Il volto di Franco Loi

Franco Loi

di Monica Acito

 

L’annus horribilis, terminato da pochi giorni, sembra aver alitato un po’ del suo soffio mortifero anche sul 2021.
Franco Loi ci ha lasciati il 4 gennaio: un colpo di coda che non lascia presagire nulla di buono.
Quando un gigante della nostra letteratura va via, anche chi rimane sperimenta un po’ di quella morte.
Ma è una morte diversa, una morte che non va vissuta in solitudine: chi rimane in vita, deve stringersi ancor di più, un po’ come in quella “social catena” decantata da Leopardi.
Stringersi per non sopportare da soli quel retrogusto amaro che hanno le morti dei poeti, che sembrano portare via con sé qualcosa di sacro.
Ci si unisce e ci si immerge nel ricordo per tornare, tutti insieme, a una preistoria che solo la voce del poeta sa e può evocare.
Franco Loi, in questi giorni, è diventato imago traslucida, in cui ognuno ha saputo riflettersi: come un coro di aedi e rapsodi, la comunità dei sopravvissuti si è stretta attorno alle spoglie letterarie del poeta.
E quelle, non muoiono mai, perché l’inchiostro non si corrode, non degrada e non marcisce.
Ho provato a spostare i fili di quell’inchiostro, a sentire l’odore pungente di tante epoche fa, e ho avvertito subito il bisogno di visualizzare il volto di Franco, di guardarlo negli occhi, anche se attraverso un groviglio di pixel, per annullare la distanza temporale e antropologica tra questo strano tempo e quello che è rimasto imbalsamato nei suoi versi.
Un tempo che ci fissa, come uno splendido animale impagliato in un museo: magari, di notte, quel tempo potrebbe rianimarsi a nostra insaputa e rivivere ancora, perché il tempo è un continuum, e nell’istante esatto in cui sembra svanito, è pronto a ritornare.
Ho pensato tanto, in questi giorni, al volto di Franco Loi: ho osservato molte sue foto, e tutte mi hanno trasmesso la stessa sensazione domestica, di familiarità.
Ma del resto, cosa sono i tratti somatici di un poeta? Le sue vene, il suo fiato, il modo in cui inarca le sopracciglia e in cui schiocca la lingua, a un certo punto smettono di avere importanza: i suoi lineamenti smettono di essere fatti di carne e diventano linee scritte, sbuffi sulla carta e ghirigori d’inchiostro.
A chi interessa il modo in cui Virgilio, Orazio o Properzio sfregavano le mani? O il colore degli occhi di Ovidio, quando guardava le rive del Mar Nero?
In ogni caso, ho ceduto alla mia debolezza: ho voluto ripercorrere i lineamenti di Franco, come se la sua pelle potesse trasformarsi in una bussola di legno, pronta a guidarmi nel viaggio della sua vita e del suo ricordo, per disseppellire il giacimento di vita contenuto nei suoi versi.
Un po’ come scriveva Ungaretti.

IL PORTO SEPOLTO
Mariano il 29 giugno 1916.

Vi arriva il poeta
E poi torna alla luce con i suoi canti
E li disperde

Di questa poesia
Mi resta
Quel nulla
Di inesauribile segreto
.

(Giuseppe Ungaretti, in “L’Allegria”; “Vita di un uomo. Tutte le poesie”, Mondadori, I Meridiani Collezione, 2005)

Mi ha colpito tantissimo la foto che ha pubblicato Luigia Sorrentino domenica 10 gennaio, proprio qui sul suo blog “Poesia, di Luigia Sorrentino”, nel pezzo in cui ci offre, come un dono preziosissimo, il suo ricordo di Franco Loi e riporta la sua intervista esclusiva al grande poeta per RaiNews24, realizzata nel 2005.

Mentre leggevo il pezzo di Luigia, mi sono sentita a Milano con lei, ho avvertito la sua emozione e l’importanza di ciò che stava per fare: entrare nelle stanze di Franco Loi, respirare l’odore della sua casa e dialogare con lui.

D’un tratto, ho sentito il freddo sferzante della città sulle guance rosse e poi, dopo tanto gelo poi, ho sperimentato un calore strano e familiare salirmi dalla punta delle dita fino alle labbra: il calore di una casa, pronto a sbriciolare ogni cristallo di brina.
Il sorriso di Franco è sghembo, quasi da fanciullo che ride, spudorato, in faccia ai secoli.
Franco Loi mostra i denti al tempo, perché può permettersi di farlo: il suo volto mi ha ricordato una piccola carta geografica, fatta di rughe, nervi e sorrisi.
Una carta geografica che ha sicuramente ospitato tutti i sentimenti umani, come un piccolo breviario che ripercorre, dalla alla A alla Z, tutti i trasalimenti che un essere umano può provare nel corso della sua vita.

Ho sentito la stoffa della sua giacca da camera, il calore luminoso della sua casa, e mi sono persa nel gioco di domande e risposte che lui e Luigia hanno costruito insieme in modo sapiente, come una partita a scacchi ben orchestrata, o un contrappunto in cui risuonano melodie di vita, insegnamenti e sprazzi di poesia, che pulsano come lampi in un cielo d’estate.

Mentre provavo a ricostruire il volto di Franco, non mi sono sentita sola nemmeno per un attimo.
Al mio fianco, le fiammelle accese in primis da Luigia Sorrentino, poi da Fabrizio Fantoni, Valerio Magrelli, Mariangela Gualtieri, Umberto Piersanti e quanti hanno scritto su di lui su questo blog: tutti loro hanno lasciato un fiore di bellezza diversa per Franco Loi, un fiore che ha assunto ogni giorno sfumature e screziature differenti.

Ho provato a coglierli, e nei petali non sono riuscita a vedere un unico volto di Franco, ma tanti volti cangianti, come quelle pietre preziose o talismani che cambiano colore a seconda del tempo, del cielo, della temperatura che c’è fuori.
E quel talismano me lo tengo stretto, in tasca.
Franco Loi, poeta dialettale in milanese: leggo, in questi giorni, navigando nel mare magnum dell’Internet.

L’urgenza “tassonomica” delle antologie di storia della letteratura ha una grande fretta di schedare e catalogare tutto ciò che viene pubblicato, senza tenere conto di chi, invece, sta in limine: del resto, è accaduto lo stesso con le correnti letterarie; ma è davvero utile ed efficace dividere tutto in compartimenti stagni, come se la poesia fosse un insieme di cassetti che si aprono, per tirar fuori dei prodotti che aderiscono a determinate caratteristiche?

Del resto, in filologia accade lo stesso, quando si studiano i testi e si esplorano i manoscritti: dietro la veste formale del manoscritto, c’è la filigrana del “non detto”, la zona d’ombra da disseppellire, di quel termine che forse non era quello giusto, di quella parola che non si lascia catturare dalla rete del pescatore.

Il dialetto milanese “puro” non ha mai fatto parte del codice genetico del Loi poeta: nato da un curioso amalgama linguistico (padre ferroviere venuto dalla Sardegna, madre emiliana di Colorno, nascita a Genova nel 1930 e trasferimento a Milano all’età di sette anni), fin dalle prime prove poetiche, Franco Loi si serve di un efficace e inventivo dialetto milanese, come scrive Fabrizio Fantoni nell’intervento pubblicato proprio qui sul blog.
Sempre Fantoni, ci dà un altro decisivo indizio: il dialetto di Franco Loi non è frutto di una regressione materna ab origine, ma qualcosa di molto più emblematico.
Senza queste essenziali coordinate, non ci si può mettere in viaggio per circumnavigare il continente Loi.

Un po’ come nella disciplina della filologia: dietro le etichette e le targhe, palpita ciò che si muove nell’aria, quello che bisogna rendere chiaro e portare alla luce.
Franco Loi ha scritto sì in un dialetto milanese, ma in un dialetto ibrido, meticcio e fieramente contaminato da altre parlate dialettali e, soprattutto, venato da elementi popolareschi, da latinismi e toscanismi.

La produzione poetica di Franco Loi inizia a quarantré anni nel 1973, con la raccolta “I Cart” pubblicata dall’Edizione Trentadue di Milano, a dimostrazione del fatto che la letteratura non è una gara sterile o un’azione determinata dalla fretta.
Del resto, anche Gabriel Garcìa Màrquez, nato nel 1927, pubblicò “Cent’anni di solitudine” nel 1967, appena compiuti i quarant’anni.

Dopo “I Cart”, Loi ha seguito questo percorso cronologico e filologico: “Poesie D’Amore” (1974), edite da “Il Ponte”, rivista fiorentina fondata da Piero Calamandrei; “Stròlegh” (1975), pubblicato da Einaudi con la prefazione di Franco Fortini; “Teater” (1978), edita sempre da Einaudi; “L’Angel” (1981) pubblicato a Genova dalle Edizioni San Marco dei Giustiniani e con presentazione di Franco Brevini;” “Lünn” (1982), pubblicato anch’esso dalle edizioni di “Il Ponte” e tante altre opere, che formano un vero e proprio arcipelago.
Nel 2005 è stato pubblicato il libro “Aria de la memoria”, antologia di poesie scelte che vanno dal 1973 al 2002.


Vòltess (
da “Lünn”)
Vòltess, sensa dagh pés, cume se fa
quand ch’i penser ne l’aria slisen via,
vòltess per abitüden lenta, sensa sâ,
cume quj donn che per la strada i gira
la testa per un òmm, in câ, o sü la porta,
vòltess per simpatia d’un rümur luntan,
o d’una runden sü nel ciel stravolta,
vòltess sensa savè, per vuluntâ
d’un quaj penser bislacch, o per busia,
vòltess per returnà, che smentegâ
sun mì che dré di spall te rubaria
quel nient del camenà, quel tò ‘ndà via.

Traduzione:
Vòltati, senza dar peso, come si fa
quando i pensieri nell’aria scivolano via,
voltati per abitudine, lenta, senza senso
come quelle donne che per strada girano
la testa per un uomo, in casa, o sulla porta,
voltati per simpatia d’un rumore lontano,
o d’una rondine su nel cielo stravolta,
voltati senza sapere, per volontà
d’un qualche pensiero bizzarro, o per bugia,
voltati per ritornare, che dimenticato
ci son io dietro le spalle per rubarti
quel niente del camminare, quel tuo andare via.

Il dialetto di Loi è un impasto glottologico che si srotola come un arazzo finemente decorato: milanese, genovese, dialetto di Colorno e altri, in un miscuglio versicolore: ogni filo proviene da suggestioni diverse, e alla fine di ogni poesia, si riannoda secondo un ordine preciso.
Nella sua lingua si respira una spiritualità che è allo stesso tempo terrena e mistica: in questa lirica presa in analisi, si sente la polvere della strada, si osservano le rondini in cielo, pare di sentire i rumori, le bugie, i passi; si ascolta il respiro del popolo, di quegli “ultimi” che la domenica mettevano il vestito buono e apparecchiavano la tavola con le mani callose, le nocche spaccate dal duro lavoro della campagna.

Essere consapevoli dell’elemento popolaresco che permea la poesia di Loi, è la conditio sine qua non per leggerlo: un po’ come il Pasolini di “Comizi D’Amore”, che aveva esplorato, insieme a Ungaretti e Moravia, le campagne italiane per ritrovare quella purezza linguistica ormai cancellata dai costumi borghesi, così volgari e artificiosi.

Se somiglia (per la volontà di avvicinarsi alla purezza degli “ultimi”) al Pasolini di “Comizi D’Amore”, Loi non somiglia però al Pasolini de “La nuova gioventù-poesie friulane 1941-1974”; perché lo stesso Pasolini, riferendosi al friulano, aveva dichiarato di aver scritto in “una lingua non sua, ma materna, non sua, ma parlata da coloro che egli amava con dolcezza e violenza”.
La lingua plasmata da Loi invece è ben diversa: non è materna, anzi è paterna, come scrive Umberto Piersanti proprio qui sul blog, perché nella lingua di Loi è spalmata tutta la visceralità della sua vita, della sua esperienza.

La sua è una lingua tentacolare che prende e vuole tutto, e non può fermarsi soltanto alla superficie o a un esercizio di stile.

L’impasto linguistico di Loi è sciamanico, quasi mediato per ipnosi: è una reductio ad minimum, agli elementi primordiali della sua storia personale; è qualcosa che sottrae e scompone, che non aggiunge, ma che fraziona l’esperienza in tanti fonemi.
Soltanto i grandi poeti hanno saputo essere “alti” e “bassi” insieme, ed è impossibile non pensare a Dante, di cui Franco Loi era un appassionato e devoto cultore: ma non solo al Dante della Commedia, ma anche a quello immediatamente successivo al 1290, il Dante delle “Rime” (in particolare quelle allegoriche e dottrinali):

Amor che ne la mente mi ragiona (vv.1-5)
Amor che ne la mente mi ragiona
de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.

(Dante Alighieri, “Rime” in “Le Opere di Dante”, a cura di Michele Barbi, Società Dantesca Italiana, Firenze, 1960)

L’amor che “ragiona” nella sua mente è il flusso spontaneo della poesia, che rompe costantemente gli argini e sgorga, in un misticismo che deriva da una forza che trascende.
Una forza che “ditta dentro”.

E qui ci viene di nuovo in aiuto Dante: nel XXIV canto del Purgatorio, quando Dante incontra l’esponente della scuola siculo-toscana Bonagiunta Orbicciani da Lucca nella sesta cornice (quella riservata ai golosi), i due discutono sulla natura della poesia.
Che cos’è la poesia? Esercizio stilistico e retorico, oppure una forza che si muove spontaneamente e travolge il poeta?

Questo è uno dei quesiti dottrinali più antichi della storia della poesia, della letteratura mondiale e anche della filologia: leggendo i versi danteschi, appare subito chiara anche la posizione di Loi.

Dante scrive così, nel canto XXIV del Purgatorio, ai versi 54 e 55:

Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando

L’Amore che “ditta dentro”, che soffia la sua potenza nell’animo del poeta, è la Poesia.
In Dante e in Loi la Poesia, la Teologia, la Filosofia, sono entità concrete e da chiamare col proprio nome e con lettera maiuscola.
L’Amore non è entità astratta: sia in Dante che in Loi, l’Amore “move ‘l sole e l’altre stelle”, e suggerisce al poeta le parole, il tono e la lingua, che non devono adattarsi a nulla, ma sono già presenti nell’architettura emotiva del poeta.

Anche il particolare dialetto di Loi, è frutto di una densità emozionale e psicologica, un coagulo di esperienze forti: è decisamente qualcosa che proviene da dentro, da punti imprecisi e illuminati del corpo.

Pensando alla tradizione della poesia dialettale in Italia, il parallelismo con Carlo Porta o Giuseppe Gioacchino Belli potrebbe sorgere spontaneo; ma la personalità a cui Loi è più vicino, è senz’altro quella di Belli, per vocazione e intenti.

Carlo Porta (1775-1821) si serviva del dialetto per compiacere i ceti colti e i circoli ristretti del progressismo milanese, di chiara matrice illuminista: la scelta della lingua era un modo per distaccarsi da una letteratura dal sapore accademico e avvicinarsi alla realtà.
Ma era davvero una realtà vibrante, la sua? O piuttosto, il suo dialetto era soltanto una patina, pronta ad avvolgere le parole ma non a possederle del tutto?

Belli (1791-1863) invece, era un Giano bifronte: da un lato, suddito della Roma papalina; dall’altro, verace cantore della città eterna, lontano dai circoli del potere e dagli uffici pontifici.

Non aveva nessuna élite a cui appoggiarsi, Belli: il suo vernacolo era un modo per rappresentare quel popolo disincantato e ingenuo, quella plebe attaccata a una fede cieca e quasi animistica.
La stessa fede che Loi deve aver visto, toccato e respirato nelle campagne, tra gli inurbati milanesi e gli immigrati delle campagne, portatori di tradizioni ancestrali.
Quell’umanità pura e angelica.

Già, l’angelo, leitmotiv e parola d’ordine della poetica di Franco Loi.
Ma chi è l’Angel? Qui ci viene in aiuto, ancora una volta, la preziosa intervista fatta da Luigia Sorrentino a Franco Loi e riportata qui sul blog, da cui non si può prescindere se si vuole conoscere davvero il poeta e “mettere una lente di ingrandimento sopra il suo cuore”, come scriveva Palazzeschi.
Luigia chiede a Franco “Chi è l’Angel?”, e non c’è modo migliore di conoscere la risposta se non quello di estrarla dalla bocca viva del poeta.
“L’Angel racconta la storia di un personaggio che crede di essere un angelo. E in quanto crede di essere un angelo lui ama tutti… fin quando un giorno uno gli dice: “Ma tu come mai sei sempre così generoso, pensi sempre agli altri e non pensi mai a te stesso?” E lui dice: “Perché sono un angelo” e crede di avere anche memoria del paradiso”: così dice Loi a Luigia, rispondendo alla sua domanda.
Misticismo, infanzia e sapore quasi mitico: e se l’Angel fosse un’entità, concreta ed ectoplasmatica al tempo stesso, capace di incarnarsi nel nostro spirito fanciullesco?
Certo, verrebbe automatico il paragone col fanciullino pascoliano, ma Loi compie un passaggio in più, perché il suo Angel ha memoria del paradiso a cui è stato strappato; il suo Angel da quello stesso paradiso è precipitato, e si è scontrato con la violenza del mondo, un mondo che è un pasticciaccio di ideologie e uomini senza memoria.

(Da L’angel, parte seconda, LVIII)

Ma s’an sbaliâ el Crist e pö ‘l Lenin,
sè ‘l vör un àngiul che pö l’è ‘n grass de rost?[3]
I bun resun în pan dumâ per chi
cun la resun ghe magna dì e nott,
ma l’òm cum l’òlter òm el se fa tost,
el g’à paüra a dì quèl che l’infescia,
el se fa sü, el cünta ball, el tolla,
e tì cuj tò resun te sé cundî.
Dunca a fà l’àngiul ghe poch de rampegà,
ché l’àngel l’è la sulfa del vèss sul,
de ‘végh paüra che l’òm el te martèla,
paüra enfin che ghe sia mai resun
e mai l’ümanitâ te sia surella,
ché nüm se sèttum denter ‘na presun
e se fèm àngiul per speransa al sû.

Traduzione:
Ma se hanno sbagliato il Cristo e poi Lenin, / cosa può farci un angelo, che poi è meno di niente? / Le buone ragioni sono valide soltanto per quelli / che la ragione la frequentano giorno e notte, / ma l’uomo con l’altro uomo si fa duro, / ha paura di confessare ciò che lo tormenta, / s’imbroglia da solo, racconta menzogne, scappa, /e tu con le tue ragioni sei fatto fesso. / Dunque a far l’angelo c’è poco da raccogliere, / ché l’angelo ha il destino della solitudine, / di aver paura che l’uomo lo aggredisca, /paura infine che non ci sia mai una ragione / e mai l’umanità ci sia sorella, / ché noi ci sediamo dentro una prigione / e se facciamo gli angeli è per avere una speranza.

 

Il dialetto del Loi agens e auctor dell’”Angel” non è mezzo: è corpo.
E del resto, lui stesso lo aveva dichiarato che “la parola della poesia non è mezzo, è corpo. Fosse solo mezzo non darebbe emozione”, in “Considerazioni attorno alla lingua della poesia”, nel numero 3 di “Diverse Lingue – Rivista Semestrale delle Letterature Dialettali e delle Lingue Minori” del 1987, una rivista (ormai fuori catalogo e non ordinabile) che si occupava della teoria della letteratura dialettale e delle minoranze linguistiche, nonché di saggi teorici, critica e pubblicazioni d’inediti.

Forse quello stesso Angel siamo anche noi lettori, orfani di un qualcosa che non ci è dato sapere.
L’Angel siamo proprio noi in quanto comunità, quando precipitiamo dai nostri personali paradisi, quando ci rendiamo conto che ci mancherà tantissimo una personalità, come quella di Loi, capace di fondere in un connubio naturale la poesia e la vita, come il frutto e la scorza abbracciati saldamente, indistinguibili.

Spesso si pretende, dai poeti, un’alterità.
Si pretende da loro un distinguo, un confine tra la vita e la poesia: una sobrietà e un contegno quasi pudici.

In Loi, questa pudicizia e questa sobrietà artistica non era presente, perché la sua lingua e la sua poesia erano così totalizzanti da accecarlo e renderlo visionario: in lui vi era una chiaroveggenza che continuerà ancora a riflettersi su questa epoca, spingendoci a “essere migliori con più volontà”, come cantava Franco Battiato.

Perché tutto in Loi era poesia e rituale letterario, una sorta di sacrificio, spirituale e pagano al tempo stesso, sull’altare della vita.

Ed è per questo che Loi ci mancherà così tanto.
E per lo stesso motivo ci volteremo, durante molte notti, a cercare di nuovo il suo volto.

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