Poesia

di Luigia Sorrentino. Il primo blog della Rai dedicato alla poesia

Poesia

“Padre morto, ci sono altre generazioni”

Mario Benedetti, foto di proprietà dell’autore

di Giovanna Rosadini

Pur essendo vissuti nella stessa città, Milano, ed avendo fatto parte entrambi del piccolo mondo della poesia, che comprende diverse conoscenze e amicizie comuni, non ho mai conosciuto Mario Benedetti. Il quale, recentemente scomparso dopo essersi ammalato del morbo che in questo periodo ci assedia tutti, era già morto una volta nel 2014, quando a un infarto seguì un coma farmacologico dovuto a ipossia cerebrale da cui non si è mai più ripreso, perso in un limbo della coscienza. A suo tempo, avendo vissuto un’esperienza simile che, paradossalmente, nel mio caso si è risolta (sono stata molto fortunata) nel recupero della scrittura poetica, anzi nella sua sempre negata esplicitazione, detti qualche consiglio di natura medico-riabilitativa a Tommaso Di Dio, che gli è stato amico e, insieme alla famiglia, lo ha assistito sino all’ultimo. Però posso dire di averlo incontrato nella lettura dei suoi testi, essendo lui stato un poeta imprescindibile di questo inizio di secolo/millennio. E mi riferisco in particolare alla laconica orizzontalità di Umana gloria (un solo verso, quasi un’inquietante premonizione, vale il libro: “E’ stato un grande sogno vivere/e vero sempre, doloroso e di gioia.”), la scarnificata verticalità di Pitture nere su carta (a proposito del quale Maria Grazia Calandrone intitolò emblematicamente la sua recensione Quello che mi pronuncia è il nome di tutti) e, soprattutto, l’aver trasceso il limite comunicativo insito nella parola nel suo ultimo libro, Tersa morte. Continua a leggere

Benedetti, “Un corpo a corpo con la vita, con la lingua”

Tutta una vita per chi vi deve ricordare. Su Tersa morte di
Mario Benedetti

di Massimiliano Mandorlo

Un senso di umile e ostinata accettazione davanti alla morte attraversa Tersa morte di Benedetti, quasi in forma di testimonianza. Fin dall’essenzialità del titolo si possono cogliere i tratti, lucidi e taglienti, di questa sofferta osservazione della vita umana nel suo «continuo affaccendarsi», nei suoi minimi, concreti e dolorosi dettagli: «il malato ai due polmoni / i pantaloni larghi, /il viso con la pelle attaccata alle ossa», «il condizionatore Hisense», «l’abito blu / che mi avevi regalato e tutto il ricamo /del foulard», «la coperta sui piedi», fino ad arrivare a particolari anatomici descritti con nudo realismo: «mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi, / la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti […] Così fragile il tuo sorriso, / lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque». Quello di Benedetti pare essere un corpo a corpo con la vita e con la lingua, nel tentativo di superare una dolorosa impasse in cui riaffiorano con durezza e commozione, senza enfasi od orpelli, i ricordi indelebili di una vita: «Le parole non sono per chi non c’è più. / Si commuovono e possono dire il viso morto. / Gli occhi erano quelli che mostrava, /il vestito sepolto quello visto altre volte. / Vedere che non ci sei più, non dire niente». Continua a leggere

Le parole hanno fatto il loro corso

Mario Benedetti, poeta italiano

La pietas di Mario
di Alberto Casadei

 

Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque

(da Tersa morte, Mondadori, 2013).

 

Questo componimento rappresenta Mario Benedetti attraverso i nuclei generatori della sua poesia. Il primo gesto è quello del separare o disperdere o disgregare: l’essere unito in una determinata condizione, per esempio quella data dal proprio nome, è solo un caso o un errore. Bisogna credere alla coesistenza di realtà diverse, non ai tentativi di fonderle per dare loro una “continuità”, ossia un senso. Così, fin dall’apertura di Umana gloria (2004), “Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi”.

È un atteggiamento riconducibile ai filoni schopenhaueriani in vario modo consolidatisi nel XX secolo. A Mario erano cari Michelstaedter e Bataille: seguendoli, riflette tra l’altro sul valore di “morcelé”, la condizione del frammento, l’essere frammentato in sé (Materiali di un’identità, 2010, p. 12). Il primo gesto della sua poesia non è l’“esporre i frammenti”, come nella grande tradizione umanistica alla Eliot, è “diventare un frammento”, proporsi nella condizione di verità che non è data dall’esterno, da un credere ad Altro o anche alla razionalità autosufficiente, ma è raggiunta dal toccare ogni volta il nadir, il “subietto dei nostri elementi”, il pezzetto casuale e irriducibile.

In questa direzione è andata tutta la poesia di Mario con Pitture nere su carta (2008), il libro più celaniano della sua opera. Nella ricerca dei fondamenti disgregati, capita di doversi confrontare con l’idea di Dio. Le due Supernove sono il frutto di questo incontro, mediato dal Dante dell’Empireo (pochi altri artisti hanno osato confrontarsi con quella parte del poema sacro), e il risultato è una semplice e perentoria riscrittura: “de l’alta luce che da sé è vera” diventa “eco di luce che non da sé è vera”. Quanto creduto per fede non esiste più, ma una qualche verità resiste come eco. Continua a leggere

La stanza dei poeti

Mario Benedetti e Luigia Sorrentino a “Ritratti di poesia”, Roma, 28 gennaio 2014. Credits ph. Dino Ignani

E’ stato un grande sogno vivere
di Luigia Sorrentino

Se io dicessi: “Questa è la stanza dei poeti”. Quanti ne entrerebbero e quanti ne uscirebbero?

(Silenzio)

Che cosa determina e definisce il poeta e la poesia?

(Silenzio)

Il successo in vita di una persona che scrive poesie, è decisivo?

(Silenzio)

Quando il valore di un poeta o di una donna poeta è indiscutibile?

(Silenzio)

Valgono forse premi, riconoscimenti a definire il valore di un poeta o di una donna poeta?

(Una voce, la mia)

Forse in alcuni casi sì. I Premi e i riconoscimenti internazionali possono avere un valore. Continua a leggere

Qui durano i libri

Mario Benedetti, credits ph Dino Ignani

 

di Guido Mazzoni

Nessuno conosceva la fragilità meglio di Mario Benedetti. Dalla fragilità discende il suo sguardo sul mondo, che indugia sul nulla cui ogni persona o cosa è destinata e al tempo stesso sullo stupore di essere vivi. «Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia: |quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini», si dice dei vicini che sono venuti a vegliare il padre morto in uno dei testi più belli di Umana gloria. Angoscia e stupore hanno la stessa origine; nascono dalla certezza che ciò che esiste è transitorio, dalla «paura in ogni mano, o braccio, passo, | che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano». In questo senso la prima poesia di Umana gloria contiene già tutti i temi dell’opera successiva:

Lasciano il tempo e li guardiamo dormire,
si decompongono e il cielo e la terra li disperdono.

Non abbiamo creduto che fosse così:
ogni cosa e il suo posto,
le alopecie sui crani, l’assottigliarsi, avere male,
sempre un posto da vivi.

Ma questo dissolversi no, e lasciare dolore
su ogni cosa guardata, toccata.

Qui durano i libri.
Qui ho lo sguardo che ama il qualunque viso,
le erbe, i mari, le città.
Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi. Continua a leggere

Il tempo verticale di Mario Benedetti

GIAN MARIO VILLALTA RICORDA MARIO BENEDETTI

Ogni ricordo di Mario Benedetti che mi viene in mente porta con sé un luogo, non solo gli spazi aperti, i “posti” belli o brutti, ma a volte la stanza di una casa o il tavolo di un bar, il vagone di un treno, l’interno di un’auto. La sua presenza è sempre stata intensa, per me, di cose da dire e da tacere, di vicinanza o dispetto, di un’intensità che coinvolgeva tutto quello che c’era intorno. Anche quando si parlava, come si dice, “per parlare”, o quando si dice di “parlare di niente”, quando si sta insieme perché c’è qualcosa che accade, accade e basta (basta perché l’accadere è di più di qualsivoglia sua descrizione, e allo stesso tempo perché davvero basta, non gli occorre altro).

E’ questa l’amicizia, che si rivela a noi stessi quando c’è una continuità della voce dell’altro nei nostri pensieri. Quando anche il suo corpo parla e muove intorno a sé uno sguardo che ci sorprende e – sì, davvero – ci com-prende. Non importa se poi i caratteri portano a scontrarsi, o il sentire non è in sintonia, o se ancora qualcosa dell’altro ti è addirittura, a volte, insopportabile. Mario non è mai stato una persona empatica, anzi, proprio perché lo era al massimo grado, temeva e cercava di prendere distanza dall’empatia. Incorrendo per questo talvolta in equivoci. Anche se poi ti capitava di sentirgli sgorgare inattese autoaccuse, dichiarazioni enfatiche, scuse non richieste e imbarazzanti richieste di comprensione. Ciò non gli impediva di essere tagliente e odioso qualche ora più tardi. Non tollerava che fosse sprecato un solo pensiero, una sola occasione di vita. E non accettava che non si assaporasse o detestasse qualsiasi cosa al massimo, non accettava che non ci si esponesse o nascondesse al massimo.

Aveva le sue preferenze, le sue idee, ma quello che contava era che non si doveva mai mollare la presa sull’istante che si stava vivendo. Il tempo per lui non scorreva soltanto in avanti, ma aveva una dimensione verticale, scoscesa, che in ogni momento chiedeva a sé e a te di esserci, lì dove eravate, lui con tutto sé stesso e tu con tutto te stesso. Per questo “parlare per parlare”, “parlare di niente” a volte era di più che parlare di un qualche altro argomento, di qualcosa che si poteva inquadrare in un contesto e così tenere a distanza da sé. Come facciamo spesso, anche troppo. Mario era capace di gesti detestabili come di inattese affettuosità: essere lì con te in un modo che ti stanava da te stesso, solo questo gli importava, metterti di fronte alla percezione del tuo essere dov’eri, in quel momento, in quel respiro verticale del tempo, come fa la sua poesia. Continua a leggere

La testimonianza poetica di Benedetti

Si deve morire, e non sembra vero
Pitture nere su carta
, MARIO BENEDETTI


IL RICORDO DI MAURIZIO CUCCHI 

Avevo conosciuto i suoi versi, prima della persona, e ne avevo subito apprezzato il valore di una attenta, voluta ricerca di normalità autentica. Una parola, la sua, capace di registrare il sentimento quotidiano dell’esistere, la sua umile bellezza, di cui sapeva cogliere il senso tra esperienza diretta e presenze trasmesse nel tempo da una realtà locale, partendo da quella delle sue origini friulane, a cui non poteva non essere legato. Siamo poi diventati amici, abbiamo passato ore molto vive insieme, abbiamo lavorato insieme, anche, nel segno di una fiducia credo davvero reciproca e solida.

La cattiveria del destino aveva posto fine alla sua opera già molto prima, purtroppo, che alla sua stessa vita. E parlo di un’opera poetica che si era utilmente mossa nella necessità di un progetto interno che lo aveva portato da un dire d’ampio respiro, aperto nel suo svolgersi a un passo dalla prosa, a una scrittura resa decisamente scarna e a suo modo impervia. Fino a una sintesi in Tersa morte, di cui avremmo voluto poter conoscere gli ulteriori sviluppi. Continua a leggere

Mario Benedetti, “Tutte le poesie”

Foto di copertina di Dino Ignani

A cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta

Mario Benedetti è uno dei poeti più intensi e originali della nostra letteratura. Sin dalle prime prove, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, la sua scrittura in versi è cresciuta seguendo una tenace fedeltà alle cose, soprattutto le più comuni e dimesse: quelle che entrano a far parte dell’esperienza di un individuo nel tempo che gli è dato in sorte, accumulata giorno dopo giorno, anno dopo anno. E proprio nella parola esperienza si trova la chiave del percorso del poeta, che pone due problemi essenziali: come si possa rappresentare nella scrittura in modo autentico il vissuto di un individuo, senza trasfigurarlo in pose eroiche, istrioniche, profetiche, o attribuire loro una vaticinante investitura civile; e come la poesia possa farsi spazio etico di conoscenza e di insegnamento attraverso la rappresentazione dell’esistenza stessa.

Questo volume raccoglie per la prima volta l’intera opera poetica di Mario Benedetti, da Umana gloria (2004) a Pitture nere su carta (2008), Tersa morte (2013) e Questo inizio di noi, inedito in volume (2015). Continua a leggere

La realtà nella poesia di Mario Benedetti

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Nota di Luigia Sorrentino 
Perché credo fermamente che l’opera di Mario Benedetti sia di un valore unico nel panorama della poesia contemporanea? Perché leggendo la sua poesia ci troviamo di fronte a un nuovo modo di vedere la realtà, necessario a chi intenda raggiungere una definizione compiuta della nostra condizione nella nostra epoca.
Il mondo reale che questo poeta ci mostra fin da “Umana Gloria” (Mondadori, 2004) – un’opera che riassume e condensa tutto il suo lavoro precedente pubblicato in plaquettes – trova la sua peculiarità e la sua forza nello sperimentare, attraverso la parola, il limite della realtà, una realtà che il poeta stesso definisce “ammalata”. Questa caratteristica la ritroviamo in tutti i suoi lavori di poesia, “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008), “Materiali di un’identità”, (Transeuropa, 2010), e anche nell’ultimo, “Tersa morte”, (Mondadori, 2013). Continua a leggere

Mario Benedetti, “Tersa morte”

Anteprima editoriale
a cura di Luigia Sorrentino

Mario Benedetti, “Tersa morte”,  I poeti dello Specchio, Mondadori, 2013

E’ in uscita nelle librerie italiane, l’ultima opera di poesia di Mario Benedetti, Tersa morte. Un’opera matura, forse la più intensa del poeta friulano che scrive: “Le parole non sono per chi non c’è più”.

Qui accanto Mario Benedetti nel ritratto che comparirà sul retro del libro.

Il teatro degli spettri
di Tommaso di Dio

Mai la poesia di Mario Benedetti è stata così chiara; mai, in questo poeta, il tentativo dello stile ha cercato di essere così asservito al progetto di spartire con il lettore il senso profondo di un’esperienza estrema, dolorosa, quotidiana, comune. In questi versi, l’esperienza umana del morire è “tersa”, chiarificata. Al contrario di quanto era avvenuto nel precedente libro, “Pitture nere su carta”, qui è il tempo il protagonista occulto; il tempo che scandisce, accelera, illude, frena e si inarca sulle tappe di una consapevolezza che cresce pagina dopo pagina. Per quanto è dato all’umano vivere e all’umano scrivere, Continua a leggere