Rosa Filardi, “Volo verticale”

Rosa Filardi

Introduzione
Isola-menti o atterraggi in volo

di Angela Lo Passo

Aprirsi al mondo è come riprendere coscienza di essere o di non essere chi o cosa il mondo stesso ci ha fatto diventare malgrado noi. La percezione di sé cambia ma non cambia la discrasia tra come ci percepiscono e come pensiamo che ciò avvenga. Ed in questo dualismo perenne si perde la vera essenza del vivere, l’essere per ciò che siamo e non per come pensiamo di essere o, ancora più complesso, come crediamo che gli altri ci vedano come essere.

Ogni faticosa rinascita prende avvio da questa immensa perdita di sé.

Questo il dramma che si consuma nel monologo e nei due atti unici della scrittrice teatrale Rosa Filardi, che si intensifica ancora di più nella dimensione dell’io e
l’altro, in un crescendo di incomunicabilità che sa di sofferenza e preannuncia la morte stessa dell’io.

L’origine dell’io

Se mi si chiedesse perché leggere questo testo così tripartito, ma da considerare come unico sviluppo del dramma dell’incomunicabilità che nasconde, però, la profonda ricerca dell’essere, in poche parole dell’identità in un mondo votato alla omologazione, all’appiattimento delle differenze, risponderei con un semplice: è necessario.

Bisogna leggere ad alta voce e far emergere i segni e attraverso essi il suono ed infine il senso.

Questo processo è il processo della presa di coscienza che parte e passa dalla parola scritta e poi verbale. Da qui la spinta per noi lettori a leggere “ad alta voce” per toccare l’anima della bambina che vuole ritornare nel primo testo della trilogia, “Volo verticale”, tra le braccia della madre.

L’ambiente della scena non a caso è il mare come la richiesta, che è in fondo solo il desiderio di essere “accolta”.

Qui la morte fisica sta intaccando la propria identità, la dimensione dell’umano si sta inaridendo perché viene a mancare pericolosamente la radice. Come fare ad uscirne o almeno arginare questa emorragia dell’anima?

Il mare, l’acqua è la risposta, la barriera al fluire incontrollato del dolore ed insieme ad esso della parte di identità che appartiene a chi ci ha generati, nel caso della protagonista a chi l’ha messa al mondo per poi cercare a suo modo di proteggerla da esso. Perdendo la madre, inevitabilmente sta perdendo quella parte essenziale della coscienza di sé.

Rimane il mare, l’acqua, l’origine della vita, della vita di ognuno di noi, metaforicamente la stessa vita.

Il mare ed il suo abbraccio. La sua liquidità, il richiamare quella culla nella quale siamo cresciuti per nove mesi, al sicuro, intoccati, sereni. In fondo il desiderio che rimane latente tutta la vita è quello di voler tornare a quella culla per sentirsi protetti, per non dare spiegazioni di chi o cosa siamo, per essere autentici senza sovrastrutture e lasciarsi andare.

La lotta comincia con il primo vagito, un grido alla vita che è invece l’inizio del dramma, il distacco dalla vera identità e la fatica della ricostruzione.

Al centro la madre, l’alma (letta anche come anima), colei che dà la vita ed è l’inconsapevole mezzo per attuare il processo lungo e travagliato della costruzione del sé. L’ingranaggio non ben oliato della macchina dell’essere che spesso si scontra con la parte intatta e vergine dell’anima originale.

Da qui la ricerca dell’abbraccio, straziante e invocato dalla protagonista dell’atto unico “Volo verticale” e l’esigenza di tornare ad essere libera come all’inizio, ad invocare l’annullamento per tornare ad essere figlia nel liquido amniotico, silenzioso e assoluto.

L’io sociale

Lo scenario cambia nel secondo atto unico, diventa freddo, artificiale, grigio. L’io esce dalla dimensione individuale per relazionarsi, per calarsi nel sociale, cumsociarsi, ma è nell’insieme che avviene la frantumazione, poiché non ci si riconosce nelle idee dell’altro, nella visione dell’essere identità e collettività.

Come in una fortezza, il gruppo si insterilisce, diventa autoreferenziale senza dinamiche innovative, ha paura del diverso, di chi esce dai cliché che esso stesso si è dato per sicurezza, per una distorta visione della protezione culturale, sociale o altro che sia. Aggettivare l’egoismo, l’arida visione dell’io è comunque un esercizio inutile e specioso, la verità è solo la paura.

Il vento, l’aria, un suono nuovo, un canto che viene da lontano e che per contrasto richiama, rispetto al finito della chiusura, l’infinito, la possibilità della metamorfosi, del cambiamento, della crisi che apre al cum e distrugge l’in, su questo si basa il rinnovarsi, il farsi nuovi, ritrovando una base comune, l’umano. Homo sum

L’essere civitas richiama l’appartenenza ma senza humanitas, senza il senso identitario di appartenere invece ad un genere più ampio, rende prigione le fortezze erette per proteggersi e si finisce con l’essere morti che camminano, inconsapevoli di esserlo. Andare, restare, tornare non differiscono tra loro, è come vivere in una bolla fuori dal tempo, fuori dal senso, fuori dall’essere “uomo” per cui sembra quasi normale l’orrore ed i gesti quotidiani diventano meccaniche e sterili movenze da teatranti.

Il dentro ed il fuori le mura sono una necessaria linea di demarcazione più per convincersi di vivere ancora da cittadini, che di esserlo sul serio, negando anche la causa prima che ha creato la civitas. Il problema è l’“altro” da sé e, invece, il tiranno è dentro di sé, detta le leggi non scritte di valori artificiali che hanno perso il vigore originario trasformandosi in trappole.

C’è chi vuole, nel IV quadro, far parte di questi “eletti”, ma alla fine si rende conto di aver abdicato alla propria umanità per un falso miraggio di civiltà, di bellezza costruita sulla menzogna.

La bellezza, invece, ha bisogno di autenticità, di opporsi al buio che incombe, non preservarsi ma creare luce. Ed è questo elemento che rappresenta la via di uscita: alla
fine i veri “Scarti” (questo il titolo del secondo dramma) non sono gli “scartati” ma coloro che scartano, le bestie, gli essere disumanizzati che hanno rinunciato alla loro
originaria funzione.

Per ricominciare serve un potere disvelatore, una forza che tolga il velo dell’assuefazione al grigio, alla paura, alla morte ed è la Pazza del VII quadro, colei che come il cieco che vede oltre, come i poeti antichi che sanno leggere il mondo, apre prima i suoi occhi e poi quelli degli altri, i veri “scarti” che rappresentano i detriti della vita, inerti e fiacchi a mettersi in gioco. E danza, danza, danza per risvegliare il cuore, per ritornare al gesto originario e inconsapevole dell’unione, dell’amplesso, del cum-vivere, immersi in un panteistico e divino esistere.

L’io e l’altro

Da qui si parte per il terzo atto che conclude questo processo della ricerca dell’identità.

Ora la bolla è fisica, visibile, fatta per due, la coppia che dà origine al prosieguo della specie, che permette al mondo di essere umanizzato. Tutto avviene in questa sfera fisica, non più metaforica dell’incontro forzato, non c’è possibilità di scampo.

Il silenzio si inframezza alle parole, parole scontate, parole che cercano di creare intimità ma che invece rivelano la fragilità del possesso in un’“Alba liquida” (questo il titolo), che richiama l’acqua del primo atto ma soltanto nella forma non nell’essenza. Se non possediamo noi stessi, come pretendiamo di possedere l’altro?

La pretesa che l’amore sia la risposta non può oscurare la realtà: l’amore che pretende
risposte è destinato a fallire.

L’atto non si conclude con una fusione auspicata dai due protagonisti, ma con un’ammissione di fallimento: non mi riconosco in te perché sono altro da te. E questa,
che dovrebbe rappresentare una ricchezza, diventa invece causa della fine. L’eros non rappresenta un mezzo di sublimazione, dell’uscita da sé per un altro, ma un sipario tra solitudini, un atto momentaneo di libertà che non premette a nessuna scoperta dell’identità comune, al contrario si afferma come assoluta: sono ciò che non sei.

Così si chiude la trilogia della scrittrice Rosa Filardi, non nel ritorno ma nell’attesa.

LINK EDITORE

Rosa Filardi è docente di Teatro, Lingua e Cultura Italiana, presso l’Università John Cabot di Roma. Co-fondatrice e curatrice del Festival Nazionale di Poesia Italiana contemporanea “InVerse”, e dell’omonima antologia bilingue (ed. John Cabot University Press, Roma 2005-2021).

Ha una lunga formazione in teatro ed è autrice di racconti e testi teatrali. Alcuni suoi testi di teatro, scritti insieme a Monica Mioli (attrice bolognese scomparsa nel gennaio 2000), sono raccolti nel libro Vieni avanti che non ci son dei sassi, ed. Pendragon, Bologna 2006.

Con il monologo Volo Verticale Rosa Filardi è stata segnalata al Premio Fersen per la drammaturgia, IV edizione 2008, e pubblicato da Editoria & Spettacolo Roma nel 2009.

Alcuni racconti sono in rivista “Clandestino”, n.3, dicembre, La Nuova Agape, Forlì 2006; in “Pensieri d’Inchiostro”, Perrone, Roma 2009; in www.raccontinellarete.it, 2010; in “Pink Ink scritture comiche molto femminili”, Zona, Arezzo 2003.

È Danza MovimentoTerapeuta professionale APID® e da diversi anni collabora con la Compagnia della Mia Misura, gruppo di teatro-danza integrato, un progetto di inclusione sociale attraverso l’arte e la danza.

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