L’uso materico del linguaggio nella poesia di Mario Benedetti

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

Scarto non minimo
di Edoardo Zuccato

 

Commemorare la scomparsa di un poeta è più facile per chi lo ha conosciuto bene di persona, mentre per valutarne l’opera non è detto che ciò sia necessariamente un vantaggio. Ho incontrato solo occasionalmente Mario e l’ho frequentato in prevalenza nei suoi i versi. Non ho quindi ricordi personali da offrire ma solo qualche riflessione critica sulla parabola complessiva della sua opera. Rispetto a Stefano Dal Bianco, l’altro animatore del progetto di rinnovamento poetico elaborato da Scarto minimo negli anni Ottanta, Benedetti ha conservato nella sua poesia più Novecento. Il verso “che si allunga sempre più”, come mi disse lui stesso una volta negli anni Novanta, è collocabile all’interno di una tradizione di spostamento della poesia verso la prosa, nel suo caso provocando un cortocircuito fra forma antilirica e sguardo lirico. Il rasoterra di Benedetti era funzionale al suo sentimento della vita, quella mestizia cinerea che più di ogni cosa rimane addosso a chiunque legga un suo libro. L’orizzontalità del linguaggio è scossa da salti logici, occasionali slogature sintattiche e frammentazione del discorso, tratti stilistici divenuti dominanti nelle ultime due raccolte, che recuperano anche una dose di citazionismo. Frantumazione, balbettii e uso materico del linguaggio, con accumuli nominali e scarsità di verbi, spostano la poesia verso la stasi della pittura, con un solo movimento sotteso, quello verso la mineralizzazione.

In un certo senso si può dire che lo stile di Benedetti sia andato a ritroso, ripiegandosi su di sé per diventare più novecentesco con il passare del tempo. L’azione di distacco dal novecentismo, se a questo mirava il progetto di “Scarto minimo”, mi pare perciò meglio compiuta in Dal Bianco, che ha lasciato da parte slogature e frammentismo pur muovendosi in un’area di stile a bassa intensità ritmica. L’evoluzione di Benedetti fa pensare, almeno nel suo caso, che quel progetto fosse più un obbiettivo programmatico che una spontanea necessità. Immutata in tutto il percorso resta la sua sensibilità di poeta liminale. Nella vastità del reale il suo territorio elettivo è stata la fascia nei pressi del confine, una collocazione a cui non può essere estranea la sua sfortunata condizione di salute, anche se in genere le difficoltà estreme non cambiano il carattere, piuttosto ne fanno emergere i tratti portanti. La consapevolezza della fragilità delle cose può dare esiti estetici molto diversi. Presso i greci era proprio la brevità dell’esistenza a rendere il loro effimero splendore più abbagliante. Per esprimere un sentimento affine Benedetti ha usato il grigio e il nero, che in mille sfumature riassumevano per lui tutti i colori. Nell’ossessività di questa cifra sta la sua forza come pure il suo limite.

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