Benedetti, “Un corpo a corpo con la vita, con la lingua”

Tutta una vita per chi vi deve ricordare. Su Tersa morte di
Mario Benedetti

di Massimiliano Mandorlo

Un senso di umile e ostinata accettazione davanti alla morte attraversa Tersa morte di Benedetti, quasi in forma di testimonianza. Fin dall’essenzialità del titolo si possono cogliere i tratti, lucidi e taglienti, di questa sofferta osservazione della vita umana nel suo «continuo affaccendarsi», nei suoi minimi, concreti e dolorosi dettagli: «il malato ai due polmoni / i pantaloni larghi, /il viso con la pelle attaccata alle ossa», «il condizionatore Hisense», «l’abito blu / che mi avevi regalato e tutto il ricamo /del foulard», «la coperta sui piedi», fino ad arrivare a particolari anatomici descritti con nudo realismo: «mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi, / la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti […] Così fragile il tuo sorriso, / lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque». Quello di Benedetti pare essere un corpo a corpo con la vita e con la lingua, nel tentativo di superare una dolorosa impasse in cui riaffiorano con durezza e commozione, senza enfasi od orpelli, i ricordi indelebili di una vita: «Le parole non sono per chi non c’è più. / Si commuovono e possono dire il viso morto. / Gli occhi erano quelli che mostrava, /il vestito sepolto quello visto altre volte. / Vedere che non ci sei più, non dire niente».

Sembra che Benedetti, pur con le dovute distinzioni, faccia propria in Tersa morte la sofferta “immobilità del mutamento” che caratterizzava il Luzi di Onore del vero ricondotto, dopo il secondo dopoguerra, alla necessità di una dizione più colloquiale e aperta al mondo: «Che regna nella stanza/ è il silenzio del testimone muto / della neve, della pioggia, del fumo, / dell’immobilità del mutamento» (Come tu vuoi). Di fronte all’«assedio» della mortalità che toglie fiato e respiro al vivere, il soggetto pare intrappolato in una condizione di raggelata immobilità, come si evince in numerosi luoghi di Tersa morte: «il corpo cieco e obbligato a stare», «l’acqua dello stare qui», la pioggia che resta «a metà del cielo», «il viso inerte», «i gambi sdraiati sotto le braccia fredde», «un altro novembre sta seduto nel vuoto», il bambino che «gli occhi non muove», «le suole che soffrono / sul pavimento, il bicchiere che resta», «inerti nella polvere», «nessuna immagine o parola», la «vita nella sua paralisi», «secche e immobili nella luce sul terrazzo / le montagne appese allo stendi panni», il «viso ghiacciato […] / che non parla, che non si muove». In un paesaggio perlopiù autunnale e invernale, dalle scarne e monotone tonalità cromatiche («sottobosco ingiallito», «bianco pestato in un amaro sale grigio», «bianco e nero», «neri capelli», «azzurro cupo») fanno però eccezione colori vividi, legati a presenze umane e naturali: «lo sguardo blu», il colore «blu» del vestito della madre, «occhi caldi, rossi» e infine gli accesi cromatismi di Fiaba, sorprendente prosa poetica che rappresenta forse un unicum nella raccolta: «fiori azzurri» di un «colore delicato e purissimo», con «stami umidi e appena / un po’ rossi», «il rosso confuso al verde dei sepali e alle foglioline dei gambi», una «luce su quell’unica corolla» e «un colore bianco» che «passava e ripassava».

La lingua di Benedetti, apparentemente piana e colloquiale, presenta al suo interno dei vuoti che la insidiano, sconvolgendone l’equilibrio: anacoluti, frasi ellittiche, incisi e sospensioni, come se frammentate memorie riemergessero a tratti nel tessuto linguistico: «E seduta contro la parete… / morto il padre, morto io… / Un aborto, diciott’anni… / E senza sapere, senza volere / il sangue, / tanto era il sangue, tanto» (Marta). Le numerose anafore presenti nei testi si estendono spesso ad intere frasi, quasi a esprimere l’insistenza di una ricerca e di una domanda anche nel vuoto incolmabile lasciato dal dolore della perdita, come accade nel testo conclusivo della raccolta: «È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia». Pur se «futilmente presente», la parola poetica riesce talvolta a strappare terreno all’afasia, rivestendo di una luce umana anche il dolore: «Tutta una vita / per chi vi deve ricordare, per chi vi piange. / E piange la parola che riesce a dire».

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