Maria Attanasio

Maria Attanasio

di Loretto Rafanelli

Colpisce sicuramente di Blu della cancellazione (La vita felice) di Maria Attanasio, la turbinosa, avvolgente, tellurica musicalità, un ritmo cadenzato da una lingua ricca, colta, morbida e severa. Poi c’è tutto il resto, che non è poco certamente. Ma già partire dalla musicalità mi pare decisivo, come diceva Hugo Friedrich. Quella scala di note universali che segnano i ricordi, il tempo, le emozioni, le passioni e consegnano le storie in tutta la loro forza. E di storie in questo libro ce ne sono tante, sospese nella contemporaneità del passato, nella universale dimensione di vite che giungono, muoiono, si sfaldano, lasciando il loro volto di verità, di gioia, di desolazione, di lotta, di sfinimento, di vigore. Questo libro non farà che rafforzare la stima verso la poetessa siciliana, di Caltagirone, ampiamente conosciuta e apprezzata anche per il suo lavoro in prosa, pubblicato presso Sellerio. E l’intreccio tra la Attanasio poetessa e la narratrice mi sembra si possa cogliere nel libro, per i riferimenti e le composizioni di alcune sezioni che paiono racconti, a partire da quelle dedicate alla madre Celeste, o quelle riservate ai “Sette palazzi celesti” di Anselm Kiefer, l’installazione milanese site-specific dell’artista tedesco, un’opera che scuote la poetessa (“in altra singolarità d’astri/ sconfinando”). La poesia della Attanasio, va oltre gli inciampi e le turbolenze personali, e diviene sempre uno sguardo ampio e interrogativo, profondo e teso sulle vicende del mondo, vicine o lontane che siano; sull’enigmatica vita degli uomini, tra gioie e nefandezze. Storie difficili da dire nella marcata disperazione di vite offese e di piccole e grandi felicità negate. Ella apre a ripetizione, nelle varie parti, un capitolo duro, magmatico, teso, senza concessioni, senza intermittenze, senza debolezze, non perché intenda porsi come ineffabile giudicatrice o giustiziera, pronta a comminare pene, ma semplicemente perché mantiene, orgogliosamente, la voce inclinata sul versante dell’indignazione, voce inflessibile contro chi macella la vita per i propri turpi vantaggi, come nel caso dei braccianti stranieri sfruttati nelle campagne fino alla morte, come descrive in questi bei versi: “Il suo nome era Tarek di Helalia,/ ma lo chiamavano Tano il tunisino/ – tutto il giorno a zappare a concimare -/ diceva sempre sì,/ anche ad agosto dopo mezzogiorno,/ quando/ tra concimi e diserbanti/ cominciava ad avere giramenti./ Mort’ammazzato sempre nella serra// Lo trovarono la mattina dopo/ davanti all’ospedale di Ragusa./ Gli chiesero come si chiamasse,/ ‘Tarek di Helalia’/ rispose Tano il tunisino./ Ma con la voce della mente,/ ché dalla bocca/ la parola non gli usciva più. / Morì tre giorni dopo./ Ignoto fu scritto sulla tomba.”

Apre in una sezione del libro anche ai vari momenti dell’infanzia, vissuta tra gli echi di intense vicende nazionali, e tra accoglienti mani che la sostengono, parole che ci paiono non indulgere a un sentimento di dolore, non quello strappo o quella minaccia di cui diceva Rilke, piuttosto quel ‘domicilio sgomberato’ che diceva Benjamin, dove tornare, come spiando da un pertugio, e da lì avvertire, come afferma la poetessa (“gorgo della parola infanzia/ di litanie e case bombardate/ sola, compressa,/ nel cerchio di un stanza,/ ha fame e freddo/ e non conosce il mare”), che dall’esterno giungono le pene. Delicatissimo il capitolo dedicato alla madre, una tenera, struggente storia d’amore, l’attenzione totale verso questa figura dolcissima, prima nella sua vitalità, poi nel suo declino con il boccaglio dell’ossigeno a scandirne il tempo, questa donna immersa nella precisione assoluta, come fosse un ordine perfetto sancito dal Cielo, più che la semplice regola di una sarta, colta in questi bei versi, che inquadrano una passata ambientazione fatta di pazienza, attenzione e impegno artigianale:“combaciare cuciture – testadura/ ostinata tutta la vita concentrata/ a stanare ogni minimo difetto:/ l’orlo sfasato la spallina che cadeva male -/ provando e riprovando davanti allo specchio/ tra un vaevieni di porte aperte di musica di vento…”. Dice bene Antonella Anedda nella prefazione che nella poesia della poetessa, “il passato è indistinguibile dal presente … perché riesce a sedimentarsi e crescere sulla parola”. È un altro aspetto che colpisce di questo libro, che nel zigzagare da un versante a un altro, mantiene pur sempre con sé il filo del labirintico e suadente intersecarsi del tutto, una tessitura fine, dove si evidenziano i volti, le vicende, i fatti storici, i vari periodi della vita, in un tumulto palpitante che non sfocia nel caos, ma del caos della vita raccoglie i mille passaggi, non tralasciando nulla della sua semplice e piena esistenza, che è poi anche la ricchezza, e la pena, del millennio che ci ha preceduto. Coi suoi numerosi fatti che scorrono nel fiume infinito dei ricordi, e l’acqua di questo fiume si presenta come elemento centrale, che giunge come un corso carsico e rinviene anche a distanza, quasi come fosse una parola che genera altre parole. Così l’acqua diventa non solo fiume, ma mare, oceano, diviene la nostra dimensione, la nostra arca o/e urna. Il blu del titolo è anche questo, è il riferimento all’acqua, al mare, all’oceano. Allora, come diceva il filosofo Bachelard, l’acqua diviene immaginazione, che può trasformarsi in sogno, creazione artistica, vita, profondo magico inconscio collettivo, morte. O, ricordando Giuseppe Ungaretti, divenire l’esodo, tra lontane terre, alla disperata ricerca di un appagamento interiore, attraverso quei fiumi che toccarono come un flusso misterioso il suo vivere, e divennero il battito del lacerato cuore. Il blu (richiamato nel titolo) è il colore dell’acqua, che dal momento sorgivo giunge al mare, un percorso incessante come la stessa nostra vita, dall’infanzia all’età matura, segnata dalla scrittura e dall’osservazione attenta di ogni piega del sociale. Ma quella che ci descrive la Attanasio è un’acqua tumultuosa perché non ci sono riposanti scenari, ma disperati flussi, alte onde, con richiami alla medusa, alla zattera gèricaultiana, con i disperati abitanti di questo globo che si aggrappano tra loro senza speranza (immagine che ci riporta anche ai migranti morenti in mare), all’assenza di nomi, nel silenzio dei nomi, perché noi tutti siamo naufraghi disperati. La perfetta metafora dell’oggi, che la poetessa nella più partecipe attenzione porge ai lettori come un avviso di ultima chiamata.

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