: come tutto il resto.) Quando leggiamo Benedetti – quando lo leggiamo davvero – siamo tutti ricondotti, al di là delle nostre difese materiali e intellettuali, allo stato «idiota» di cui parla Stefano Dal Bianco, all’io povero che, dall’inizio alla fine, campeggia dalla sua pagina: e che, davvero viralmente, si trasmette da chi ha scritto a chi legge. Tutti «ridotti» (per parafrasare una celebre quanto equivocata formula di Alfredo Giuliani) allo stato di spettatori passivi della figura, che passa, del mondo (1 Cor 7, 31). Come in quell’epigrafe sgrammaticata che Andrea Zanzotto (padre putativo della couche di «Scarto minimo» che, alla prima raccoltina di Benedetti, rispose con una recensione alla Radio della Svizzera Italiana) aveva trascritto in Vocativo: «ed io come un fiore appasito guardo tutte queste meraviglie». L’etimo di Umana gloria, ha ricordato Dal Bianco, è nella ballata di Wordsworth The idiot boy; e allora ci si ricorda di come sempre Zanzotto del suo Idioma ricordasse l’etimo, lo stesso di «idiozia»: la postura di un io “ridotto”, appunto, nella prigione percettiva e cognitiva di sé stesso. Un isolamento crudele, appunto.

Per questo non mi pare centrata la categoria di inermità, così spesso riferita alla poesia di Benedetti. C’è un’aggressività di ritorno, invece, che consiste proprio nella sua irresistibile contagiosità: che come in ogni contagio, nell’estendere la portata del male, non lenisce certo la condizione di chi ne è portatore. Nelle Pitture nere quell’aggressività – portato anche del carattere dell’uomo, per il poco che l’ho conosciuto – è solo più evidente, tradotta com’è nella «resilienza materiale» (così l’ha definita Tommaso Di Dio) dei riferimenti figurativi (oltre che Goya si annoverano fra gli altri Cézanne, Zoran Music, Duane Hanson; ma anche l’oreficeria medievale, tanto luccicante quanto sanguinosa). Non c’è mai in Benedetti, però, il collezionismo, modernista e post-, dell’ekphrasis: quei riferimenti, anziché espansivamente “tradotti” nel virtuosismo dell’«equivalenza verbale», sono a loro volta “ridotti” a meri resti, frantumi, reliquie («Reliquiari», proprio, s’intitola una delle otto sezioni, e anzi «capitoli», del libro). Insegne allegoriche dell’io corporale, di quello stesso physical self che disperatamente cerca una propria compiuta dicibilità nelle altre ante del polittico, Umana gloria e Tersa morte.

La forza prodigiosa di Benedetti, come quella di Paul Celan a suo tempo, consiste nel fare di questa macelleria una cristalleria: queste schegge taglienti di parole sono «smeraldi di lacrime», «stoffe […] chemiluminescenti», «cammei, perle, coralli». Non i compiaciuti Émaux et Camées di Théophile Gautier, ma lo Smalto sul nulla di Gottfried Benn. In una bella conversazione con Claudia Crocco, inserita in Materiali di un’identità e poi uscita ampliata su «Le parole e le cose», Benedetti si esprimeva con un paradosso: «È tutto molto provvisorio» (perché «provvisorio è, per definizione, ciò che è, ciò che è terrestre»), ma «in maniera forte».

L’antecedente più citato, quello di Celan appunto, vale allora tanto per la poesia che «ne s’impose plus, elle s’expose» – cioè l’inermità – quanto per l’altra frase, scritta alla moglie e al figlio (coi quali lui, in salute, parlava solo in francese) nella lingua aliena: «Ihr menschen», Voi umani – cioè l’aggressività. Era quella la lingua della morte: cioè della poesia. Dalla soglia di quel luogo senza nome e senza tempo, di cui lui più di altri ha intravisto spiragli, ci ha parlato Mario Benedetti: con risolutezza pari all’annichilimento. Con la risolutezza, anzi, che è solo dell’annichilimento. In quel luogo ora è tornato; lasciandoci, qui, coi «bastoni di ossa». E il cane.

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