Sonia Gentili, “I quattro gesti della creazione”

Sonia Gentili

Dalla quarta di copertina

I quattro gesti della creazione sono quelli con cui un mondo, un’opera d’arte, un essere vivente vengono alla luce, vivono e poi tornano ad dissolversi nel buio.
Le quattro sezioni del libro – Nascita, Nome, Tempo, Buio – rifiutano il mito della creazione divina – il gesto fuori dal tempo, imperturbabile – e abbracciano la realtà della generazione umana il cui gesto – dare alla luce – è immerso nel tempo, nel dolore, nel cerchio della vita e della morte.

Di quest’opera l’autrice ha in preparazione una versione per il teatro, che esplora il nesso tra parola poetica e gesto corporeo.

 

 

Da: Nascita

Genesi

In principio lo spirito di dio era sull’abisso
in cui cantavo ed egli non discese, solo
mi prese ed era forte la sua mano e dura
poiché mi separò dalla mia voce

la voce era l’abisso su cui dio
volava perdendosi
ubriacandosi nel nero
del cielo chiuso
a cono e là
inguainandosi
ferendosi
afferrandosi
punendosi
con la sua dura
mano
gridava di dolore ed era
un canto

corona, angeli in coro
e rose e spine
era suo il canto
ferito come carne
dalle spine

la mano di dio era l’abisso
della voce da secoli
finita
da secoli ubriacata
da secoli rinchiusa
nell’infinito nero chiuso a cono
dalle mani

e non è forse dio questo infinito
cadere dentro il nero che chiude
e spranga nella sua gola mistica
ogni voce

non è forse dio questo infinito
canto reciso che colpisce muto per
recidere
ogni voce

non sono forse io questo
sorriso invisibile che vola
come nel nero il canto
d’una voce sola si leva
e trema
e cade e
danza ed è
una madre
stanca che piange e
consola

non è forse mio questo canto
finito che cantando congiunge
inizio e fine

Le acque del mondo (madre e figlia)

meglio restare sulle cime
della notte guardando
il mondo che riposa e non
svegliarlo stringendo
la tua mano, piccolissima
figlia
meglio
non conoscere le acque
dolcissime del mondo
dove si scende nudi
e si sopporta
il vento
dove ogni filo
d’erba splendente che accarezza
la pelle taglia e la sua forza
non conosce
scudi

meglio non chiedersi se umano
è il sorriso con cui accogli
la mia mano, piccolissima
figlia, e ogni mano
che ti stringe, sia
tradimento o gioco
o trappola o
battaglia

tu mi costringi a ricordare
ciò che sa il buio
della bocca e che rimane
da secoli muto nell’arco
palatale: che insensata
e breve è la canzone
della terra, tanto
quanto leggera
e chiara la luce posa
sul crepuscolo ed illude
con quel rosa le case
ormai già
scure

il tuo viso è il rosa
della luce sul nero
delle case dove
il giorno dura
come una beffa o un gioco
della sera eppure
piccola, abbandonata
come un fantoccio oscuro
nel chiarore,
la notte aspetta
di riconoscerci chiamandoci
per nome

La statua

La statua che da secoli dischiude,
reggendola, la conca
del cielo e della morte, la statua
abbagliante che non muta ora
richiude nelle clavicole le coppe
del giorno per aprire il bianco
del volto alla tenebra e il vuoto
degli occhi al suo passaggio

negli occhi la notte è un lento
fiume
negli occhi il cielo vuoto
come tempio
tra le braccia il cielo chiaro
e ignoto
tra le dita la polvere
del tempo

dalla seconda sezione intitolata Nome:

Il nome

credere in un solo suono
come nome
dimenticare che il suono
è senza nome

tra credere e dimenticare
vive il nome

dal silenzio della dimenticanza
è nato il nome come sosta
muta sulla strada fino
a credere
credere
alla dimenticanza della strada come suono
lontano e non spento
nella strada

credere e dimenticare nel tuo nome
oscuro perché nato
muto e pronunciato
perché restasse
muto
grande ruota che sosti
nella notte

il nome è il lungo strascico
di seta dell’abito
bruciato
finito
abbandonato
dalla notte

la meta è un nome
e sosta nella notte

corre moltiplicandosi
la strada e i raggi
della ruota sono fermi
sono le ossa splendenti
della notte

il nome dimenticato
che hai cercato
ricordi
non ricordi
cerca ancora
era una massa
scura
era la seta
era la scia del giorno
finito
sulla strada

è ossa sotto le ruote
della notte

Voce

la voce umana
è sola ed è il coltello

è la lama nascosta
nella sabbia

la voce dell’uomo abbandonato
è il coltello lasciato
nella sabbia

non c’è mano a stringere
il coltello

nessuna mano può stringere
la sabbia

la duna è sabbia in forma
di cammello
fortuna è sabbia in forma
di granello

vola e disperde il canto tra le dune
come cenere

è il vento, che trasforma
alzando mulinelli nella sera
la cenere in sabbia, in sonno
il pianto
del bambino solo, e rende
muto il ritornello della
voce sola che sfinita gela
nella notte e si distende
indurita nel suo pianto
lucente
acuta
fatata la sua
lama

lama nascosta nel letto
della sabbia

Nella terra

Al crepuscolo cantare
e piangere: tutte
le parole vanno nella terra
sazia di visioni

ma tutte
le parole erano già
nere nel loro arco di luce, sospese
per l’attesa, per il volo e
la caduta e quando il nero
si è rovesciato dentro la vertigine
e si è lasciato vincere dal peso
dell’unico suono che tace nel rifiuto
di se stesso, allora anche
il tempo ha scoperto la sua testa
velata
di fiume
senza nascita

anche il tempo si sveste per cadere
dove tutte le parole sono nere

dove la vertigine rovescia il proprio sonno
in risveglio e tessitura del grande
nuovo ordito della luce: legioni
d’angeli e d’insetti che sguainano
ali azzurre ed abitano
il sole nella cecità bianca
delle nubi non sono
che un ricamo cresciuto
nel buio sotto
dita nere

dalla terza sezione intitolata Tempo:

Non infranto

specchio gettato lontano
e non infranto

lo specchio in cui si volta per guardarmi
l’uomo che eri e cerca
come se ancora fosse
ieri di leggere
il mio volto

specchio del suo essere stata vecchia
prima di morire ed ora
che non è più
del suo tornare
bambina

specchio del mio essere stata feto
e madre
del tuo essere stata feto
in me come in un mare ed ora
che sei nata
del tuo andare

essere ancora in questo mare
di vetro dove si
sprofonda e poi
scomparsi si torna
a navigare

ognuno è un re
tradito che scompare

il gesto è tradimento
che specchiandosi
scompare

potenza del corpo che
scompare nel vetro da cui
l’immagine
traspare

Uno specchio

Corrono nel buio dell’argento

corrono le ore, cavalli
candidi del tempo

quando impennandosi
rimangono nella prigione del gesto
e dell’istante, allora sono stemmi
araldici del tuo essere
niente, tempo, nello specchio
in cui tutto
rimane

da questo specchio nascono
soltanto immagini di specchi come
se dal fondo degli antichi
giorni salisse una grande unica
notte splendente che riflette
nell’immensa luce
spenta del suo cuore
il cercarsi, guardandosi
la faccia, del presente

Eraclitea

sommerso
è tutto

la superficie è danza
di libellule, trascorrere
del fiume in cui discendi

non c’è luogo ma tempo
già stato e là tutto
è disceso: la musica, le vele
della luce, i troni
dei ribelli, l’acqua delle tempeste
ormai domate

dalle corde sommerse che sul fiume
ieri ammainavano le vele nasce oggi
la musica

la bocca del giorno che si getta
in mare
la bocca del giorno è il margine
oscuro

tutto parla
dal margine oscuro

dall’istante che fa l’angelo
ribelle
dal cavallo senza tempo
della statua
dalle onde del mare
disseccato
dalle tane del tempo
che è già stato

veniamo dal margine oscuro
fino al giorno per tornare
a voltarci, per parlare
al buio

…….

poiché si vive già
dove si muore: nel giorno, nella bocca
di mangusta dove
intossicato da se stesso
si sgretola il serpente

poiché siamo calore che trema
in lontananza e il sonno
dei morti è il sole

il sonno è la fornace
e la battaglia

arde sepolto
fino all’alba

poi il giorno spegne i corpi
addormentati

dalla quarta sezione intitolata Buio:

Mistero

notte, scendiamo
in te in forma
di pioggia

le nostre gocce sono
i tuoi diademi

tintinnano ai tuoi polsi
le mie gocce quando
ti varco e vedo il mio restare
che è un dondolio
di nave contemplata
tra buio e buio finché
non scompare

tra buio e buio gocce come fuochi
si sdoppiano e tu ti orni
di fiamme. Sono
nomi: ossa
disperse trasformate in
nomi che ornano di fiamme
le tue bocche
dove ardono le mie
ossa disperse

fuochi e gocce, ossa
di parole il tuo
diadema

precipita ogni cosa nel tuo
buio e tu cresci più alta
e silenziosa, tu precipizio
e vetta e cattedrale
dove si prega con mani disperse
dove si siede senza gambe e piedi
dove si scende fermi come gocce
evaporate, come tracce
di pioggia arse dall’estate
perché dentro al tuo buio brucia
il sole del desiderio
di non essere mai
stati

Ninna nanna dell’allodola

nel bianco a sera l’allodola
non canta
dice il suo nome e la sua voce è il volo

l’oscurità nasce dalle ali
che spiegate
danno alla terra una carezza
d’ombra

tra gli alberi e le ali
la sera è bianca ma è certezza
d’ombra

né alberi né ali le tue braccia
d’ombra

l’ombra che tu attraversi chiuso e solo
l’oscurità che credi ombra
del volo

ogni uccello chiuso
nelle ali è solo
ogni uccello è ombra
del suo volo

il giorno ti vuole trasparente
amare credere avere e poi lasciare
tutto: accompagnare il grande
rito funebre del sole

dio padre è un assassino
trasparente

solo la madre perdona il suo
bambino che può
con le piccole dita
aprire il buio
per il riposo come un fazzoletto
e mettere la testa sul buio
che ha disteso
e piangere l’ultima luce che sui fiumi
è una zattera d’oro già lontana
rapita dai voli
dell’estate
lasciata andare dai fiumi
alle cascate

solo la madre perdona il suo
bambino che vuole
annegare nelle rapide
del sonno
sognare la certezza
del ritorno
e dormire
e sopravvivere
anche stanotte
al buio

Sonia Gentili, da: I quattro gesti della creazione, Aragno 2020, in stampa

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