Patricia Hanley, Past The Cape of Sorms

Nello Scaffale: Patricia Hanley
Sotto la scrittura corsiva (Past the Cape of Storms)
a cura di Luigia Sorrentino

di Loretto Rafanelli

Nella raffinata ed elegante collana Poesia sin pureza, dell’editore friulano Ellerani, diretta, con grande competenza e passione, dalla poetessa Marina Moretti, collana in cui già sono stati pubblicati ottimi autori (Gianfranco Lauretano, Enrico Fraccacreta e una scelta di poetesse del Nordest, quali Antonella Bukovaz, Gabriella Musetti, Mary Barbara Tolusso, la stessa Moretti, ecc.), esce il nuovo libro di Patricia Hanley, poetessa canadese, musicista di valore, docente, traduttrice dall’italiano all’inglese. Sotto la scrittura corsiva (Past the Cape of Storms), è una edizione bilingue (con straordinarie immagini del grande pittore ucraino Sergej Glinkov) dove la eccellente versione italiana è a cura della stessa poetessa, caso direi abbastanza raro. La prima considerazione che viene da fare, leggendo questo libro, è che la Hanley ha fatta sua la lezione di una certa poesia italiana novecentesca, da Montale fino a Sereni, ella stessa peraltro ci dice, in una breve nota, di amare questa poesia, ma conoscere e amare una poesia non vuol sempre dire che di essa si sono anche acquisite le coordinate e la valenza teorica, cosa che invece ritroviamo nei versi della poetessa canadese. Allora diciamo subito che raramente ci è capitato di trovare una poesia tanto ben misurata, così ben strutturata e “pulita”, un pregio che è alla base, crediamo, di una poesia pienamente riuscita, ma accanto a questo passo sicuro, i versi della Hanley contengono pure un fuoco creativo straordinario, con rapinose vette e fulminanti squarci. Perché il gesto di Càllicle, che frantuma l’otra colma d’olio, metafora perfetta dell’urgenza di far uscire l’eccesso che c’è in noi (idea contrastata, in nome dell’ordine, da Socrate), è qui in questo bel libro coniugato perfettamente alla misura, al controllo del verso. La Hanley fa sue le parole di Marianne Moore, cioè che la “concentrazione è il primo dono dello stile”, ma il tutto è mediato dalla sotterranea e profonda emozione poetica, per cui il decoro del verso si coniuga alla perfezione con i lampi del dire, che è poi la profondità della parola muta che ci sottende, e che giustifica il senso della scrittura in versi. Un parlare che invoca la speranza ma che si confronta continuamente con il senso del dolore che ci accompagna, con il senso della morte, sintetizzato, mi pare, in questa immagine straordinaria: “Le partenze sono qui/ anche gli allontanamenti/ tolti ancora dal mare/ degli addii riemersi/ dalla spuma del naufragio./ Di quelli che ci/ hanno fatto/ un cenno/ con la mano/ invano”. Dice bene, nella bella introduzione, Marina Moretti che “domina la dissolvenza che ha il colore di una fotografia ingiallita dal tempo, la luce d’un crepuscolo che volge alla notte o, più raramente, di un’alba ancora intessuta di tenebra, una luce parziale d’incertezza che ci sorprende nel suo ossimoro esistenziale”. Considerazione veritiera quando si legge che “dove il cielo/ è del colore della sabbia/ pallida di conoscenza/ non c’è nient’altro/ che quaesta luce/ e andrà avanti così/ per l’eternità”. Eppure non pensiamo che si possa collocare la Hanley nel versante della poesia che rifugge alla luce. La cura e la pulizia del dettato sono già in sé un volgere ad una serena armonia, che si fa traccia più nitida quando la poetessa avverte che “sulla scia del lutto/ dite loro:/ Non bruciate mai le lettere d’amore”, come, se non ricordo male, diceva la Dickinson. Oppure ne “L’ultimo testamento”, chiosa all’inizio “la morte è dura…”, ma poi: “È la morte della sorella/ che ti fissa?/ O sei tu a fissarla” e ancora “Quando il momento arrivò/ i legami familiari/ che ora ti stringono/ erano più forti/ al disfarsi di ogni respiro.” Pare che la Hanley voglia nominare il dolore e la morte, per superare un qualche buio tunnel della vita, quasi come il nominare fosse una necessità salvifica, che è poi il senso profondo della poesia, calata nel vertice di una guerra, eppure sempre squarciata da una luce. Ma lo sguardo della poetessa è uno sguardo a tutto tondo, non è la sua una visione paralizzata su un solo versante. Ci dice molto, molto di più. Dei guasti del mondo e della straziante povertà, con l’immagine terribilmente realistica dei senzatetto: “Li vedi/ a rovistare nel crepuscolo/ a sparire alla vista/ dopo il calar della notte./ Anche adesso/ mentre dormi la polvere/ gli cade addosso/ Non ci sarà l’alba/ soltanto le impronte del sole/ si poseranno su di loro.”; della natura, con immagini solari e piene di forza vitale: “Invisibile/ un canto rompe/ il guscio della luce/ del giorno./ Una nota pura/ si svolge/ dagli alberi slanciati/ dispiegando/ le sue ali/ come un airone bianco./ Ancora una volta la luce/ aspetta la sua ombra/ nell’alto canneto”. È una poesia che si fa dono, e ci rivela un attimo ulteriore, perché è in “questa luce/ che allunghi la mano/ come se catturassi ciò che è lì/ prima della scomparsa-/ la luce che ondeggia/ su ogni muro di pietra/ su ogni mattone.”

1 pensiero su “Patricia Hanley, Past The Cape of Sorms

  1. Si….una poesia ed una poeta ottima e veramente classica nel senso positivo di questa parola. Nella sua poesia si vede subito la sensibilita verso la musica che la Hanley possede anche. La sua visione poetica ha la chiarezza degli sui disegni e degli sui acquerelli.

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