Stefano Dal Bianco, silenzio e volontà della parola poetica

Stefano Dal Bianco

In occasione della imminente presentazione a Pordenonelegge del volume di Stefano Dal Bianco” “Distratti dal silenzio” – Diario di poesia contemporanea – Quodlibet, 2019, (Pordenone 21 settembre), riportiamo qui la Prefazione scritta dall’autore, “Distrazione e silenzio”. “I poeti meritano ascolto?” si chiede Dal Bianco “O qualcuno sta abdicando al proprio ruolo?”. Attraverso saggi, interventi a convegni, prove di autoanalisi, interviste, il poeta analizza le questioni centrali per la poesia italiana degli ultimi trent’anni. Una rara forma di testimonianza, fra la dedizione al silenzio e la volontà di condivisione del dire, come fa la poesia.

Distrazione e silenzio

L’opera esprime senso attraverso l’ascesi nei confronti del senso. [T.W. Adorno]

Ciò che è divino è senza sforzo. [Eschilo]

«Distratti dal silenzio sono forse i poeti. Non tutti: ce n’è qualcuno, e non per forza dei peggiori, che se ne infischia del silenzio, ma questi a noi interessano poco. Quello che vogliamo è un indugio nella morte, per attraversarla con amore e arrivare di là, dall’altra parte, dove la nostra esistenza avrà un significato meno provvisorio di quello che siamo abituati a conferirle. Per farlo bisogna essere bravi, bravi nella vita e bravi nell’ascolto della lingua. È così che amare e respirare saranno per noi la stessa cosa. Una cosa per cui vale la pena di lavorare, di impegnarsi».

Così scrivevo, agli esordi di tutto, tra gli anni Ottanta e Novanta, usando parole e toni che oggi mi impressionano per la retorica e l’improntitudine, e soprattutto senza dare ragione di quel noi: a nome di chi parlavo? Sicuramente a nome degli amici che in quegli anni iniziavano con me la loro ricerca poetica, presi come eravamo dalla vertigine che ci imponeva di trovare una lingua per raccontare ciò che tra noi si pensava, si diceva e si scriveva. Nacque così «Scarto minimo – Rivista di poesia contemporanea» che nel 1986 fondammo a Padova con Mario Benedetti e Fernando Marchiori. La rivista non accoglieva saggi critici e recensioni, ma soltanto poesie e “interventi di poetica”.

Non tutti hanno avuto la fortuna – e certo la sfrontatezza – di poter dire noi all’inizio della propria storia. E raramente i poeti parlano davvero di poesia tra loro. La maggior parte riflette sul senso di ciò che fa, ma parlarne è un’altra cosa. C’è un pudore esagerato, e in molti una disabitudine a condividere le esperienze e le idee. L’egotismo, in effetti, non riguarda chi parla di sé, ma chi non riesce a esporsi in una relazione. E una poetica di gruppo non è l’adeguarsi a un dover-essere della poesia, e nemmeno una razionalizzazione a posteriori. È tutte e due le cose: è qualcosa che si fa insieme, vivendo e scrivendo; non viene prima o dopo la poesia, ma nel mentre. Ognuno è se stesso e contemporaneamente assorbe, interiorizza, ciò che avviene negli altri e offre ciò che ha di proprio. Quanto maggiori sono la stima e la fiducia reciproche, tanto più il pensiero comune affiora e si lascia intendere, accrescendo la comprensione del proprio fare. Non si tratta di uno scambio, perché lo scambio, comunemente, presuppone individualità definite che hanno ben chiaro ciò che possono proporre. La poetica, ogni poetica di gruppo, si forgia nella relazione stessa, un processo nel quale a prevalere sono l’incoscienza e l’osmosi.

La citazione all’inizio riflette bene lo stile romantico e garibaldino della seconda metà degli anni Ottanta. Ma non è lì soltanto per un rigurgito nostalgico. L’ho riportata per rivendicare un atteggiamento che, pur evolvendosi nei decenni, ha conservato il suo spirito fondante, che era ed è di difendere il sapere della poesia in quanto tale. Uno dei punti di forza di «Scarto minimo» era proprio di sdoganare la teoresi dei poeti, infischiandosene di ciò che poteva essere politicamente corretto per un teorico della letteratura o per un filosofo estetico. Le ragioni della poesia non avevano bisogno delle stampelle di qualche illustre pensatore del passato o del presente, ma dovevano sbocciare direttamente dall’esercizio della scrittura e, nel caso, si doveva avere il coraggio di essere ingenui e di mostrarsi ignoranti. A monte c’era evidentemente la consapevolezza di essere eredi diretti, e perciò detentori, di un sapere che non era appannaggio né dei letterati di professione, né dei filosofi. Di qui l’insistenza sulle forme e sullo stile. Lo sforzo, in realtà, era di mettere in relazione il sapere linguistico formale con il culturale e l’esistenziale – forma, cultura, esistenza – per tratteggiare una sorta di etica della poesia.

Anche adesso, dopo qualche decennio, quando ormai ciascuno di noi ha raggiunto la propria chiarezza, come è destino che sia, il lascito di quell’esperienza è prezioso, e si comprende meglio come quel noi fosse la fattispecie del ‘noi’ più vasto che si annida nella voce di ogni singolo poeta.

*

Ho raccolto qui, secondo il filo del tempo, le riflessioni che nell’arco di trent’anni, e nelle forme più diverse, mi è capitato di scrivere o esporre pubblicamente intorno alla poesia, alla poesia in generale e alla mia in particolare. E ho spiegato come mai molte di esse si presentino in una prospettiva “generazionale”.

Il titolo di questo libro accosta in modo paradossale due fuochi ricorrenti negli scritti che lo compongono: distrazione e silenzio. Non c’è poesia senza dedizione al silenzio. Chi scrive deve trovare e salvaguardare una certa dose di silenzio interiore. Fino a qualche decennio fa si poteva pensare che fosse il rumore del mondo a distrarre i poeti dal loro luogo proprio. Mi sono accorto che alla base di molte delle mie considerazioni c’è l’esperienza diretta di un rovesciamento dei termini. La quantità e la qualità del rumore della vita contemporanea hanno mutato la condizione esistenziale di chi scrive, dei poeti, come quella di tutti. Viviamo sotto bombardamenti di comunicazione inessenziale. Di pari passo si è ridotto lo spazio che, nel marasma delle nostre vite, siamo disposti a riservare al silenzio. Al giorno d’oggi – e non era mai accaduto in modo così netto – solitudine, silenzio, vuoto, fanno paura anche ai poeti. Il frastuono è in noi, ed è sempre più difficile escluderlo. Ciò significa che si va radicalizzando anche il conflitto tra il momento della scrittura e quello della vita.

Come far fronte a tutto questo? Forse domandandosi se distrazione e silenzio sono davvero due poli incompatibili. È immaginabile una condizione nella quale una certa dimensione silenziosa possa conservarsi in forma, per così dire, surrettizia, e essere vissuta negli interstizi della distrazione? È possibile che l’accettazione della dimensione distratta la renda almeno in parte generativa di un silenzio differente? È pensabile, insomma, una dimensione silenziosa che nasca dalla distrazione stessa?

Non so se la scommessa sia davvero questa, e non so se la sto formulando nel modo corretto. Mi si impongono qui alcune considerazioni sulla parabola della mia esperienza di scrittura, così come questa si è delineata e in qualche modo specchiata negli interventi qui raccolti.

La poetica di «Scarto minimo» puntava alla riduzione del divario tra lingua della poesia e lingua naturale, che è come dire tra poesia e vita, senza per questo rinunciare alle istanze di un “grande stile” di matrice novecentesca. Era dunque l’attenzione alla forma stessa – in una prospettiva opposta a ogni espressionismo e perciò sostanzialmente “classica” – a farsi garante di una aderenza alla verità dell’esistere.

Ma l’assunzione di responsabilità stilistica sul proprio fare implica una disciplina interiore che, di fatto, pertiene alla sfera dell’etica, dal momento che viene esercitata prima di tutto contro se stessi e la propria scrittura. È così che, a un certo punto, l’etica della forma ha potuto dichiarare guerra ai contenuti, a ciò che comunemente viene definito “il messaggio” di una poesia, mentre il piano formale veniva eletto a unico strumento di conoscenza e di crescita umana. È evidente che un intento del genere poteva reggere solo come provocazione, se si considera che dopotutto i testi un messaggio lo comunicavano, sia pure di sottobanco e quasi fuori controllo.

Su un altro fronte, andare contro se stessi voleva dire perseguire utopicamente quell’assenza di stile individuale che è il miraggio di ogni classicismo. Che al fondo di questi tentativi di dismissione dello stile si trovi pur sempre una voce, uno stile, è l’esperienza di tanti poeti nella loro maturità. Ma alla radice di quell’atteggiamento classico che persegue la rinuncia allo stile è probabilmente la grande tradizione filosofico sapienziale del “conosci te stesso”, del lavoro su di sé che ogni essere umano è tenuto a intraprendere proprio nell’ottica di un annullamento dell’ego. La parabola perveniva così, non senza traballamenti e contraddizioni, a un discorso che coinvolge non solo quei “significati” e quel “messaggio” che all’inizio si davano per inessenziali, ma nientemeno che il senso della vita in quanto tale.

Nello stesso tempo, l’assolutizzazione del momento formale diveniva una sorta di iniziazione tecnico stilistica, la quale, portata all’incandescenza, poteva davvero farsi strumento di conoscenza trascendentale. Ascoltare la lingua silenziosamente, distrattamente, senza sforzo, è entrare in contatto con il divino che è in noi, perché la lingua è il divino. «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio»: una poesia che non si misuri con questo, che non cerchi di sondare il mistero del Logos, di entrare profondamente nel suo significato, ha già abdicato al suo destino.

Siena, febbraio 2019

______

Stefano Dal Bianco (Padova 1961) ha scritto quattro libri di poesia: La bella mano (Crocetti 1991), Stanze del gusto cattivo (in Primo quaderno italiano, Guerini e associati 1991), Ritorno a Planaval (Mondadori 2001; LietoColle 20182), Prove di libertà (Mondadori 2012). Con Mario Benedetti e Fernando Marchiori ha diretto la rivista «Scarto minimo». È stato nella redazione di «Poesia». Insegna Poetica e Stilistica all’Università di Siena. Come studioso si è occupato della metrica di Petrarca, Ariosto, Andrea Zanzotto, e di poesia del Novecento. Di Zanzotto ha curato il Meridiano Mondadori nel 1999 (con Gian Mario Villalta) e l’Oscar Tutte le poesie (2011).

________

Pordenone
21 SETTEMBRE
Sulla poesia contemporanea
Incontro con Stefano Dal Bianco e Alberto Bertoni. Presenta Roberto Cescon.
Ore 11:30
Alla Libreria della Poesia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *