Piero Bigongiari, “L’enigma innamorato”

Piero Bigongisri

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

La poesia di Piero Bigongiari, crescendo dai concimi di una dizione che può essere definita biblica – a patto che l’aggettivo sia letto non soltanto stricto sensu ma anche nella sua accezione più larga, nell’occorrenza di un’arcana solennità –, non poteva fiorire per acclamazione di pubblico. È infatti una lirica insidiosa, elusiva, a tratti severa, che rilascia un nettare melodico (a differenza del primivitismo betocchiano).

Eppure dietro alle sinuosità formali si incrociano significati sfingici, legati da un rapporto non esattamente (non del tutto) “ermetico”, come ci si aspetterebbe, bensì allegorico-metafisico, insomma lungo quella linea discontinua che scorre da Browning e Baudelaire.

I versi di Bigongiari non appartengono di rigore né alla poésie pure di marca simbolista né al «classicismo paradossale», al ragionamento modernista. Sono un ibrido, un ircocervo.

Certo è che Carlo Bo lo considerava «il più concettualistico rappresentante del movimento [ermetico] nella sua fenomenologia fiorentina». Nondimeno l’obscurisme della penna, al pari del Barocco pittorico che egli predilesse assieme alla moglie Elena, sin dall’inizio si muove sull’asse di una saturazione di motivi, spesso confinante in quell’«oltranza manieristica» (Pavarini) che ricompone un mondo nella sua impermeabile perfettività: e di lì, stabilita l’insufficienza del reale, oltre l’orizzonte di un’algida lontananza.
La tentazione che Bigongiari sia dunque un poeta per poeti è scottante e deriva dai presupposti filosofici con cui sorge la sua ispirazione.

Nato a Navacchio il 15 ottobre 1914 – di soli cinque giorni più “anziano” di Mario Luzi che pure abbuiò involontariamente la sua stella –, Piero entra ben presto (dopo la laurea su Leopardi nel ’36 all’Università di Firenze, relatore Attilio Momigliano) nel côté di riviste come «Il Frontespizio», «Letteratura» e «Campo di Marte», dimostrandosi la mente critica della cosiddetta «Terza generazione».

Esordisce nel ’42 con La figlia di Babilonia (Parenti), testo orientato al riassemblaggio del caos che anticipa l’ordito dell’informale, al quale seguiranno – tra gli altri – Rogo (Edizioni della Meridiana 1952) e Torre di Arnolfo (Mondadori 1964).

Al principio degli anni Settanta è data alle stampe, sempre da Mondadori, Antimateria: in virtù di elaborate accentuazioni stilistiche perviene all’esclusivo cenacolo degli happy few: la poesia si assiepa in un discorso circolare e tuttavia non aristocratico, inteso nella sua volontà d’interloquire stilnovisticamente con i “vassalli d’amore”.

L’attività letteraria diventa elezione o momento di Grazia, non lontana da una sorta di impegno politico; la lingua di Bigongiari, «riservata a pochi iniziati» (Altieri Biagi), non rifugge dal mondo, non è evasione ma messaggio cifrato, eversione.
Di questo nitido documento di vita, la cui parabola terrestre si è chiusa a Firenze il 7 ottobre 1997, ci offre un ampio spettro L’enigma innamorato. Antologia 1933-1997, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, tra i maggiori esperti in materia, per la rinata casa editrice Vallecchi nella collana diretta da Isabella Leardini (introduzione di Milo De Angelis, pp. 257, € 18,00).

La silloge vede in posizione di incipit ed explicit cinque inediti nel corpo di una selezione lirica spalmata sull’intera opera: oltre ai titoli citati si va da Il corvo bianco e Le mura di Pistoia (1955-58) a Nel delta del poema, Abbandonato dall’Angelo (1989-1992).

Emerge un quadro abbastanza compatto, marcato da una sola sterzata, la «svolta poematica» all’altezza circa di «Antimateria del 1972 e Moses del 1979», nota De Angelis. Il quale con una densa enumeratio suggerisce che il tratto precipuo di Bigongiari è «sinfonia dissonante dei contrari, concomitanza, irradiazione, brulichio di immagini, vento tempestoso, identità multipla e frantumata, atto temporale, caos nascente e catastrofe, infinità eccentrica che avventurandosi nell’oltre si imbatte nell’inizio».
L’effetto di una simile giustapposizione semantica potrebbe essere esemplificato dalla title-track compresa nella raccolta postuma Il silenzio del poema: «È la felicità forse che ha smesso/ di ossessionarlo? Parlo, ascolto, dico/ all’amore mendico di aspettarci:/ troppo veloce è il suo passo aprico// tra i suoi sparsi destini: elevarsi,/ distruggersi, trovarsi, anche nascondersi/ nell’evidenza. Udito, inaudito,/ ha la dolcezza di un canto smarrito.// Ha più fini che mezzi, se l’amore/ non ha confini. Ha cuore e non ha cuore/ l’amore che esibisce nell’esistere/ le sue tessere, le false e le vere?// L’incredulo vuole essere creduto,/ sedulo nella sua divina malizia./ Dove ostenta pigrizia, non credetelo:/ è lì che abile tesse la sua tela,// è lui che rivéla ciò che svela».

Endecasillabi, più o meno scazonti, che cercano di imprimere le azioni dell’amore in una casistica puntuta, urticante.

La tensione espressiva di Bigongiari volge verso termini di afflato esistenzialistico che, partendo dall’ipernovecentesco richiamo ulissiaco, si spandono su figure come Mosè, Gesù (in Col dito in terra e ancora Il silenzio del poema: «Ma di quali avvisaglie ordì la pietra/ in cui il Cristo disse: Tu es Petrus»), persino Esiodo e Orfeo. Del resto, il labirinto dei nodi intertestuali è folto e procede dalla Bibbia all’Apocalisse, ai classici greci e latini, senza disdegnare la tradizione indiana dei Veda, le Upanishad (un brano paradigmatico in tal senso è Il cubo e la gabbia) fino alle acquisizioni psicanalitiche di Lacan, alla già menzionata arte informale con Morandi e Pollock.
Arriviamo così agli assunti teoretici, omessi i quali è quasi impossibile comprendere o addirittura approssimarsi alla poesia di Bigongiari: se l’oggetto è problematico, opaco, se anzi aumenta «la dismisura tra oggetto e uomo» (Novelli), tutto il concerto del vero è giocato su frontiere interiori ed esteriori, sulle modalità di percezione dell’altro, entro solubili distanze da accorciare: l’accesso alla verità implica una trasformazione del soggetto, un uscire dalle catene della conoscenza per ardore – cade il rischio di un riarmo gnostico – e raggiungere i porti sicuri della carità (bellissimo il finale de La dimora: «Ma il ritardo/ è già nel fuoco entro cui ardono/ carezzosi quei muri a cui non basta/ il calore del sole, la fantastica/ sua assoluzione per dire che esistono,/ se non sono più dove ancora consistono»).
In questo pericoloso transito percettivo-coscienziale svolge un ruolo emblematico la donna. Ma attenzione: il tema femminile non coincide soverchiamente con il tema di Beatrice; nelle lunghe descrizioni l’iconicità si sfibra a favore di «bianche mani», fermagli, diamanti, «spenti smeraldi».

La donna di Piero è la Selvaggia di Cino da Pistoia (città dell’anima, come attesta Nel giardino di Armida, Via del Vento 1996), una «donna miriade» – chiosa De Angelis – perché in essa sono sommati molti volti, molti silenzi, l’integrità del femminino nella mandorla di un unico stampo («Il fuoco sale/ più cilestrino, tu mi guardi fino/ a farmi male, fata o mio destino»).

Una donna ablata («l’ablazione della favola immaginaria»), secondo Iacuzzi. E qui si ritorce il mistero della sua opera ancora brumosa ai nostri occhi, ermeticamente sigillata per la nostra voglia di serrarla in un target. Infatti, vale per Bigongiari – speculum in aenigmate – ciò che egli scrisse di Cavalcanti: «Anche in lui esiste una logica delle apparizioni, dei fantasmi, una logica intendo tragica, abrupta, rispettata.

Solo che in Guido Inferno e Paradiso sono strettamente connessi, inscindibili in una loro essenza purgatoriale: cioè in uno stato perpetuamente potenziale, in una “virtualità” che la forma, la veduta forma, scatena». Risiede forse nella «veduta forma» il trillo di shock e benedizione, la scossa e la gioia: nell’aver visto o solo intravisto, nell’aver sperato e creduto che «nella propria sparizione» vi è «un lembo dell’eterno», un velame, uno sguardo, la «lucentezza ultima» della creatura. «Felicità, felicità». Ma «di che cosa?».

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