Dialoghi sulla Letteratura di Mariella Radaelli

RECENSIONE DI ALBERTO FRACCACRETA

Si è percorsi da un brivido di genuino stupore quando si legge l’indice de Il ferro e la rosa. Dialoghi su mondo e letteratura di Mariella Radaelli, posto all’estremità di quattrocentoundici densissime pagine: brivido che cresce allo snocciolare — sicuro e inconcusso — di nomi non certo ignoti, di mostri sacri della letteratura odierna: Isabel Allende, Ray Bradbury, Andrea Camilleri, Jonathan Franzen, Giovanni Giudici, Nadine Gordimer, Günter Grass, Franco Loi, Alda Merini, Amos Oz, Toni Morrison, José Saramago e molti altri. Possiamo continuare a lungo. Una galleria di premi Nobel, giganti della poesia nostrana e straniera, eminenti romanzieri: sono stati tutti intervistati durante la ventennale esperienza giornalistica della Radaelli (che ha rubricato i pezzi per quotidiani come «Il Giorno», «QN», «Corriere del Ticino»; oggi lavora come columnist al «Khaleej Times», dopo essere stata corrispondente per il «New Delhi Times», l’«Italo-Americano» e il «China Daily»). «Le mie scrittrici e i miei scrittori — dichiara l’autrice nell’introduzione — mi hanno insegnato a battagliare i qualunquismi e le sciatterie del quotidiano. Leggerli ha affinato la mia capacità d’ascolto e la mia dimensione riflessiva di conciliazione».

Bene, innanzitutto ciò che emerge dal libro è proprio l’ampia capacità di ascolto della giornalista, il suo farsi da parte per accogliere il pensiero e il punto di vista dell’altro, per lasciar emergere le idee sul mondo, sull’arte, sulla società della personalità letteraria chiamata in causa e puntellata costantemente dagli intelligenti stimoli dell’interlocutrice. Un esempio? L’arditissima intervista Mario Luzi: “Mia madre, la voce di Dio”, pubblicata su «Il Giorno» il 5 aprile 2003.

Ecco uno spezzone: «Luzi, parliamo della sua fede in Cristo. All’inizio non avevo una posizione esplicita, ma dentro di me agiva questa forza spirituale. E il merito è stato di mia madre. L’ha anche scritto in “La porta del cielo”. Sì, è stata lei a insegnarmi a sentire la presenza del Cristo nell’eucarestia. Aveva un legale “umbilicale” con sua madre. L’ha paragonata a Monica, la madre di Sant’Agostino. Avevamo anche noi quei colloqui, quelli che Agostino aveva a Ostia con Monica. I miei rapporti con mia madre, che era una donna molto semplice, sono stati formalmente umili ma di sostanza. Il nostro è stato un rapporto bellissimo. A lei ha dedicato molte poesie, molte raccolte. Fino all’ultimo svolse i suoi compiti, lei scrive: “Preparò l’ultima cena”. Il richiamo cristologico non è casuale. Lei ha fatto dello Spirito la sua principale materia poetica.

Ho solo cercato di ristabilire, ma non so se ci sono riuscito, il fondamento spirituale del linguaggio poetico. Esiste però un “salto” tra la poesia, che contiene in sé nell’etimologia del vocabolo la radice del fare, e la preghiera. La contemplazione è qualcosa di superiore: un’immobilità che non rompe il silenzio, come invece accade quando ci si mette a scrivere».

La Radaelli non va per il sottile e pone domande essenziali, entrando così in sintonia con l’intervistato e creando un ponte di empatia che arriva, fresca e intatta, al lettore. D’altra parte, questo stile comunicativo è implicito nel titolo dell’opera: il ferro e la rosa. Ossia, come informa la bandella del libro: tutti questi autori hanno «giocato con la materia pesante, nodale, del vivere quotidiano. Fabbri di parole, hanno sfidato il ferro e il fuoco della condizione umana, forgiando creature che popolano e interrogano ad ampio spettro i nostri pensieri».

Un altro spezzone? Ci sarebbero le disquisizioni politiche di Soyinka, i crucci di Raboni, le confessioni di Yehoshua e molto altro. Ma — il lettore ci scuserà — non resistiamo a trascrivere gli aneddoti su Montale raccontati da una persona che lo ha conosciuto molto bene, Maria Luisa Spaziani. (Maria Luisa Spaziani: la ragazzina che invitò a cena il poeta è uscito su «Il Giorno» del 17 dicembre 2000.)

«Il Montale del “Corriere della Sera”, ma il vostro incontro è avvenuto a Torino, non è vero? Sì. Lo adoravo e recitavo a memoria Ossi di seppia. Alcuni mi parlavano male di lui: “Se hai il mito di Montale, non cercare di conoscerlo. Avresti una delusione, ti tratterebbe male”, mi dicevano. “Montale è misogino, misantropo e avaro”. Io avevo diciannove anni e dirigevo una rivistina post-ermetica, Il dado, che aveva grandi collaboratori. Era il 1949: lui venne al Teatro Carignano per una conferenza. Ci volli andare. Quando me lo presentarono, gli dissero: “Questa è Maria Luisa Spaziani”. Lui mi guardò sorpreso: “È lei?”. Rimasi sbalordita, ero sconosciuta! Continuò: “Lei dirigeva Il dado, ma non mi ha mai invitato a collaborare!”. Chiesi: “Lei voleva collaborare?”. Lui: “Aspettavo che mi invitasse!”. Quando mi decisi a riaprir bocca, gli dissi: “Viene a pranzo da me domani?”. “Sì, sì” mi rispose. E da lì è iniziata la vostra relazione? In un certo senso sì. Abbiamo passato insieme quattordici anni fantastici. Le racconto un aneddoto. Io mi sono laureata su Proust: era il mio mito, con Montale. Dopo aver incontrato Montale, dissi a mia madre che all’indomani lui sarebbe venuto a pranzo da noi. Lei mi fissò dicendo: “Meno male che Proust è morto”. Montale disse in seguito a mia madre: “Signora, Proust è morto, io no, mi scusa?”».

Mariella Radaelli, Il ferro e la rosa. Dialoghi su mondo e letteratura, Prospero Editore, pp. 411, € 18

Mariella Radaelli

Mariella Radaelli è una giornalista bilingue. Ha scritto per testate nazionali e internazionali, tra cui QN Quotidiano Nazionale, Corriere del Ticino, New Delhi Times e l’Italo-Americano. È stata corrispondente per China Daily, maggior quotidiano in inglese in Cina, e da alcuni anni è editorialista per Khaleej Times, principale quotidiano degli Emirati Arabi. Appartiene all’Ordine dei Giornalisti e alla Society of Professional Journalists (SPJ) negli Stati Uniti.

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