Maurizio Cucchi, “Prypiat”

Maurizio CucchiNota di Luigia Sorrentino

Nel giorno del suo 70esimo compleanno, Maurizio Cucchi, maestro della poesia contemporanea,  offre, a questo blog, “Prypiat”, una prosa poetica inedita. In questo testo l’autore sembra ricondurci a quella che potremmo definire, la seconda fase della sua produzione poetica, che ha avuto inizio con la pubblicazione della raccolta “Vite pulviscolari” (Mondadori, 2009).

Cucchi recupera qui, ancora una volta, l’elemento temporale dell’infanzia: “Il cortile delle mamme” che abbiamo trovato in “Malaspina” (Mondadori, 2013)  diventa il cortile del collegio dei padri Salesiani, con un rimando alle vacanze trascorse dal protagonista con la famiglia, al Miramare di Rimini, (l’autore ce ne parla nel romanzo “La maschera ritratto”, Mondadori, 2011).

L’incipit indica il luogo, ma anche la condizione esistenziale e terrena dell’io narrante: “Il campo era un immenso cortile di pietra”. E pietrificata e dura, sarà tutta esperienza che farà questo giovane protagonista. Il ragazzo gioca in un campo che però non è il luogo adatto a correre, a dribblare, a calciare la palla. Non è un campo di morbida erba, ma un cortile di dura pietra. Diverse e differenti le “partite”, le “partenze”, che si inscrivono in una o più esperienze crudeli vissute dal protagonista. In esse l’io si impantana e cade  due volte:  “Avevo nove anni”, scrive il poeta, “ma solo per poco” a sottolineare l’inizio di una condizione di vita difficile, di infanzia negata.

In quel campo l’adolescente è già “contaminato” dall’assenza di Dio, e, attraverso le preghiere dei Salesiani, ricostruisce, da “abile solfeggiatore” e da neofita, il senso di precarietà, di inadeguatezza, reale, partecipata dal ragazzo, fin dalla primissima infanzia: “Solo con l’udito si crede”,  “con le mani nel mondo”, a contatto con una materia abrasiva, che si tocca, il mondo degli oggetti, che sopravvivono alla nostra stessa vita.

Anche qui, come ne “La maschera ritratto”, già citata,  il protagonista si rintraccia su un territorio di confine: “Prypiat”, la città fantasma,  ridotta in macerie, dalla quale vorrebbe, istintivamente, fuggire spostandosi “altrove”, alla ricerca di una nuova condizione esistenziale: “Chissà se la via per Ovruch è libera”, si chiede, iterando il trauma, il terrore, l’inibizione cronica che spinge il protagonista sempre in un’altra direzione. E ancora, “Prypiat”  la città più vicina a Chernobyl, offre al lettore il particolare: un fatto di cronaca coincide con la “contaminazione” del bambino con la poesia. Ecco dunque che il disastro provocato dall’esplosione del reattore della centrale nucleare, si trasforma in un sedimento antico,  in una memoria genetica, che spinge l’autore più indietro nel tempo, fino a raggiungere le tracce di un antenato del Settecento, Stefano Ittar, architetto famoso anche in Italia, che muore a Malta.

“Prypiat” è un testo importante,  carico di “indizi”  disseminati in tutta l’opera poetica di Maurizio Cucchi, fin dalla  pubblicazione de  “Il disperso” uscito nel 1976 in prima edizione. “Prypiat” è la città dove anche il ragazzo è un fantasma, metafora di un’esistenza spietata e irriducibile che si potrebbe tradurre con queste parole: “Vita da poeta”.
____

PRYPIAT

Il campo era un immenso cortile di pietra.

Su quello stesso campo, insieme, si giocavano cento partite diverse, ma per tutti, ormai, era cosa normale.
Dell’Acqua, però, giocatore di un’altra partita, calciò con un ghigno vile lontano il mio pallone e io cadevo vicino alle colonne dov’erano i portieri.
Mi trovai per la prima volta senza timore a dribblare coi grandi sulla spiaggia a Miramare. Avevo nove anni in quel momento. Ma fu solo per poco.
Mi rialzai, ancora stordito, sui bolognini dei salesiani, e cadendo una seconda volta, finivo chissà come in una specie di pozza fangosa.
Vedevo lì attorno, ormai corrosi e arrugginiti tra le foglie i cassoni dell’autoscontro, e più in là, su un cartello di legno issato in mezzo alla palude, la scritta Prypiat. Ma non capivo. Così, ho tirato fuori quel poco di latino, io,  per farmi capire:

latens deitas,
quae sub his figuris, vere latitas

Visus, tactus, gustus, in te fállitur,
Sed audítu solo tuto créditur.

Et in mundo conversatus.
Se dat suis manibus.

Ho chiesto allora la via
per la città fantasma a un fantasma di prete
che mi ha detto “Ci sei!”, poi è scappato.

Chissà, pensavo, se la strada per Ovruch è già libera,
chissà se sono stati anche laggiù, contaminati
dalla nube micidiale del reattore scoperchiato.
Chissà se qualcuno ha memoria di lui, dell’architetto
che scese e vide il Borromini e fece, fece dopo il terremoto
fino a morire a Malta.

E mi sono ritrovato qui, seduto a solfeggiare,
la mano a ombrello con la gioia e la passione
ingenua del neofita.

 

Maurizio Cucci (Inedito)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *