Noemi De Lisi, “La stanza vuota”

NOEMI DE LISI

di Maddalena Lotter

Il libro d’esordio di Noemi De Lisi, uscito nel 2016 per Ladolfi con il titolo “La stanza vuota” e finalista al Premio Carducci 2017, è un’opera sinistra, che ci pone di fronte alla stortura che giace tranquilla, e poi inquieta appena arriva alla sua saturazione, in ogni dinamica famigliare (considerato che ogni dinamica famigliare sviluppa nel tempo una dinamica nevrotica); “La stanza vuota” ci riconduce in ogni momento a quel vissuto perturbante che abita nella quotidianità di ogni relazione con l’altro e con il sé; Das Unheimliche nella terminologia freudiana. Chiamo in causa Freud giusto perché è impossibile non riconoscere che la raccolta di De Lisi è intrisa di riferimenti voluti o inconsapevoli ad alcuni topoi della psicanalisi. Basterebbe già dire che le tre sezioni che compongono il libro si intitolano: Io e mia madre, Io e Anna, Noi: una dialettica morbosa che si risolve in un Noi finale non propriamente felice e tantomeno risolutivo. “La stanza vuota” è infatti una storia assolutamente non lineare, quanto piuttosto circolare, concentrica, e che procede per saturazione: ogni lirica sembra montare su se stessa fino a un punto di sfinimento per poi sgonfiarsi. Vengono in mente alcune pagine della musica di Béla Bartók, una per tutte “Musica per archi, percussioni e celesta” (1936) , che non a caso viene definita dalla critica una musica dell’incubo o musica della notte; con questo lavoro, infatti, Bartók indagò le possibilità ‘kafkiane’ del linguaggio musicale, ideando una macchina dell’incubo perfetta (l’orchestra) che, per dipingere l’evento onirico, si riempie fino a un apice di saturazione cromatica di disperazione, in cui tutti gli strumenti – compresa l’inquietantissima celesta – partecipano forsennatamente, e piano piano poi si svuota fino a far risuonare nell’aria pochissime note, come in un’uscita dal sogno.

Dicevo che “La stanza vuota” è un libro ricco di percorsi psicanalitici. Il rapporto con la madre nella sezione Io e mia madre si rivela sin dal principio come un legame viscerale e nevrotico, che si configura nel testo tramite la scelta frequente del dialogo: “Un’altra madre per un’altra vita avresti potuto averla, figlio mio” (p.11), “La casa era buia, solo una stanza era accesa: “Ora mamma, perché te ne sei andata?” (p. 12) o anche “Non ti posso vedere infelice, figlio mio” (p.14), tutti rapidi sketch questi, frammenti di vita domestica che portano l’Io lirico e il lettore all’esasperazione. “La stanza vuota” è un libro che parla sostanzialmente di questo, infatti, dell’esasperazione dei rapporti, di relazioni tirate allo sfinimento e di legami fusionali che prosciugano ogni energia.
Spingendosi fino in fondo all’inquietante vicenda di essere un Io, nella seconda parte del libro l’autrice è in grado di costruire un quadro rocambolesco e ambiguo sul tema del Doppio: chi è Anna? Chi è Io? Anna è l’Altro o è anche l’Io? “Cara Anna, oggi è arrivata l’ennesima lettera di Anna, l’ho distrutta.” (p. 42) o anche “…Non potevo trattenere l’altro da me” (p. 37). Il lettore è confuso. Il lettore è portato a sentirsi confuso dalla narrazione di vicende annodate, di storie oscure che non possono svolgersi in modo lineare perché la vita, di fatto, lineare non lo è mai. Noemi De Lisi viene a raccontarci fondamentalmente questo: che la vita è misteriosa e indecifrabile, e che la parola non è in grado di trovare dei confini per definirla se non nel suo incessante movimento. Nell’ambientazione notturna di una città umida, spettrale e stremata (la sonnambula Palermo forse, o un’altra città mentale) Noemi De Lisi voleva suggerirci, con un realismo onirico, questo movimento che fa l’esistenza di arrotolarsi su se stessa e di confondere le carte trascinando l’Io nell’angoscioso e nel terrifico.
Nella prima parte del libro, ad esempio, l’Io che parla è maschio, ma è subito l’ambiguità a prevalere su qualsiasi definizione: “Da ogni profilo somigliavo a mia madre, / gli altri me lo ripetevano come un insulto: / Sei troppo magro per essere un maschio!”. De Lisi costruisce un vocabolario poetico capace di portarci nella notte dell’anima, dove niente è certo e tutto si confonde nell’angoscia e nella nostalgia di un’infanzia bella che in fondo non è mai esistita.

 

Non è solo la forte inquietudine degli argomenti che sceglie De Lisi, a fare di questo libro un’opera singolare nel suo genere, ma anche la cifra stilistica, che conduce questa raccolta a dissociarsi dalle più frequenti tendenze della giovane poesia italiana: il verso lungo di De Lisi è un esperimento estenuante e filamentoso come la trama del suo racconto, come il bene di una madre che non vorrebbe mai accettare il distacco, l’a-capo con il proprio figlio.
“La stanza vuota” è un lavoro volutamente esasperante, misterioso, di cui non va pretesa una comprensione in termini di chiarezza: dalla scrittura di Noemi De Lisi non dobbiamo aspettarci che ci dica qualcosa di definitivo, ma che ci introduca in un universo di situazioni e di stati cangianti, irrequieti.
Per la sua onestà nei confronti della parola, che non può quasi mai racchiudere l’inquietante fenomeno della vita ma sceglie di limitarsi a commentarlo, “La stanza vuota” è un esordio promettente, ad opera di un’autrice poliedrica la cui principale ambizione è narrativa (è lei stessa a dirlo ed è Giulio Mozzi a confermarlo nella prefazione alla raccolta), anche se in un’epoca di ibridazione dei generi quale è la nostra, forse queste distinzioni non sono neanche importanti. Piuttosto, buon lavoro per il futuro a Noemi De Lisi e al suo singolare canale espressivo!

 

VI

Ogni settimana, per farci piacere, il nonno mandava l’ossobuco.
Bussava il garzone e ci porgeva il pacchetto col nostro cognome.
“E’ già pagato”, rassicurava e voltato tutto di fretta, se ne andava.
“C’è poca carne”, lamentava sempre mia madre con una smorfia.
Cucinava afflitta, intontita, rimestando la casseruola col vino:
una mano sul mestolo, l’altra sulla guancia posata in uno schiaffo.

Nella casa ferma, in silenzio, ancora ci spaventava il campanello.
Abituati solo al rumore della chiave e del passo che la seguiva.
Così sgranati gli occhi dopo il nuovo trillo, recitavamo isterici:
“Chi sarà a quest’ora?”
“Come, non lo sai? E’ l’ossobuco.”
“Ah, speravo una volta in qualcosa di nuovo.”

La carne ribolliva e i capelli di mia madre si scioglievano
a ciocche sudate sul viso: “E’ tutt’osso” mormorava, “solo osso”.
Finalmente chino il capo sul piatto, lei ancora s’attardava a pregare:
“Benedici, signore, questi doni…” a occhi chiusi recitava.
Mentre io già cominciavo a mangiare solo ma lento e accorto
per la paura di ingoiare una scheggia di osso.

 

VIII

Con tutto me stesso avrei voluto strapparmi,
tirarmi via, colpirmi, rimanendo fermo senza urli
per non svegliare mia madre col mento sul petto
seduta al tavolo della cucina nel suo respiro fioco.

Immaginare un botto in fondo al corridoio nero,
scambiare quel rumore per il nome di un morto,
fermarmi nel buio con l’orecchio teso a tremare.
Fare finta di niente, tornare nella mia stanza vuota,
gemere piano nell’insonnia: “Mamma, dormi ancora?
Ridere in un sussurro per quel dolore, smettere di dire:
‘Un corpo, una sola vita. Un corpo, una sola volta”.

Avrei voluto voltarmi ed essere un altro in silenzio
non ricordare più di aver parlato ad alta voce,
di essermi dimenato senza musica alla festa,
di essere stato veramente io in tutto quel fragore.

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Noemi De Lisi è nata a Palermo nel 1988. E’ laureata in “Giornalismo per uffici stampa” presso l’Università degli Studi di Palermo con una tesi dal titolo “Dalla notizia al romanzo: volti diversi della cronaca nera”. Nel 2009 le sue poesie sono state pubblicate su Nuovi Argomenti N° 45. ha frequentato corsi di scrittura con Giulio Mozzi e Carola Susani. Nel 2015 è semifinalista al Premio Rimini e viene inserita nell’antologia “Post ‘900. Lirici e narrativi” edita Ladolfi

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