POESIA, TUTTI I VINCITORI DEL XIV CONCORSO INTERNAZIONALE DI POESIA E TEATRO “CASTELLO DI DUINO”

Duino, 11-24 marzo
Tre ex-aequo per il primo premio, che va al nigeriano Chinua Ezenwa-Ohaeto, alla sudafricana Sarah Lubala e al messicano Alan Bojórquez Mendoza. Vola in Messico anche il secondo premio, vinto da Daniel Alberto Pérez Segura. Terzo premio alla croata Ines Kosturin. Premio speciale della giuria all’ucraina Yuliia Kozhukhovska. Quasi mille gli autori che hanno partecipato alla più importante competizione letteraria internazionale per giovani autori, patrocinata dalla Commissione Nazionale UNESCO dal 2009.

Sono arrivate da 57 diversi Paesi, scritte in un caleidoscopio di lingue, le poesie che hanno partecipato quest’anno al XIV Concorso Internazionale di Poesia e Teatro Castello di Duino, la più importante competizione letteraria internazionale per giovani autori dello Stivale, che la Commissione Nazionale Unesco patrocina dal 2009. Anche quest’anno i lavori della giuria, di carattere internazionale e composta da poeti, critici e docenti di letterature comparate, hanno richiesto alcuni mesi, perché peculiarità del concorso è di valutare tutti i testi in lingua originale. Ai giovani poeti è stato chiesto di ispirarsi al tema di quest’anno: “Home/Casa”, intesa come luogo fisico o metaforico da cui si parte e a cui si ritorna, il proprio paese, la “patria”, ma anche un rifugio dell’anima, insieme di memorie, consuetudini, affetti. La competizione è riservata ai poeti fino ai 30 anni di età, con una graduatoria speciale per i giovanissimi, una sezione per le scuole e una sezione teatrale.

Una cinquantina tra i giovani autori che quest’anno hanno inviato versi e pièce teatrali da ogni angolo del globo arriveranno a Trieste per partecipare, dall’11 al 24 marzo, alla Festa della letteratura e della poesia. Quattordici giornate di conferenze, letture, workshop, concerti, spettacoli teatrali ed esposizioni, nel cui ambito, il 18 marzo 2018, si svolgerà la cerimonia di premiazioni del Concorso, ospitata nel Castello di Duino, la dimora che ispirò Rainer Maria Rilke per le sue elegie.

 

Per la prima volta nella storia del Concorso quest’anno il podio va moltiplicato per tre: il primo premio se lo sono aggiudicati il nigeriano Chinua Ezenwa-Ohaeto con “My Home: May a Dawn bring a new Smile upon it” (La mia casa: possa un’alba portarle un nuovo sorriso), la sudafricana Sarah Lubala con “What to Say to the Immigration Officer When He Asks You Where You Are From” (Che cosa dire al funzionario dell’Ufficio immigrazione quando domanda “da dove vieni”) e il messicano Alan Bojórquez Mendoza con “Cita con La Muerte” (Appuntamento con la morte). Vola in Messico anche il secondo premio, vinto da Daniel Alberto Pérez Segura con “Despedidas” (Congedi). Terzo premio alla croata Ines Kosturin con “Dječje slabosti” (Debolezze infantili). A ciascuno di questi poeti va un premio in denaro di 500 euro, di cui una parte per regolamento del concorso viene devoluta dai vincitori a progetti umanitari nel loro Paese d’origine. Segnalato invece con il premio speciale della giuria “Caravel”, dell’ucraina Yuliia Kozhukhovska.

Vola in Nigeria anche la Targa Centro UNESCO di Trieste, vinta da Jonathan Otamere con “Ashes” (Ceneri), mentre la Targa Alut rimane in Italia: va al napoletano Emanuele Esempio, con “Austera”. Va a un giovanissimo autore italiano anche la Targa dedicata a Sergio Penco, compianto membro della giuria e raffinato poeta, destinata ai poeti under 16: quest’anno se la aggiudica il ferrarese Alessandro Gobbato, con “Parole di casa”.

Podio tutto italiano per la sezione teatrale del Concorso: la giuria ha assegnato un primo premio ex aequo (coppa, lettura scenica e pubblicazione) a Michael Crisantemi, di Terni, per “Io amavo quella casa” e a Francesca Venturelli (Giussago, Brescia), per “La piccola stanza a Kojo”. Secondo premio per Matteo Taccola (Livorno), con “Che il fango ci sia lieve”, terzo premio ex aequo per Michele Marro (Vernante, Cuneo), con “L’anonimo”, e Dario Pezzotti (Cimbergo, Brescia), con “La partita che finiva sempre in parità”.

Per la sezione riservata ai progetti delle scuole, infine, il primo premio, del valore di 500 euro, va stavolta diviso tra il liceo scientifico Antonio Roiti di Ferrara, per “The Poetry Art Book: Messages for Syrian Hell” e la scuola secondaria di I grado “Giacomo Bresadola”- I.C. Trento 5, per “Il villaggio della Poesia”. Il secondo premio, di 250 euro, è stato assegnato alla scuola secondaria di I grado Don Milani, dell’I.C. di Lesmo (MB), per “Esercizi di Poesia” e “L’officina delle parole”. Terzo premio ex aequo, 250 euro da dividere, alla scuola secondaria di I grado F. Rismondo di Trieste, per “Casa, metafora del nostro io”, e alla scuola secondaria di I grado Nazario Sauro dell’I.C. Giovanni Lucio (Muggia, TS) per “Casa Home”.

A testimonianza del forte impegno civile che caratterizza il concorso e per volontà di Antonietta Risolo, titolare della Casa Editrice Ibiskos Risolo, il ricavato del libro che raccoglierà le poesie dei vincitori andrà alla Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin, per i bambini vittime di guerra.

Festa della Letteratura e della Poesia e Concorso Internazionale di Poesia Castello di Duino
Trieste – Duino (varie sedi)
11-24 marzo 2018

Home

 

Nigeria

Chinua Ezenewa-Ohaeto

MY HOME: MAY A DAWN BRING NEW SMILE UPON IT
(A reaction against the deeds of ‘Boko Haram’ sect in a place in Nigeria)

A home is a place that knows the geometry of your body.
A home is a place where your heart yearns to return.
A home is like a child on whose fingers you find flowery dimples.
A home is never a city where fire grows for all things to die.

But my own home is a different home:
My home is a city where dead bodies grow,
Where houses and schools are brought down and left in ruins,
Where children play in their dreams as playgrounds are turned graveyards,
Where brothers carry dirges in their mouths and sing them like anthems,
Where sisters count on their fingers the darkness that adorns their smiles,
Where mothers are scared to birth, nurse and care or even speak,
And where fathers are too afraid to love, too afraid to live and rest.
My home is a city marked by destruction
Where bombs and shrapnel make themselves an abode.
My home is a city where fire grows for all things to die.

My home is an ocean filled with storms and fear:
You can find in it my sisters in hijabs―
Whose strings that make them whole have been broken by boys
Who drew semen in between their thighs ― drowned in the lagoons;
You can find in it my brothers in bandannas whose lives and lungs
Are smoked by mashed leaves;
You can find in it children who know laughter as strangers and who
Are beaten by hunger and decorated by dirt and are adverts for diseases.
My home is a city where fire grows for all things to die.

Yet, every night I burn incenses before sleep
Hoping that each dawn will some day
Bring a new smile upon my home:
Where people will grow to age; where love will flower and
Where fire will never grow for all things to die.

001 Nigeria
CASA MIA: POSSA UN’ALBA PORTARE NUOVO SORRISO SU DI ESSA
(Una reazione contro i fatti della setta ‘Boko Haram’ in un luogo in Nigeria)

Una casa è un luogo che conosce la geometria del tuo corpo.
Una casa è un luogo dove il tuo cuore desidera ritornare.
Una casa è come un bambino nelle cui dita trovi fiorite increspature.
Una casa non è mai una città dove il fuoco divampa in tutte le cose per morire.

Ma la mia casa personale è una casa differente:
La mia casa è una città dove corpi morti crescono,
Dove case e scuole sono abbattute e lasciate in rovina,
Dove i bambini giocano nei loro sogni mentre i parchi giochi vengono mutati in cimiteri,
Dove i fratelli intonano lamenti funebri nelle loro bocche e li cantano come inni nazionali,
Dove le sorelle contano sulle loro dita l’oscurità che adorna i loro sorrisi,
Dove le madri hanno paura di partorire, allattare, accudire o anche parlare,
E dove i padri sono troppo spaventati per amare, troppo spaventati per vivere e rimanere.
La mia casa è una città segnata dalla distruzione
Dove le bombe e le schegge fanno a se stesse un domicilio.
La mia casa è una città dove il fuoco divampa in tutte le cose per morire.

La mia casa è un oceano pieno di tempeste e paura:
Puoi trovarvi le mie sorelle in hijab ―
Le cui fibre sono tutte state spezzate dai ragazzi
Che sparsero sperma tra le loro cosce ― annegate nelle lagune;
Puoi trovarvi i miei fratelli in bandana le cui vite e i cui polmoni
Sono affumicati da foglie macerate;
Puoi trovarvi bambini che sanno ridere come sconosciuti e che
Sono battuti dalla fame e decorati dalla sporcizia e sono spot di malattie.
La mia casa è una città dove il fuoco divampa in tutte le cose per morire.

Eppure, tutte le notti brucio incensi prima di addormentarmi
Sperando che ogni alba, un buon giorno,
Porterà un nuovo sorriso sulla mia casa:
Dove la gente crescerà in età; dove l’amore fiorirà e
Dove il fuoco non divamperà in tutte le cose per morire.

South Africa
Sarah Lubala

What to Say to the Immigration Officer When He Asks You Where You Are From

Say you left in a hurry
say the days stumbled
blind
say the high grasses
say the raw-boned women
feeding babies
in the field

Say you were
twenty-two in all
say half were lost in
the first week
say you prayed to
die young
say you lived on
and on

Say the belly of the dry
season
say the lash of the earth
say you swallowed
whole countries
say you spit only ash

022 Sud Africa
Cosa dire al Funzionario dell’Immigrazione quando ti domanda da dove vieni

Dì che sei partito in gran fretta
dì che i giorni incespicarono
ciechi
dì gli alti prati
dì le macilente donne
che nutrono bambini
nel campo

Dì che eravate
ventidue in tutto
dì che la metà finirono dispersi
la prima settimana
dì che pregasti
di morir giovane
dì che sopravvivesti
e sopravvivesti

Dì la pancia dell’arida
stagione
dì la frustata della terra
dì che inghiottisti
intere regioni
dì che sputasti solo cenere

Alan Bojórquez Mendoza

Messico

Cita con La Muerte

En memoria de las personas fallecidas
por el terremoto en México, en septiembre de 2017
Llegué tarde otra vez
a la cita que me puso La Muerte

Estoy vivo por impuntual

Soy la víctima esquivada
por la piel desmoronada de la memoria

A las habitaciones
(santuarios del alma)
no les fue suficiente
la fuerza de las piernas
para estar de pie

Sólo sentí crujir la materia
para transformarse en muerte

Soy
a lo mucho
un pordiosero de la historia

Ese que recoge los pedazos después de todo
y trata de armar el rompecabezas de la vida
Ese que recolecta víveres
para alimentar a quienes perdieron más que sus hogares
Ese que olvidó el Padre Nuestro y no pudo rezar
Ese que recordó a su familia
en medio de la calle inundada por el caos
Ese que no supo dónde estaba parado
cuando el suelo le estremeció las piernas
Ese que recogió los desperdicios moviendo los escombros
Ese que hizo uso de la delincuencia para saciar otras hambres
Ese que guardó silencio
con la esperanza de escuchar vidas debajo de todo

Soy el hijo que se encuentra con su madre
El que aún vive y aún respira
El que escucha el murmullo sin cesar
El que sobrevivió para contarlo todo

Soy el testigo de todos los que llegaron puntuales a la cita

480
Appuntamento con la morte
In memoria delle persone decedute
a causa del terremoto in Messico, nel settembre 2017

Arrivai tardi un’altra volta
All’appuntamento che mi dette la Morte
Sono vivo per un disguido
Sono la vittima risparmiata dalla pelle crollata della memoria
Agli edifici (santuari dell’anima) non fu sufficiente la forza delle cosce
per rimanere in piedi
Sentii soltanto la materia scricchiolare per trasformarsi in morte
Sono tutt’al più un mendicante della storia
Quello che recupera le macerie alla fine di tutto
E cerca di ricostruire il puzzle della vita
Quello che raccoglie viveri
Per alimentare coloro che persero più che le loro case
Quello che dimenticò il Padre Nostro e non poté pregare
Quello che ricordò la sua famiglia
In mezzo alla strada inondata dal caos
Quello che non sapeva dove stava in piedi
Quando il suolo gli fece vacillare le gambe
Quello che tirò fuori i dispersi rimuovendo i detriti
Quello che fece uso della delinquenza per placare altre fami
Quello che rimase in silenzio
Con la speranza di udire vite al di sotto di tutto

Sono il figlio che s’incontra con sua madre
Quello che ancora vive e ancora respira
Quello che ascolta il mormorio senza posa
Quello che sopravvisse per raccontare tutto
Sono il testimone di tutti coloro che arrivarono puntuali all’appuntamento

131 México
Daniel Alberto Pérez Segura

Despedidas

Pero yo ya no soy yo,
ni mi casa es ya mi casa.
Federico García Lorca

Para Alina, a la distancia

Varias veces
me despedí
agitando la mano
buen viaje, amor,

pero decir
hasta pronto
se ha vuelto
un doloroso ritual

porque
algunas palabras
tienen filo, cortan,

además,
cuando te vas,
dejas diciembre
recien nacido
a la deriva

y sé bien que
cuanto más
te acerques a tu casa
más lejos estaré
yo de la mía.

131 Messico

Congedi

Ma io non sono più io,
né la mia casa è più la mia casa.
Federico García Lorca

Per Alina, alla distanza
Varie volte
mi sono congedato
agitando la mano
dalla banchina
per augurarti
buon viaggio, amore,

ma dire
arrivederci
è diventato
un doloroso rituale

perché
alcune parole
tagliano come lame,

Inoltre,
quando vai via,
lasci dicembre
appena nato
alla deriva

E ben so che
quanto più
ti avvicini alla tua casa
più lontano sarò
io dalla mia.

Croazia
Ines Kosturin

DJEČJE SLABOSTI

Kad sam bila dijete
moja je majka očajavala
jer sam često znala zaspati kao hrčak
sa zalogajem hrane
skrivenim u obraz
Ručak je imao njen mir
kad smo oko sebe mijenjali zidove kao kapute
Godinama potom
podbuhli obrazi gutali su ceste
umjesto krekera
i obilno ih zalijevali propuhom
kojeg su stvarali izlasci i odlasci i povratci
U pauzama između lutanja
očeva preslaba, a preslatka kava i
svježe izglačano rublje
dolazili su na svoje

Na pitanje jesam li smršavila
odgovaram
tanjurom svježeg kelja iz mog vrta
i novim podacima na osobnoj iskaznici

Croazia
DEBOLEZZE INFANTILI

Quando ero piccola
mia madre si disperava
perché spesso mi addormentavo come un criceto
con un boccone di cibo
nascosto nella guancia.
Il pranzo aveva la sua pace
quando cambiavamo le pareti intorno a noi come cappotti.
Per anni, dopo,
le guance gonfie inghiottirono strade
invece di cracker
innaffiandoli generosamente con la corrente
che creava il viavai di partenze e ritorni.
Nelle pause del girovagare
il caffè leggero e troppo dolce di mio padre
e gli abiti appena stirati
ebbero il loro momento.

Alla domanda se sono dimagrita
rispondo
con un piatto di cavolo fresco del mio giardino
e nuovi dati sul mio documento d’identità.

Ucraina
Yuliia Kozhukhovska

Caravel

I …I
was was
dreaming dreading,
of far journey, I was struggling
dozing in my harbor storm and darkness,
safe. So they called me: wind and clouds; as for my
silver mornings with light sails, their shape was nighted
breeze upon my bow, dawns with my rudder uncontrolled, and
and also gentle vast of ocean; so raging waves were washed against my
my soul was striving to horizons armour, while I was dreaming, dreaming,
with my sails so pure, white, and dreaming of dear distant home, my harbor.
I… I
am sailing under starlight with the pole-star showing me the way in dead of night…
Soon dawn will come with rays of sun bright lighting up the mast and sails.
Though storm has left the salt of tears on my deck, it passed away, and
I must journey onward with hope, with warmth of memory of home.

Caravella

Io …Io
stavo stavo
sognando temendo,
un lungo viaggio stavo lottando con
sonnecchiando nel mio porto tempesta e tenebra,
sicuro. Così mi chiamarono: vento e nubi; come se dalle mie
mattini d’argento con luce vele la loro forma fosse oscurata
soffiarono sulla mia prua, albe col mio timone fuori controllo, e
ed anche il gentile vasto oceano; così onde rabbiose scrosciassero contro la mia
la mia anima stava dirigendo all’orizzonte murata, mentre io stavo sognando, sognando,
con le mie vele tanto pure, bianche e sognando la cara casa lontana, il mio porto.
Io… Io
sto navigando sotto la luce delle stelle con la stella polare che mi indica la via nel cuore della notte…
Presto l’alba arriverà con raggi di sole splendenti che rischiarano l’albero e le vele.
Benché la tempesta abbia lasciato il sale di lacrime sul mio ponte, è passata, e
devo viaggiare d’ora in avanti con speranza, con calore di memoria di casa.

Nigeria
Johnatan Otamare

ASHES
My father holds a little broken ship in between his tummy.
His eyes blur like an ugly definition of what is left after
A fire rapes a building. It is true we do not own our body
Because our skin is a little war spreading over a dead bone,
and tomorrow it becomes
A shadow of ash reminding us of how we all began.

192
CENERI
Mio padre ha una navicella rotta in mezzo allo stomaco.
I suoi occhi sfumano come una brutta definizione di ciò che resta quando
un rogo devasta un edificio. È vero, non possediamo il nostro corpo
perché la nostra pelle è una piccola guerra che si estende su un osso morto,
e un domani diventerà
un’ombra di cenere che ci ricorda come ognuno di noi è cominciato.

Italia
Emanuele Esempio

Austera

In piena luce della sera,
sento
i tuoi passi
andare lontano.
Scricchiola
l’antico legno
di questa bara che,
ingenuamente,
chiamiamo
Casa.

Italia
Alessandro Gobbato

PAROLE DI CASA

Essenza.
Casa.
Rifugio di un’anima pacifica.
La dimensione del tutto.
Magia eterna.
Diversità nella complessità.
Dimensione nell’accettazione.
Trasloco di emozioni.
Estensione dello spazio.
Non lascia via di fuga.
Il flusso cambia,
raggiunge tutti gli angoli.
Parola non più arma.
Non più casa.
Parola scudo.
Non ferisce.
La magia è anche coraggio.
Cambio d’essenza.
Quella parola…
Ora.
È casa…
Sbagliata.

HOME WORDS

Essence.
Home.
Heaven of a peaceful soul.
The whole dimension.
Eternal magic.
Diversity in complexity.
Existence in the acceptance.
Removing emotions.
Space extension.
It doesn’t leale a sta off.
The flow changes,
reaches all corners.
Word that aren’t weapons anymore
That aren’t home.
Shield word.
It doesn’t hurt.
Magic is also courage.
Change of essence.
That word …
Now.
Is home…
The wrong one.

269 Slovenia QUESTA POESIA è SOLO SEGNALATA PER LA PUBBLICAZIONE NON è VINCITRICE. L’AUTORE/AUTRICE SI è DICHIARATO SLOVENO MA LA LINGUA SEMBRA ESSERE SLOVACCO)

Kristian Lazarčík

Odtiene teba

vôňa vonku
po daždi
znie ako niečo
čo by som chcel pocítiť vo vnútri

prsty
slzy
a tenké čierne čiary
na mojom tele
tvoje hrejivé
ruky
a ten temný pigment
v tvojich očiach
to je tá náklonnosť
ktorú nenávidím a milujem
v rovnaký čas

zoznam úloh z môjho detstva
je teraz dokončený
pobozkať 100 chlapcov
pobozkať 1 chlapca
​ 100 krát

želal by som si môcť
plávať v tvojich farbách
si umelecké dielo
vytvorené z prachu hviezd

skvostný
ale pominuteľný
vo svitaní

si moja svetlá
tragédia
moja láska slnečníc

269 Slovenia (ma la lingua originale sembra slovacco secondo la traduttrice)
SFUMATURE DI TE

Sfumature di te

l’odore fuori
dopo la pioggia
suona come qualcosa
che voglio sentire

dita
lacrime
e sottili linee nere
sul mio corpo
le tue mani
calde
e quel pigmento scuro
nei tuoi occhi
che è l’affetto
che odio e amo
allo stesso tempo

l’elenco dalla mia infanzia
è completo ora
baciati 100 ragazzi
baciato 1 ragazzo
100 volte

vorrei poter
nuotare nei tuoi colori
sei un’opera d’arte
fatta di polvere di stelle

squisita
ma temporanea
all’alba

sei la mia lucente
tragedia
amore mio girasole

TEATRIO

Michael Crisantemi
IO AMAVO QUELLA CASA

A Zelimkhan Bakaev

Personaggi:
Shapiev (27 anni)
Yusupov (28 anni)

Shapiev – Dove siamo? Cos’è questo posto? –
Yusupov – Credo proprio che sia la nostra nuova casa. –
Shapiev (guardandosi intorno) – E dunque questa sarebbe la morte… pensavo peggio. –
Yusupov – È stato peggio morire. –
Shapiev – Per una volta sono d’accordo con te. – (Silenzio) – Non siamo mica finiti… –
Yusupov – No, cosa vai pensando? Ti pare che questo sia l’inferno? –
Shapiev – Non mi sembra proprio. Un po’ però mi dispiace. –
Yusupov – Sei il solito miscredente. –
Shapiev – No, dico: tutta la vita a temerlo. Ero quasi curioso di vederlo…. –
Yusupov – Ma fammi il favore. –
Shapiev – Almeno ora sappiamo di essere stati nel giusto. –
Yusupov – Lo abbiamo sempre saputo. –
Shapiev – Ma se non è l’inferno dove siamo? –
Yusupov – Purgatorio, Paradiso, Sacro Picco dell’Aquila, cosa importa? –
Shapiev – Vorrei comunque sapere dove mi trovo. Preferirei essere nei Campi Elisei, se non sbaglio lì ci
vanno gli eroi immortali. Siamo eroi Yusupov? –
Yusupov – Siamo martiri. Non è lo stesso? –
Shapiev – Credo di sì. –
Yusupov – Se ci fosse una religione civile sulla terra a quest’ora saremo santi. –
Shapiev – Se ci fosse stata della civiltà al mondo saremmo stati ancora in vita. –
Yusopov – Vero. In fondo, non abbiamo fatto nulla di male. La nostra colpa è stata quella di amare chi
tanto abbiamo amato. –
Shapiev – E te nei hai amati tanti, è certo. –
Yusupov – Non ti è passata ancora la voglia di scherzare? –
Shapiev – Dai, non te la prendere, lo sai che mi piace prenderti in giro. Io poi ne ho avuti di più. –
Yusupov – Appunto. –
Shapiev – E ho fatto bene. La vita è breve, non immaginavo così tanto. Ventisette anni sono pochi per
trovare marito. –
Yusupov – Non è mai tardi per morire. –
Shapiev – Spero solo che Sergej si sia salvato. Hanno fatto di tutto per scoprire dove si nascondesse. –
Yusupov – Lo so. –
Shapiev – Mi hanno fatto cose atroci. –
Yusupov (abbracciandolo) – Lo so, a noi tutti. –
Shapiev – Però sono stato forte, non ho cantato. –
Yusupov – Nemmeno io. –
Shapiev – Chi pensi che sia stato a denunciarci? –
Yusupov – Spero non uno dei nostri. –
Shapiev – Non credo. –
Yusupov – Sotto tortura è difficile mantenere i segreti. –
Shapiev – Per te era difficile anche prima, non ti sei mai tenuta niente. –
Yusupov – Ripetilo sei hai il coraggio! – (Si rincorrono)
Shapiev – Ripeto e sottoscrivo quanto detto. –

Yusupov – Se ti prendo! –
Shapiev – Cosa mi fai se mi prendi? Ho già subito di tutto e di più. –
Yusupov – Quello che non ti ho fatto mai. – (Lo prende e lo bacia.)
Shapiev – Perché non ci siamo mai baciati? –
Yusopov – Perché in vita pensiamo sempre di essere eterni e rimandiamo a domani l’affetto di cui siamo
capaci. –
Shapiev – E perché io e te non abbiamo mai…? –
Yusupov – Quanto sei cretino! Lo sai che siamo come sorelle. –
Shapiev – Vero. Ti ricordi quella sera che organizzammo un festino da me? – (Ridono)
Yusupov – Come potrei dimenticarlo? Quanto bevemmo quella notte! –
Shapiev – Bevemmo e ballammo come le matte! –
Yusupov – Poi venne anche la polizia a dirci di abbassare il volume. –
Shapiev – Ce la mandò quella stronza della mia vicina. Cielo, quanto si incazzò quella volta! –
Yusupov – Che ci abbia denunciati proprio lei? –
Shapiev – Probabile. –
Yusupov – Non è Siriev quello? –
Shapiev – Quale? –
Yusupov – Quel ragazzetto biondo laggiù. –
Shapiev – Sì. Hanno preso anche lui. –
Yusupov – Già, così pare. –
Shapiev – Chi altri? –
Yusupov – La lista è lunga, purtroppo, e non è finita: Abdulmezhidov Adam Isaevich (29 anni),
Abumuslimov Apti Hasanovic (27 anni), Abdulkerimov Side Ramzan Ramzanovich (26 anni),
Alimhanov Islam Aliev (18 anni), Abubakarov Adam Dzhabrailovich (21 anni), Bergan Ismail
Shadidovich (18 anni), Dasaev Adam Ilyasovich (28 anni), Dzhabayev Zelimhan Hizirovich (23 anni),
Ilyasov Adam Huseynovich (19 anni), Lugano Rizwan Saeed-Hamzatovich (29 anni), Malikov Rizwan
Agdanovich (26 anni), Musk ICYE Turpalovich (28 anni), Muskhanov Temirlan Ahmadovich (30 anni),
Ozdiev Usman Vahaevich (27 anni), Rashidov Doc Ibrahimovic (21 anni), Siriev Magomed Musaevich
(23 anni), Soltahmanov Ismail Ezer-Aliyev (22 anni), Suleymanov Magomed Arbievich (29 anni),
Tuchaev Ahmed Ramzanovich (29 anni), Habu Khamzat Slaudinovich (23 anni), Khakimov Alvi
Aslambekovich (24 anni), Hamidov Shamil Ahmedovich (30 anni), Tsikmaev Sultanovich Ayoub (32
anni), Shapiev Muslim Isaevich (27 anni), Eskarbiev Sayhan Vahamsoltovich (24 anni), Yusupov Sahab
Marshak (27 anni), Yusupov Shamhan Shayovich (28 anni).
Questi sono quelli dichiarati.
Shapiev – Dichiarati da chi? –
Yusupov – Non dal governo, ovviamente –
Shapiev – Uno Stato che uccide i propri figli non è uno Stato. –
Yusupov – Nemmeno lo stato di natura ammette simili atrocità. –
Shapiev – Cosa potevamo aspettarci? Tra i suoi molti privilegi il potere ha anche quello di fare e dire ciò
che vuole. Stupidi che siamo stati a non scappare in tempo! –
Yusupov – Solo i codardi scappano. Orfano di padre, non potevo rimanere anche orfano di patria. –
Shapiev – Almeno tu hai una madre, io nemmeno quello. –
Yusupov – Certo che hai una madre. –
Shapiev (Adirato) – No che non ho una madre. Lo sai che sono andati a bussare alla nostra porta, lo sai
vero? –
Yusupov – Lo so, lo hanno fatto anche con me. –
Shapiev – Quanto per te? –
Yusupov – Tre milioni e mezzo. –
Shapiev – Io solo tre, d’altronde sono sempre stato inferiore a te. –
Yusupov – Ma che dici scemo!? –
Shapiev – Beh, fatto sta che i miei non hanno pagato il riscatto. –
Yusupov – Nemmeno mia madre. –
Shapiev – Tua madre perché non li aveva, povera donna! Sai cosa ha detto invece la mia quando gli hanno
chiesto se ero suo figlio? “Figlio? Io non ho nessun figlio. E se avete preso un frocio” ha aggiunto “dategli
la lezione che si merita”. Capisci? Sono una vergogna per loro, per la mia famiglia! – (Scoppia a piangere,
Yusupov cerca di consolarlo).
Yusupov – Dai su, non piangere. Hai resistito finora, non puoi cedere adesso che è tutto finito. Non devi

credere a quello che ti hanno detto, oltre al dolore fisico sono soliti torturare l’anima delle persone. –
Shapiev – Forse hai ragione. Ma non capisco che motivo c’era, con tutti i problemi che abbiamo in
Cecenia! –
Yusupov – Hai detto bene! Tutti i problemi che abbiamo in Cecenia. Sperano di soffocare il separatismo
nel comune odio che li lega contro di noi. La caccia alle streghe, si sa, esalta il popolo e lo tiene ben unito
contro lo straniero, contro il diverso. –
Shapiev – Siamo forse diversi Yusupov? Se mi spegni una sigaretta nell’occhio non diventerò forse cieco?
Se mi spezzi una gamba come potrei più alzarmi? Se mi fai l’elettrochoc il mio cervello non friggerà come
tutti gli altri cervelli? Se mi strapperai la lingua dalla bocca non diventerò muto? E se mi riempirai di
calci e di pugni senza che io possa rispondere non pensi che morirò come tutti gli esseri umani? Il mio
dolore non è forse uguale ad altro dolore? –
Yusupov – Lo so, Shapiev, ormai è accaduto e non possiamo fare più nulla per cambiarlo. –
Shapiev – Ma dobbiamo cercare di capire ciò che è successo. Senza verità come potremmo trovare pace? –
(Silenzio) – E l’Europa che fa? Sta a guardare! –
Yusupov – No, stanno a disquisire sul fatto se si possa parlare o meno di campo di concentramento. –
Shapiev – Siamo stati deportati? –
Yusupov – Sì. –
Shapiev – Siamo stati concentrati e trattati come le bestie? –
Yusupov – Sì. –
Shapiev – Nulla quaestio. –
Yusupov – Anche Hitler lo hanno fermato quando ormai era troppo tardi. La storia si studia a scuola per
essere dimenticata da grandi. –
Shapiev – Quindi siamo vittime anche noi del nazifascismo? –
Yusupov – Del comunismo, del nazionalismo, del fanatismo religioso islamico, del machismo,
dell’omofobia, cosa importa? Siamo vittime della Rivoluzione. –
Shapiev – La vera Rivoluzione sarebbe sposare la causa dei diritti umani, per tutti gli umani, anche per
noi. –
Yusupov – Non ci considerano umani, ci considerano mostri, invertiti, pervertiti, depravati, schifosi, froci,
ricchioni, pedofili, stupratori, barbari, immondi, innaturali, obbrobriosi, ingiuriosi, scandalosi, osceni. Ma
ormai siamo morti e dobbiamo farcene una ragione. (Silenzio).
Shapiev – A te come è successo? –
Yusupov – Accadde di notte, circa due mesi fa. Mi presero nel sonno i bastardi. Sfondarono la porta della
nostra casa, di casa nostra, capisci? La casa che è il luogo sacro e inviolabile a chi la abita! Erano cinque
o sei, troppi per prendere un frocio. Mi hanno buttato giù dal letto e mi hanno tirato pugni e calci ben
assestati. Io gridavo loro di fermarsi, che avevano sbagliato persona, che qualunque cosa di cui mi
incolpassero non ero stato io. Ma poi capii che le storie che giravano erano vere e che anch’io avrei subito
il martirio. Allora li assecondai e andai loro appresso, per non fare altro rumore. Ma mamma si era già
svegliata e ci inseguiva con le mani giunte e strappandosi i capelli. Piangeva, eccome se piangeva!
Gridava: “Lasciatelo! Lasciatelo! Non ha fatto nulla di male! Non ha ucciso nessuno, non ha rubato, non
ha cospirato e così via, tutta la lista dei reati che le venivano in mente e per i quali pensava che mi
portassero via.
Ovviamente l’hanno picchiata per tapparle la bocca. Poi hanno distrutto tutto, quel poco che avevamo.
Io amavo quella casa, senza vento di disgrazia. A volte forse ne ho maledetto i numi, ma essi non
abitavano in regione più chiara. Ma poi, ma poi… – (Singhiozza)
Shapiev – Dai, non fare così: i veri uomini non piangono. – (Cerca di consolarlo)
Yusupov – Hai ragione. Chi è quello? Non sarà mica… –
Shapiev – Sergey! –
Yusupov – Proprio lui. –
Shapiev – Ed io che lo amavo tanto… –
Yusupov – Continuerai ad amarlo anche qui. –
Shapiev – A quanto è salito il conto? –
Yusupov – La lista è lunga, purtroppo, e non è finita: Adam Isaevich (29 anni), Apti Hasanovic (27 anni),
Side Ramzan Ramzanovich (26 anni), ecc.

(Fine)

LA PICCOLA STANZA A KOJO di Francesca Venturelli LA PICCOLA STANZA A KOJO

Ogni casa ha una storia da raccontare.
(Catalogo IKEA 2011)

Personaggi

Nadia, 30 anni
Lara, 50 anni

Un grande salone quasi vuoto con le pareti completamente bianche. Ci sono delle grandi finestre su un lato della stanza, sull’altro, invece, due porte. In un angolo c’è un televisore e al centro ci sono due grandi divani azzurri entrambi coperti da dei teli di cellophane trasparente. Vicino a una delle porte ci sono un attaccapanni con un cappotto e una sciarpa appesi e un cestino dello sporco.

Una donna, Nadia, si muove nervosamente da un lato all’altro della stanza, tra le mani ha un block notes e una rivista di arredamento. Ha una corporatura esile, lineamenti mediorientali e lunghi capelli scuri raccolti in una treccia. Indossa un maglione da uomo nero che le calza di almeno quattro taglie più larghe e un paio di pantaloni della tuta. Ai piedi porta dei vecchi stivali senza lacci. I suoi occhi sono cerchiati da profonde occhiaie violacee.

Nadia parla con un forte accento mediorientale.

NADIA (parlando tra sé e sé): Quante cose da fare. Se metto il pane in forno prima di pranzo potrò andare a prendere Hanan. Potremmo andare al mercato insieme. (Si avvicina ai divani e alza un angolo di uno dei teli di cellophane.) Non ho mai visto un colore più brutto di questo, non capisco se è verde o azzurro. Comprerò della bella stoffa e cucirò delle nuove fodere, anche questi vecchi divani prenderanno nuova vita.

Nadia si avvicina alle finestre.

NADIA (parlando tra sé e sé): Ci vogliono delle tende per queste finestre.

Nadia annota velocemente qualche frase sul suo block notes, poi si avvicina all’angolo dove si trova il televisore.

NADIA (camminando a lunghi passi da un lato all’altro della stanza.): Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. (Annota qualcosa sul suo block notes.) Quasi sei metri. Non ho mai avuto un salotto così grande. Bihar non ci crederà quando lo vedrà. (Fa una giravolta su se stessa.) Potremo impastare il pane ascoltando la musica.

Nadia si avvicina al centro della stanza.

NADIA (parlando tra sé e sé): Qui ci sarà un tavolo dove i nostri mariti aspetteranno il pranzo. (Guarda verso un altro lato della stanza e poi ci si avvicina, aprendo le braccia.) E qui… qui i bambini potranno giocare. Quelle due pesti di Zara e Mallbat non litigheranno più per lo spazio.

SI SENTE IL FORTE BIP-BIP DI UNA SVEGLIA ELETTRONICA.

NADIA (sorpresa): È già ora? Devo andare!

Nadia va verso l’attaccapanni. Prende il cappotto e lo indossa, infila il block notes e la rivista in una tasca dell’indumento. Poi prende la sciarpa e se l’avvolge intorno al collo e alla testa fino a coprirsi quasi completamente il volto.
Abbassa la maniglia della porta e la tira avanti e indietro più volte, ma la porta è bloccata.

NADIA (bofonchiando): Quante volte avrò chiesto di oliare questa porta?

Vicino allo stipite della porta ci sono alcuni interruttori colorati, Nadia li schiaccia ripetutamente.

NADIA (ad alta voce): Volete aprirmi? Farò tardi anche oggi!

La porta si apre. Nella stanza entra un’infermiera, Lara. È bionda e indossa una divisa giallo canarino. In mano regge due bicchierini di plastica.

LARA: Nadia hai sentito l’allarme? È ora della terapia.
NADIA (agitata): Non posso ora. Devo andare a prendere Hanan.

Lara guarda Nadia con un misto di tenerezza e rassegnazione, poi le porge i due bicchierini.

LARA: Prendi queste.
NADIA: Tu non capisci, io devo andare.
LARA: Ti lascerò andare dopo che avrai preso le tue medicine.

Nadia sbuffa e abbassa la sciarpa per scoprirsi il volto, mentre il capo resta coperto. Afferra i due bicchieri dalle mani dell’infermiera. Prima ingoia delle pillole da uno e poi beve dell’acqua dall’altro.

LARA: Fammi controllare sotto la lingua.

Nadia apre la bocca e Lara la esamina per qualche secondo. Poi, Nadia chiude la bocca e getta i due bicchiernii nel cestino dello sporco.

NADIA: Posso andare ora? Hanan sarà preoccupata.
LARA: Nadia, Hanan non è qui.
NADIA: Certo che non è qui sciocchina. È da mia sorella Bihar, per questo devo andare.
LARA: Non è neanche da tua sorella.
NADIA: Smettila di prendermi in giro. Non ho tempo. Voglio che sia tutto pronto entro la fine del mese. (Il suo sguardo si perde nel vuoto.) Quando Bihar e io eravamo piccole vivevamo insieme ai nostri genitori e ai nostri quattro fratelli in una stanza di trenta metri quadrati, una stanza ancora più piccola di questa. Di giorno c’erano la cucina e il salotto e di notte tiravamo una tenda e la casa si trasformava in due camere da letto, una per i miei genitori e una per i miei fratelli e me.
LARA: Certo Nadia, perché non ti togli il cappotto e ti siedi, così continui a raccontarmi.

Lara prende il braccio di Nadia e cerca di trascinarla dolcemente verso i divani, ma la donna non si muove, rimane ferma come una statua mentre il suo sguardo resta perso nel vuoto.

NADIA: La tenda era blu e aveva dei ricami gialli tutti sgualciti. Era il nostro piccolo cielo stellato. Si era impregnata dell’odore dei nostri pasti, ad ogni ora del giorno si sentiva profumo di spezie. (Un leggero sorriso appare sul volto di Nadia.) La sera nostro padre ci raccontava un sacco di fiabe, le inventava lui, ma non ci diceva mai la fine. (Imitando una voce maschile.) Forza bambini, andate a letto. Se farete i bravi domani vi racconterò la fine. (Torna ad usare sua voce normale.) Il giorno dopo si dimenticava ciò che ci aveva raccontato, così ricominciava con un’altra storia, una storia infinita senza una fine. Forse, ascoltandomi, quella casa potrebbe sembrarti un buco con una tenda puzzolente nel mezzo, ma per noi era davvero bella la nostra piccola stanza a Kojo.

Il volto di Nadia si fa di colpo cupo.

NADIA (con un filo di isteria nella voce): Devo andare a prendere Hanan. Avrà paura tutta sola a Kojo.
LARA: Hanan non è più a Kojo.

Nadia si strappa via la sciarpa dal collo, come se non riuscisse a respirare, poi si scaglia sulla porta e la prende a pugni.

NADIA (gridando): Hanan è da sola. (Si copre le orecchie con le mani.) Le esplosioni! Non le senti le esplosioni?

Lara cerca di afferrare le braccia di Nadia, ma la donna non si lascia prendere e ricomincia a colpire la porta.

LARA (parlando lentamente e con calma): Nadia non siamo in Kurdistan. Sei in Germania, in una clinica. Sei scappata, non ti ricordi?

Lara riesce ad afferrare una delle mani di Nadia, quest’ultima tenta di divincolarsi, ma Lara la stringe con forza.

LARA (con molta calma): Nadia, guardami. Sei in una clinica. Questa è la sala comune.

Nadia resta immobile per qualche secondo, i suoi occhi esplorano la stanza per poi fermarsi sul viso di Lara.

NADIA (con un filo di voce): No.

Nadia si divincola dalla presa di Lara e inizia a tremare e a prendere a calci la porta.

NADIA (gidando): Bihar, devo avvertire Bihar. Zara e Mallbat sono con lei.

Nadia non accenna a calmarsi. Lara afferra velocemente il braccio di Nadia e alza la manica del cappotto della donna, estrae una siringa con un liquido trasparente dalla tasca della sua divisa, toglie il tappo protettivo, infila l’ago nell’avambraccio di Nadia e preme fino a svuotare del tutto la siringa.

Dopo qualche istante le gambe di Nadia cedono, Lara la afferra e la aiuta a sedersi per terra. L’infermiera sfila lentamente l’ago dal braccio di Nadia e butta la siringa nel cestino dello sporco vicino alla porta.

Nadia ha gli occhi sbarrati.

NADIA (biascicando): Mi chiamo Nadia. Un uomo, il mio padrone, mi ha rapita in un giorno di primavera. Ha tagliato la gola a mio marito. C’era profumo di pane. Lui mi ha violenta… (Scuote la testa, come per scacciare via la confusione e l’orrore.) Mia figlia Hanan era con me. Il mio padrone ha tenuto lei perché è giovane e bella. Sono stata rivenduta cinque volte. Gli altri miei figli, Zara e Mallbat, sono con Bihar, mia sorella. La nostra casa è stata distrutta, devo andarli a prendere. (Nadia si inginocchia e implora Lara.) Devo portarli a casa. Devo portarli a casa.

Nadia crolla a terra, mentre Lara le carezza la schiena e la fissa impotente.

FINE.

Che il fango ci sia lieve MONOLOGO
Di Matteo Taccola

Personaggi:
-Anziano, di circa 77 anni;

Livorno. Mattina del 10 settembre 2017. È buio sulla scena, nel mezzo è posizionata una panchina di ferro nera, seduto su quella un anziano, i vestiti sono usurati, rammendati, la barba e i capelli arruffati. Ha chiazze di fango ovunque. Lo sguardo è basso.

Alza improvvisamente gli occhi, guarda dritto davanti a sé.

Anziano: Mi chiamo Armando, ho 77 anni, compiuti il 13 marzo del 2017. Nato in casa, grazie alla vicina Maria, levatrice di professione. Mia mamma, Anna, era del Pontino e mio babbo, Enzo, del Venezia. Forse voi non lo sapete, ma i rapporti tra questi due quartieri di Livorno vi assicuro erano e sono tutto tranne che amichevoli, soprattutto nelle gare remiere cittadine; quando i miei nonni seppero della relazione dei miei genitori le reazioni non furono, per così dire, amichevoli, anzi…(sorride)

Comunque eccomi qui: Armando Totano.
Livornese adottato dal quartiere Ardenza, qui profumo di salsedine e di professione pescatore.

Ci sono cresciuto con il mare e avevo sempre le mani “vizze”, raggrinzite, parevano due spugne tanto mi piaceva rimanere in acqua, era il mio habitat, la mia casa.

E’ proprio sugli scogli che ho conosciuto Nino, quello che sarebbe diventato l’amico della vita, anche se a quel tempo mica lo sapevo.

Lui aveva dieci anni e io undici, ma era più maturo di me, si sarebbe detto oggi “che era di un altro mondo”, “che aveva una marcia in più”, sapeva già cosa voleva fare: continuare l’attività di famiglia.

Il nonno del babbo di Nino, Dante, aveva aperto una pescheria, e di generazione in generazione se l’erano tramandata, Nino voleva far parte di quel progetto.

Quante volte mi ha portato alla pescheria, il nome…il nome… (si gratta il mento), ah sì, la “Dimora dell’orata”.

Tutte le volte mi indicava i nomi di ogni pesce esposto nelle grandi vetrine, dai più grandi ai più piccoli, dai più strani a quelli comuni. Penso che se fosse stato possibile ci si sarebbe accampato in quel negozio, spesso contento com’era di trascinarmici mi sembrava che per lui quella fosse non una pescheria ma la sua seconda casa. È proprio vero che casa ti chiama più forte di ogni luogo.
Nino spesso andava a pescare per poi dare ciò che prendeva alla bottega di famiglia e con lui ho imparato tutto quello che so sulla pesca… (tira fuori un sasso da una tasca, ci giocherella) quando ero un bimbo l’unica cosa che sapevo fare infatti era tuffarmi dagli scogli, prendere qualche riccio e mangiarlo e rompere le scatole tirando sassi in acqua il più vicino possibile alle persone per schizzarle, (ripone il sasso nella tasca).

Io volevo fare il vagabondo e Nino continuare la storia di famiglia.
A entrambi le cose non sono andate come volevamo.
Io dovetti trovarmi un lavoro e l’unica cosa che sapevo fare a quel punto era pescare, e solo grazie a quel santo di Nino, quindi abbandonai l’ambizione di vagabondo e mi misi sulle barche, Nino ebbe molta più sfortuna, suo padre morì di crepacuore e dovendo una grossa somma agli usurai, la famiglia dovette vendere la pescheria.

Non penso di aver mai visto qualcuno così triste.
Solo in quel momento ho pensato che anche un posto come quello poteva essere meraviglioso per qualcuno. Per Nino di certo lo era.
Con i pochi soldi avanzati Nino riuscì a prendersi una barca tutta sua: Nido.
E un senso questo nome incominciò ad averlo anche per me, (prende da un’altra tasca un pezzo di legno, lo tiene tra le due mani).

Sempre più spesso Nino rimaneva su quella barca, di giorno per lavorare, ma anche di notte per dormire. Quando ci vedevamo preferiva che salissi io, mentre se proprio doveva scendere era quasi disorientato e faceva di tutto per chiudere il discorso in fretta e furia e ritirarsi in coperta, (studia il pezzo di legno).

Quell’imbarcazione era come se fosse diventata la sua pelle, la sua corazza, il suo nascondiglio, il riflesso di ciò che voleva essere, una specie di cantina piena di ricordi che non voleva dimenticare, ma forse, anzi sicuramente, voleva dire molto di più per lui in un modo che non riesco neppure a immaginare.
Nonostante le sue stranezze non c’è stato un solo giorno che non l’ho visto lavorare: pioggia, vento, sole, caldo, freddo. Mai un solo giorno in cui non lo vedessi partire dalla banchina per andare a buttar le reti. Qualche volta nei fine settimana preferiva ormeggiarsi vicino al fiume Chioma, poco fuori Livorno, farsi cullare dalle onde e riposare.

Lontano da ogni cosa. Lui e Nido, inseparabili, (lascia cadere il pezzo di legno).

È stato proprio un fine settimana che il cielo se l’è portato via, e non è un modo dire, no, non lo è affatto! Vorrei che fosse potuto morire tranquillo in un letto, invece no… (tira su con il naso).

Se n’è andato così e io non ho potuto nemmeno salutarlo, potevo dirgli grazie e non l’ho mai fatto, ha preso e nel silenzio del suo Nido ci ha lasciati!

Sta ancora piovendo, sentite?! (Avvicina la mano destra all’orecchio come per sentire meglio un rumore in lontananza).
È tutta questa pioggia che lo ha portato via.
Sapete quanta pioggia può scendere da questo cielo maledetto?
Tanta che nemmeno ve lo potete immaginare, (parla stringendo i denti dalla rabbia).
Come in otto mesi, è caduta pioggia come in o-t-t-o- mesi, (fa il gesto dell’otto con le dita delle mani) ben 256 millimetri di acqua, tra le 1.45 e le 3.45.
Tutta quella pioggia ha portato via ogni cosa, case, animali, alberi…(pausa), persone. E Nino è stato una di quelle.
Il fiume Chioma di solito un piccolo torrente si è ingrossato, (con le mani gesticola allargandole), sempre di più e ancora e ancora, divenendo un fiume di fango e morte, e lì Nino è stato travolto mentre sereno dormiva nel suo Nido. (Pausa).

Mi chiedo come sia possibile. È una domanda incessante ora.
Nino era un pescatore esperto, anni e anni in mare, di temporali e di venti, come è possibile che non avesse previsto che poteva esserci un pericolo?
Non dico potesse capire che sarebbe arrivata una tempesta di proporzioni bibliche, ma che ci fosse un pericolo, come non ha potuto percepirlo…(pausa)NO! (urla).
Non pensatelo, so che lo state facendo, NO. Lui non ha voluto, non…può…aver voluto… (pausa, si alza e cammina intorno alla panchina, con la mano destra si tocca la barba).
Di solito non si parlava mai io e Nino ci si capiva con i gesti, ma la sera prima gli ho parlato spinto non so da che cosa, le parole sono uscite così, come un fiume in piena “Non andare domani in barca, le previsioni hanno dato pioggia, rimani a casa è più sicuro. E forse era l’istinto, forse ero io, non mi ha ascoltato, ha continuato ad armeggiare con le reti e le esche, le lenze e tutto il resto, come fosse sordo, (si siede).
Era da diverso tempo, tanto tempo, che ormai lui e Nido erano una cosa sola e quella ormai era casa sua. Quella vera gliel’avevano pignorata quando dovette ricomprare il motore e fare dei lavori alle assi e a tutto l’impianto, le reti spesso erano vuote, ma lui non si era mai lamentato.
Addirittura per un certo periodo quando non riusciva a tirar su niente con le reti la mattina presto in primavera potevi scorgerlo nascosto lì, in quella specie di tana, tra le coperte e le sue reti di salmastro e sudore. È vero non parlavamo più molto ma il nostro era un legame di sudore e silenzi, di tante reti e attese. (pausa)
È stato spazzato via anche lui, come tutto il resto adesso…
Nel silenzio della notte e poi tra le grida dei gabbiani, il suo corpo infreddolito dal buio, cullato da quella specie di casa, come spesso la chiamava lui, s’è spento.
Se n’è andato in punta di passi, senza dar noia a nessuno, senza gridare.

Chissà se qualcuno oltre a me se n’è accorto. Ora è nelle profondità marine tra i nicchi, le spigole, i ricci e chissà cos’altro. È tornato alla sua casa, alle sue più profonde origini.

Mi chiedete cos’è successo a Nido? Hanno ritrovato la sua carcassa mezza arenata nel fango, l’unica cosa che una persona dotata di buon senso avrebbe dovuto fare sarebbe stata quella di mandarla al macero.
Ed era quello che volevano fare i suoi parenti…(pausa) non io. NO.

Buttarla via, così, come se niente fosse, come se per lui non avesse avuto alcun valore. Eh no, ho pensato, io non ci sto, io Armando, non ho voluto, ho tirato fuori i miei soldi e gli ho detto o questo o nulla, che tanto più di questo non vi daranno, loro attoniti si sono guardati con delle facce!

Avreste dovuto vederle, le facce di chi dà prezzo a tutto, ma certe cose un prezzo non ce l’hanno davvero.
E allora quella specie di zattera bucata, che faceva acqua da tutte le parti, l’ho presa e l’ho sistemata alla buona e meglio.
E ancora galleggia, chi lo avrebbe detto.
L’ultima volta che ci sono salito aveva un odore particolare. Non che fosse poco pulita, neppure l’odore di salsedine, ma sentivo l’odore dei ricordi, di parole non dette, di gesti troncati a metà, di sguardi persi, percepivo su quella barchetta dondolante una sorta di intimità pesante e nostalgica, che mi soffocava e opprimeva…

Spesso pensiamo che casa sia un luogo a quattro mura, forse è altro, non è facile da spiegare, ma è come se fosse qui, (si guarda e si tocca la testa e il petto) e poi tutt’intorno.
Chi lo avrebbe mai detto che delle tante vittime sperse in mare, Nino sarebbe stato ucciso in quella casa che credeva così sicura dall’acqua che aveva sempre amato? (sorride amaramente). La morte non ti bussa nemmeno se sei a casa
Nino ora è in un’altra dimora, come aveva sempre desiderato, appartiene al vento e alle onde, bellissima, senza confini. Non è forse casa là dove uno ha riposto il proprio cuore?

L’anonimo MONOLOGO
Di Michele Marro

Vorrei richiamare l’attenzione delle persone in sala, per un momento.
Vorrei che tutti, a loro modo, rispondessero al seguente quesito o che dessero un semplice parere. Non è necessario parlare ad alta voce: rispondete a voi stessi.
Si tratta di una persona, la quale vi ha voluto molto bene -una persona che vi amava- e alla quale voi, a vostra volta, avete voluto molto bene. Questa persona, ad un certo punto, dopo anni in cui vi è stata vicina, sparisce -sparisce-. No, non sto parlando della sparizione dovuta alla morte, no. Si tratta di qualcosa di molto peggio: una fuga.
Ditemi, di primo acchito: non la odiereste?
Non provereste odio per lei? Odio: quel sentimento che ti fa sentire duro come una pietra, una pietra pronta a scagliarsi e a frantumarsi e a far echeggiare nell’aria il boato della ragione; perché forse è da ciò che nasce l’odio, no?: l’ingiustizia di non aver avuto spiegazione alcuna.
Dimenticavo: questa persona è vostro padre.
Un padre buono e gentile, che aveva saputo rabbonirvi in ogni situazione. Ancora vi portate appresso splendidi ricordi di lui, fatti di regali, considerazioni e affetto, segni indiscutibili di un amore paterno forte e sincero.
Poi, un giorno, la fuga: questo scisma che separa il prima dal dopo. L’ultimo dei ricordi con vostro padre è ancora ben vivido dentro di voi. Quella sparizione aveva rafforzato quel ricordo, ma aveva fatto anche irrompere una sofferenza infinita, destinata forse a durare per sempre.
E da allora c’era stato solo il silenzio a farvi da compagno. Un silenzio immane che veniva percosso solo ogni tanto dallo strepito del vostro cuore, un palpitare che teneva in vita una sana sofferenza. E continuava a insistere perennemente, senza pause, senza risposte, sempre.
Finché è arrivato un nuovo giorno, esattamente quindici anni dopo la fuga di vostro padre. Quindici anni: ma sapete quanti sono quindici anni -quindici anni-? Sono tantissimi, quindici anni sono un’eternità!
Cosa è successo in quel giorno? Avete sentito un boato spaventoso: vostro padre è comparso alla fermata del tram sotto casa.
Come avreste potuto sentirvi?
Be’, io ero pietrificato, completamente immobile, una statua, quando l’ho visto. Ed ero maledetto da un flusso di pensieri che martellava pesantemente la mia testa.
Ma ci pensate? Mio padre! Dopo tutti quegli anni, mio padre! Io non sapevo neanche se fosse ancora in vita, eppure eccolo lì, proprio di fronte a me, neanche invecchiato, un po’ diverso nell’aspetto, certo, ma mai abbastanza da essere ignorato da miei occhi.
Avevo aspettato quel momento da sempre e spesso avevo pensato a come sarebbe potuto essere, se mai ci fosse stata l’occasione. Avevo meditato a lungo su cosa avrei potuto dirgli, di cosa gli avrei parlato; tuttavia in quell’attimo ero come isolato; mi sentivo solo e vuoto. Non avrei saputo dir niente e, sapete cosa?, avrei temuto anche uno sguardo, sì!, avrei avuto… avrei avuto paura.
Sembrava stesse bene, pareva vivace e in forma. Forse si era fatto una nuova vita? Certo non sarebbe stato difficile, ma allora che ci faceva qui? Per giunta alla stessa fermata del tram dove anni prima veniva ad aspettarmi mentre facevo ritorno dalle elementari, per poi salire a casa insieme, mano nella mano.
Perché era lì?
Non gli era bastato portarmi via parte dell’infanzia, l’intera adolescenza? Lasciare nella mia vita un vuoto ustionante e un dolore immenso alla povera mamma che non ha mai avuto e non avrà mai spiegazioni?
Come può un uomo, un padre, fare questo alla propria famiglia?

Un singulto mi ha fatto sussultare mentre generavo queste domande, una piccola lacrima percorreva la mia guancia, azione la quale, in qualche modo, ha allentato le corde del mio cuore. Così ho preso coraggio e ho deciso di andare lì da lui.

Non sapevo che cosa gli avrei detto; credo solo volessi conoscere la sua reazione alla vista di suo figlio, se si ricordava ancora di lui. Poi, certo, gli avrei parlato, esatto le dovute spiegazioni…

Istantaneamente l’ho visto alzare un braccio al cielo. Quel gesto non era rivolto a me; anzi, credo che mio padre non si fosse accorto della mia presenza, a causa forse del grande numero di persone che ci circondava (eravamo in Piazza Grande).

L’ha abbassato subito, poi ha guardato l’ora. E nel contempo mi sono accorto che l’altro braccio non cadeva al suo fianco, ma era leggermente aperto, come se stesse reggendo qualcosa.

Senza togliergli gli occhi di dosso, mi sono scostato un poco, facendomi spazio tra le persone. Mi sono accorto di una figura indistinta, semi coperta dalle persone che aveva di fronte: era un bambino; e mio padre gli teneva la mano.
Quindi era vero? Era così? Si era rifatto una vita. Magari aveva lasciato noi proprio per l’altra moglie, per l’altra famiglia. Sparito da un giorno all’altro per raggiungere chi amava di più… era così?

Troppe volte l’avevo creduto in quegli anni. Non poteva essere morto, non poteva essere fuggito senza un motivo preciso, no? E quante volte io, tornato a casa dal lavoro, scorgevo alla finestra la mamma piangere; a guardarla negli occhi capivo benissimo come non riuscisse a darsi pace.
Una tregedia investiva casa nostra ogni sera che l’arrivo di mio padre non avveniva. E la mamma -sempre la mamma-, distrutta, che passava intere nottate a vegliare sul telefono, pomeriggi assolati a setacciare città in cerca di testimonianze, non aveva mai smesso di credere ad un suo ritorno.
Per me, quando ero ancora piccolo, era come se fosse andato via, partito per un viaggio in una località remota. Non avevo percepito immediatamente la sua mancanza proprio per questo motivo. Poi, ero crollato tutte le volte che avevo bisogno di lui e lui non c’era. E mi ero chiesto costantemente il perché di tutto questo.

Nel frattempo, mi ha sorpreso un rumore a me noto: il campanello intermittente del tram.
Ho voltato lo sguardo e ho visto, in quell’istante, il tram diretto alla sua fermata, proprio in quel punto, lì dove c’era mio padre, il quale gli aveva fatto segno di fermarsi, alzando il braccio.
Sono scattato come un predatore inferocito, una bestia affamata. Stava per succedere di nuovo, stava per fuggire da me una seconda volta. No, non glielo avrei permesso, no. Lo avrei raggiunto a tutti i costi, dovevo raggiungerlo a tutti i costi.
Mi son fatto strada tra le persone attorno a me, mentre quel maledetto tram stava già rallentando. E nella paura di veder volare via mio padre -forse per sempre questa volta- mi sono messo a urlare per farmi riconoscere:
-Papà! Papà, sono io!-
Ho visto in lui un’aria di apparente indifferenza. Lo sguardo tornava a guardare l’orologio sul suo polso con subitanea frenesia. Nessuna occhiata veniva rivolta a me.

I passi si facevano pesanti, e la distanza che ci divideva sembrava sempre più grande. Respiravo con tale violenza che mi faceva male il petto; ansimavo come un animale in cerca di una via di fuga, che anela alla libertà.
Il tram si è fermato, aprendo gli sportelli e sbuffando. Io ero da un lato, mio padre dall’altro: c’era solo qualche metro tra noi, qualche metro a fronte dei quindici anni che ci avevano tenuto divisi. Tutto sarebbe finito di lì a poco.
Rasentando il tram sono capitolato dall’altro lato; a quel punto mi sono accorto che stavo trattenendo il fiato. Ero pronto, c’ero quasi.
Ma mio padre non c’era. Nello stesso punto nel quale lo avevo visto non c’era nessuno.
Sul tram, mi sono detto, sul tram! Ma c’erano troppe persone, una bolgia di gente che strattonava e spingeva per un solo, maledetto posto sul tram. Non riuscivo a salire.
-Fermate il tram, fermate il tram!- mi sono messo a urlare.
Ma sentivo già lo strattone del veicolo che era in procinto di partire; il campanello strideva. E le persone attorno mi soffocavano.
Il tram è riuscito a partire. Mio padre, là sopra, se ne stava andando via con lui, se ne stava andando per sempre.
Non l’ho rincorso, non ci sono stato dietro e non ci ho nemmeno provato. Ho continuato a fissare il tram mentre esso spariva al incrocio successivo. Ero fermo, al mio posto, e sapete perché? Il bambino che era con mio padre era rimasto lì. Era solo.
Ma non è tutto: avevo riconosciuto in lui fattezze a me note, lineamenti che avevano qualcosa di molto familiare.

E sono scoppiato a piangere di fronte a quel bambino, il povero me di quindici anni fa.

Ogni casa ha una storia da raccontare.
(Catalogo IKEA 2011)

Personaggi

Nadia, 30 anni
Lara, 50 anni

Un grande salone quasi vuoto con le pareti completamente bianche. Ci sono delle grandi finestre su un lato della stanza, sull’altro, invece, due porte. In un angolo c’è un televisore e al centro ci sono due grandi divani azzurri entrambi coperti da dei teli di cellophane trasparente. Vicino a una delle porte ci sono un attaccapanni con un cappotto e una sciarpa appesi e un cestino dello sporco.

Una donna, Nadia, si muove nervosamente da un lato all’altro della stanza, tra le mani ha un block notes e una rivista di arredamento. Ha una corporatura esile, lineamenti mediorientali e lunghi capelli scuri raccolti in una treccia. Indossa un maglione da uomo nero che le calza di almeno quattro taglie più larghe e un paio di pantaloni della tuta. Ai piedi porta dei vecchi stivali senza lacci. I suoi occhi sono cerchiati da profonde occhiaie violacee.

Nadia parla con un forte accento mediorientale.

NADIA (parlando tra sé e sé): Quante cose da fare. Se metto il pane in forno prima di pranzo potrò andare a prendere Hanan. Potremmo andare al mercato insieme. (Si avvicina ai divani e alza un angolo di uno dei teli di cellophane.) Non ho mai visto un colore più brutto di questo, non capisco se è verde o azzurro. Comprerò della bella stoffa e cucirò delle nuove fodere, anche questi vecchi divani prenderanno nuova vita.

Nadia si avvicina alle finestre.

NADIA (parlando tra sé e sé): Ci vogliono delle tende per queste finestre.

Nadia annota velocemente qualche frase sul suo block notes, poi si avvicina all’angolo dove si trova il televisore.

NADIA (camminando a lunghi passi da un lato all’altro della stanza.): Uno, due, tre, quattro, cinque, sei. (Annota qualcosa sul suo block notes.) Quasi sei metri. Non ho mai avuto un salotto così grande. Bihar non ci crederà quando lo vedrà. (Fa una giravolta su se stessa.) Potremo impastare il pane ascoltando la musica.

Nadia si avvicina al centro della stanza.

NADIA (parlando tra sé e sé): Qui ci sarà un tavolo dove i nostri mariti aspetteranno il pranzo. (Guarda verso un altro lato della stanza e poi ci si avvicina, aprendo le braccia.) E qui… qui i bambini potranno giocare. Quelle due pesti di Zara e Mallbat non litigheranno più per lo spazio.

SI SENTE IL FORTE BIP-BIP DI UNA SVEGLIA ELETTRONICA.

NADIA (sorpresa): È già ora? Devo andare!

Nadia va verso l’attaccapanni. Prende il cappotto e lo indossa, infila il block notes e la rivista in una tasca dell’indumento. Poi prende la sciarpa e se l’avvolge intorno al collo e alla testa fino a coprirsi quasi completamente il volto.
Abbassa la maniglia della porta e la tira avanti e indietro più volte, ma la porta è bloccata.

NADIA (bofonchiando): Quante volte avrò chiesto di oliare questa porta?

Vicino allo stipite della porta ci sono alcuni interruttori colorati, Nadia li schiaccia ripetutamente.

NADIA (ad alta voce): Volete aprirmi? Farò tardi anche oggi!

La porta si apre. Nella stanza entra un’infermiera, Lara. È bionda e indossa una divisa giallo canarino. In mano regge due bicchierini di plastica.

LARA: Nadia hai sentito l’allarme? È ora della terapia.
NADIA (agitata): Non posso ora. Devo andare a prendere Hanan.

Lara guarda Nadia con un misto di tenerezza e rassegnazione, poi le porge i due bicchierini.

LARA: Prendi queste.
NADIA: Tu non capisci, io devo andare.
LARA: Ti lascerò andare dopo che avrai preso le tue medicine.

Nadia sbuffa e abbassa la sciarpa per scoprirsi il volto, mentre il capo resta coperto. Afferra i due bicchieri dalle mani dell’infermiera. Prima ingoia delle pillole da uno e poi beve dell’acqua dall’altro.

LARA: Fammi controllare sotto la lingua.

Nadia apre la bocca e Lara la esamina per qualche secondo. Poi, Nadia chiude la bocca e getta i due bicchiernii nel cestino dello sporco.

NADIA: Posso andare ora? Hanan sarà preoccupata.
LARA: Nadia, Hanan non è qui.
NADIA: Certo che non è qui sciocchina. È da mia sorella Bihar, per questo devo andare.
LARA: Non è neanche da tua sorella.
NADIA: Smettila di prendermi in giro. Non ho tempo. Voglio che sia tutto pronto entro la fine del mese. (Il suo sguardo si perde nel vuoto.) Quando Bihar e io eravamo piccole vivevamo insieme ai nostri genitori e ai nostri quattro fratelli in una stanza di trenta metri quadrati, una stanza ancora più piccola di questa. Di giorno c’erano la cucina e il salotto e di notte tiravamo una tenda e la casa si trasformava in due camere da letto, una per i miei genitori e una per i miei fratelli e me.
LARA: Certo Nadia, perché non ti togli il cappotto e ti siedi, così continui a raccontarmi.

Lara prende il braccio di Nadia e cerca di trascinarla dolcemente verso i divani, ma la donna non si muove, rimane ferma come una statua mentre il suo sguardo resta perso nel vuoto.

NADIA: La tenda era blu e aveva dei ricami gialli tutti sgualciti. Era il nostro piccolo cielo stellato. Si era impregnata dell’odore dei nostri pasti, ad ogni ora del giorno si sentiva profumo di spezie. (Un leggero sorriso appare sul volto di Nadia.) La sera nostro padre ci raccontava un sacco di fiabe, le inventava lui, ma non ci diceva mai la fine. (Imitando una voce maschile.) Forza bambini, andate a letto. Se farete i bravi domani vi racconterò la fine. (Torna ad usare sua voce normale.) Il giorno dopo si dimenticava ciò che ci aveva raccontato, così ricominciava con un’altra storia, una storia infinita senza una fine. Forse, ascoltandomi, quella casa potrebbe sembrarti un buco con una tenda puzzolente nel mezzo, ma per noi era davvero bella la nostra piccola stanza a Kojo.

Il volto di Nadia si fa di colpo cupo.

NADIA (con un filo di isteria nella voce): Devo andare a prendere Hanan. Avrà paura tutta sola a Kojo.
LARA: Hanan non è più a Kojo.

Nadia si strappa via la sciarpa dal collo, come se non riuscisse a respirare, poi si scaglia sulla porta e la prende a pugni.

NADIA (gridando): Hanan è da sola. (Si copre le orecchie con le mani.) Le esplosioni! Non le senti le esplosioni?

Lara cerca di afferrare le braccia di Nadia, ma la donna non si lascia prendere e ricomincia a colpire la porta.

LARA (parlando lentamente e con calma): Nadia non siamo in Kurdistan. Sei in Germania, in una clinica. Sei scappata, non ti ricordi?

Lara riesce ad afferrare una delle mani di Nadia, quest’ultima tenta di divincolarsi, ma Lara la stringe con forza.

LARA (con molta calma): Nadia, guardami. Sei in una clinica. Questa è la sala comune.

Nadia resta immobile per qualche secondo, i suoi occhi esplorano la stanza per poi fermarsi sul viso di Lara.

NADIA (con un filo di voce): No.

Nadia si divincola dalla presa di Lara e inizia a tremare e a prendere a calci la porta.

NADIA (gidando): Bihar, devo avvertire Bihar. Zara e Mallbat sono con lei.

Nadia non accenna a calmarsi. Lara afferra velocemente il braccio di Nadia e alza la manica del cappotto della donna, estrae una siringa con un liquido trasparente dalla tasca della sua divisa, toglie il tappo protettivo, infila l’ago nell’avambraccio di Nadia e preme fino a svuotare del tutto la siringa.

Dopo qualche istante le gambe di Nadia cedono, Lara la afferra e la aiuta a sedersi per terra. L’infermiera sfila lentamente l’ago dal braccio di Nadia e butta la siringa nel cestino dello sporco vicino alla porta.

Nadia ha gli occhi sbarrati.

NADIA (biascicando): Mi chiamo Nadia. Un uomo, il mio padrone, mi ha rapita in un giorno di primavera. Ha tagliato la gola a mio marito. C’era profumo di pane. Lui mi ha violenta… (Scuote la testa, come per scacciare via la confusione e l’orrore.) Mia figlia Hanan era con me. Il mio padrone ha tenuto lei perché è giovane e bella. Sono stata rivenduta cinque volte. Gli altri miei figli, Zara e Mallbat, sono con Bihar, mia sorella. La nostra casa è stata distrutta, devo andarli a prendere. (Nadia si inginocchia e implora Lara.) Devo portarli a casa. Devo portarli a casa.

Nadia crolla a terra, mentre Lara le carezza la schiena e la fissa impotente.

FINE.

La partita che finiva sempre in parità
Dario Pezzotti

N = Voce narrante
E = Effetto scenico
V1 = Voce 1
V2 = Voce 2

N: Era una giornata umida al campo da tennis, una come tante altre in quella lunga estate che raramente aveva permesso ai giocatori di osservare il cielo con degli occhiali da sole.
Le pozzanghere, tristi testimoni di una sfida abbandonata in fretta e furia, riflettevano anche quel giorno un gregge di nuvole biancastre, facendo apparire quel campo cementato come un quadro astratto ad uno dei pochi passanti. Quel campo non era un qualcosa da mostrare, qualcosa di cui andare orgogliosi, coperto com’era da una rete scadente, da mura instabili e da cartelloni sbiaditi, eppure, anche quel giorno, come ogni altro, qualcuno ne avrebbe apprezzato la presenza con tutto il cuore.​
E: Sei rintocchi di campana.​
N: Quando i due sfidanti si presentarono al campo le campane si ricordarono di eseguire i consueti sei rintocchi, indicando che il silenzio stava per cessare definitivamente.​
V1: Anche oggi il tempo non è dei migliori, visto?​
V2: E quando mai lo è stato?​
V1: Due anni fa se non sbaglio qualche giorno di sole lo abbiamo preso.​
V2: Ma sei fuori? Quell’estate ha piovuto così tanto che abbiamo persino provato a giocare con gli impermeabili. Quella che dici tu è di tre anni fa!​
V1: Ah! Ah! vero, Hai ragione Cicco! E ti ricordi quando abbiamo cercato di giocare con gli ombrelli? Una volta avevo fatto punto respingendo la pallina con la tela! Che risate Ah! Ah!
V2: Ancora non me ne capacito, comunque non era regolare!​
N: I due risalirono il breve pendio erboso, spalancarono il cancello arrugginito e poi si posizionarono l’uno opposto all’altro, come le lancette del campanile.​
Cicco impugnò subito la sua Wilson, il regalo migliore che avesse mai ricevuto: modello Federer, autografata, leggera e maneggevole, ottima per un giocatore esperto ed agile come lui. Becco invece tirò fuori la sua fedele Hammer, con calma, quasi se ne vergognasse. Era mezzo kg di racchetta, ignorante come una mazza da baseball e per questo perfetta per lui: lento, ma instancabile e potente. Non per nulla lo chiamavano Becco.​
V2: Riscaldamento?​
V1: Pooo-po-pooo!​
V2: Ah sì? Te lo faccio vedere io chi è il pollo! Pallina allora!​
E: Poc!​
V1: Minacce a vuoto, tanto sai che finirà come ieri.​
E: Spoc!​
V2: A proposito, com’è andato il colloquio?​
E: Poc!​
V1: Come gli altri. “Le faremo sapere.” Sti infami…​
E: Spoc!​
V1: Sti infami mi hanno chiesto se avevo fatto esperienza presso…​
E: Poc! ​
V1: …qualche azienda, almeno triennale. Ma se mi sono laureato l’anno scorso!!​
E: Spoc!​
V1: Per 400 euro al mese poi. Mi sono stupito…​
E: Poc!​
V1: …che non mi abbiano chiesto se conoscevo almeno 6 lingue.​
N: La palla tornò dalla parte di Becco, delicatamente, ma la rabbia dovette sfogarsi e lo fece sul punto sbagliato: il manico.​
E: Sbeng!​
N: Fuori di tre metri sulla sinistra.​
V2: Palla mia! Ti avevo detto che ti serviva allenamento.​
V1: Mi distrai! Te invece? Hai trovato qualcosa da fare?​
V2: No, per ora sono sempre nella cooperativa di cui ti ho parlato… ancora non mi hanno dato lo stipendio degli ultimi tre mesi, ma ormai è così ovunque.​
N: Cicco lanciò in aria la pallina, indicando che per oggi avrebbe glissato l’argomento.
E: Poc!!​
V1: Infame!​
E: Spoc!​
V2: Ma se l’hai presa? ​
E: Poc!​
V1: Sì, ma ci ho quasi perso il braccio!​
E: Spoc!​
V2: E a che ti serve? Tanto non lavori.​
E: Poc!​
V1: Sarai stronzo! Beccati questo!​
E: Spoc!!​
N: La sassata arrivò centrale, vicino alla linea, rimbalzando troppo a ridosso di Cicco per permettergli una respinta in contro balzo. 15-0.​
V1: Chi ben comincia…​
V2: È a metà. ​
V1: Dell’opera? forse.​
V2: No, a metà e basta! ​
N: Cicco passò l’indice teso lungo la gola, indicando a Becco che prima della fine della partita lo avrebbe decapitato. ​
E: Poc!​
N: Morbido e preciso il tiro arrivò a due passi dalla rete, nell’angolo del quadrato, imprendibile per Becco che si aspettava tutt’altro tipo di battuta. 15-15.​
V2: Ace!​
V1: Bravo! Gasati finché puoi! Ti consiglio di approfittarne ora, che dopo le prendi.
N: Cicco seguì il consiglio di Becco e riuscì a portarsi sui 5 set a 2, nonostante le carriole di insulti che gli sversava addosso il suo scurrile amico!​
V1: Ma allora sei un pezzo di merda, la smetti di tirarle una lunga e una corta? Non sento più le gambe.​
V2: Nemmeno quelle ti servono se non lavori.​
V1: Ma quanto sei infame! Basta, adesso vinco io!​
V2: Non è che se lo dici ad alta voce accade.​
V1: Come no? Ti ho raccontato cosa mi è successo settimana scorsa?​
V2: No!​
V1: In pratica…​
E: Spoc!​
N: Becco approfittò della distrazione dell’avversario per piazzare una violenta battuta, la quale impattò proprio sulla riga di destra.​
V1: 40 pari! ​
V2: Bastardo!​
V1: Ma ci parli a tua nonna con quella bocca? ​
V2: Certo, per questo la uso prima con te. Che volevi dirmi comunque?​
V1: In pratica settimana scorsa una ragazza ci ha provato con me.​
V2: Ma quando mai!​
V1: No! No! Dico sul serio! Mi ero detto: questa settimana voglio incontrare una ragazza, e puff! Il giorno dopo me ne sono trovata una davanti.​
N: Becco afferrò una delle palline non ancora finite nel prato accanto, e la scagliò oltre la rete, con una precisione a lui insolita.​
E: Spoc!​
E: Poc!​
V2: Bel colpo!​
E: Spoc!​
V1: E lascialo andare allora!​
E: Poc!​
V2: Mai! Ma come è finita quindi?​​
E: Spoc!​
V1: Non saprei!​
E: Poc!​
V2: Cioè!​
E: Spoc!​
V1: Mah! Alla fine voleva una notte e via, e così non l’ho più cercata. Sai che non sono il tipo!
N: A quella confessione Cicco mancò la palla, con tanta veemenza che sentì il gomito implorare di non farlo mai più o avrebbe fatto le valige in direzione dell’ortopedia. Vantaggio per Becco.​
V2: Dai! Non vale. Mi hai distratto! Hai presente? Se ci fossi stato io in quella situazione…
V1: Avresti fatto esattamente la stessa cosa, perché siamo due coglioni!​
V2: Che ci vuoi fare? Io ancora all’amore ancora ci credo.​
V1: Troppi film Disney, te lo dico io! Ci hanno fatto male! Se avessimo guardato più Beautiful, Dawson Creek o OC a quest’ora saremmo circondati da ragazze!​
V2: Forse hai ragione, ma preferisco così! Dai batti, che faccio punto e andiamo a casa. È già la mezza!​
V1: Ok! Ma il punto te lo devi sudare.​
E: Spoc!​
V1: E te invece? ​
E: Poc!​
V2: Come al solito… nessuno mi caga… ​
E: Spoc!​
V2: … e anche se ce ne fosse una non avrei i soldi per invitarla fuori.​
E: Poc!​
V1: Non perdere la speranza! Sei scemo ma non cattivo!​
E: Spoc!​
V2: Che merda che sei! ​
E: Poc!​
V1: Quando vai a segno dimmelo…​
E: Spoc!​
V2: … intanto ci vado io!​
N: Cicco osservò la pallina, colpita di taglio, insaccarsi pochi centimetri oltre la rete, senza nemmeno provare a prenderla.​
V1: E daiiii… Fammelo fare questo dannato punto!​
V2: Col cazzo! Siamo 5 a 3 ora, direi che faccio ancora in tempo a batterti! Ma se hai fretta puoi sempre darmela vinta.​
V1: Sì, credici! Piuttosto rima qua fino alle 7!
N: Alle 7 e 15 il campanile risuonò timidamente, quasi temesse l’ira di Cicco nel ricordargli la promessa che aveva fatto. ​
Il sole apparve sullo sfondo, per la prima volta, dopo aver oltrepassato le nuvole cariche di pioggia che il debole vento aveva fino a quel momento tenuto lontane. Entrambi i giocatori però erano consapevoli di come sarebbe andata a finire, e ne ebbero la conferma quando le prime gocce iniziarono a scendere.​
6 a 5. 40 pari, vantaggio e match point per Cicco.​
V2: Lo sapevo!​
V1: Di che ti lamenti? Ti manca un punto per vincere!​
V2: Della pioggia mi lamento, almeno oggi volevo tornare a casa asciutto.​
V1: È la vita amico mio. Ogni giorno c’è sempre qualcuno sopra di te che ti piscia addosso.
V2: Che poeta​
V1: Potrei continuare dicendo che ci va ancora bene finché si tratta solo…​
V2: Fermo, Fermo, ho capito. Dai Batti Becco!​
V1: Vuoi litigare?​
V2: Ma cos… Ma crepa! È una battuta così orribile che mi dovrò confessare solo per averla sentita.
V1: A me è piacitua!​
V2: A te piace anche l’ananas sulla pizza…. non fai testo! Forza Batti!​
E: Spoc!​
V1: Non è un brutto abbinamento.​
E: Poc!​
V2: Un po’ come gamberetti, aglio e salame!​
E: Spoc!​
V1: Perché non hai fantasia!​
E: Cicco immaginò il sapore della pizza che Becco aveva ordinato tre giorni prima, al ristorante, e guarda a caso sbagliò il punto. 40 pari.​
V2: È un’idea talmente disgustosa che mi trema la mano!​
V1: Non inventare scuse. ​
La pizza è come la vita, per essere buona deve avere elementi in contrasto tra loro, che ti facciano assaporare diversi piaceri, altrimenti tutto si riduce alla monotonia.​
V2: Per questo la tua vita va a puttane!​
E: Spoc!​
V1: Può darsi! Forse se cambiassi aria… ​
E: Poc!​
V2: Stai ancora pensando di andartene all’estero?​
E: Spoc! ​
N: Le gocce stavano iniziando a scendere con più veemenza, ma Becco riuscì ugualmente a indirizzare il colpo, scaricando in quel tiro molte delle sue paure. La vide toccare l’angolo esterno, rimbalzare, allontanarsi attraverso un buco, oltre la rete, oltre il prato.​
V2: Perfetto! Un’altra pallina persa. Finirò a pagare l’università anche a quelli della Decathlon.
V1: Vantaggio mio!​
V2: No! Non posso accettare di finire ancora in pareggio!​
V1: Cosa vuoi che sia? È successo talmente tante volte… una più, una meno. ​
V2: Dovremmo andare ai 7 nel caso.​
V1: No, non lo faremo. O vinci o pareggiamo!​
N: In quel momento Becco decise però in cuor suo che era il momento di cambiare qualcosa. Decise che se avesse perso se ne sarebbe andato dall’Italia, come programmava da tempo, in cerca della fortuna che il suo paese gli stava negando.​
Decise di mettere alla prova il destino, e con quel pensiero andò alla battuta.​
E: Sbeng!​
N: La palla impattò sul legno, ma il colpo fu sufficiente a scagliarla oltre la rete, lentamente, centrale, un tiro talmente facile che era già un punto ipotecato per Cicco.​
V1: Ho vinto!​
N: La palla però atterrò in una pozzanghera che si stava ingrandendo sotto i colpi della pioggia, e lì rimase, dopo aver eseguito un ridicolo rimbalzo.​
E: Splatc!​
V2: Ma cazzo! Non è possibile! Ancora una volta 6 pari!​
V1: Incredibile! ​
V2: Incredibile sì. Magia nera dico io! Hai venduto l’anima al diavolo? È così importante per te pareggiare? Dannato stronzo!​
V1: Questa volta lo era. ​
N: Becco sorrise e corse verso l’amico, tirandogli un cazzotto prima di trascinarlo via per il braccio!
V1: Dai corri, prima di venire fulminato. Mi batterai domani!​
V2: Lo dici sempre, ma tanto finirà allo stesso modo.​
V1: E la cosa ti rende triste?​
V2: No, non più di tanto!​
V1: Bene, nemmeno a me.​
N: I due quindi oltrepassarono il prato sino all’automobile, di fretta e furia, completamente fradici, abbandonando il campo al suono incessante dei tuoni e della pioggia.​
Al centro del quadrato bianco la pallina rimase immobile, in attesa che le intemperie cessassero ancora una volta, ma soprattutto, in attesa che entrambi tornassero a raccoglierla il giorno seguente, come sempre era stato.

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